giovedì 17 gennaio 2013

Petrolio, gas e uranio: la Guerra Infinita ora trasloca in Mali


di Giorgio Cattaneo

Tripoli e Gaza, Damasco e Kabul, Baghdad e Mogadiscio. Missili, droni e petroliere che salpano con scorta militare, per paura dei pirati. Ricchi contro poveri, secondo un copione sempre più confuso: la secessione filo-occidentale del Sud-Sudan petrolifero appena infrastrutturato dalla Cina e il rapido congelamento della “primavera araba”. Eliminato Gheddafi, ora tocca al Mali, il “nuovo Afghanistan”, raccontato come ultimo terreno di lotta scelto dal radicalismo islamico per battersi contro l’Occidente. Non è solo quello, avverte Ennio Remondino: al contrario dell’Afghanistan, il Mali custodisce immense riserve di petrolio e gas algerino, accanto a nuovi giacimenti scoperti in Niger e in Mauritania. Inoltre, il Mali confina con le maggiori riserve mondiali di uranio, ed è al centro delle rotte europee dei clandestini e della droga. Dall’aprile 2012, “Al Qaeda nel Maghreb islamico” (Aqim) controlla questo territorio: e da lì può influire sulla trasformazione radicale delle rivolte nei paesi arabi.

Se il regime di Gheddafi poteva qualificarsi come “stabilizzatore” dell’area, arginando il fondamentalismo armato, la regione ha perso l’ultimo grande politico autorevole nel lontano 1978:

Thomas Sankara, padre fondatore del Burkina Faso, era divenuto il leader del riscatto nonviolento dell’Africa. Non sopravvisse allo storico discorso del vertice di Addis Abeba sulla cancellazione del debito con cui l’Occidente perpetua la schiavitù finanziaria del continente nero e la rapina delle sue risorse: Sankara fu assassinato in un attentato che inchieste indipendenti attribuiscono alla Francia, con l’appoggio della Cia e di forze africane, dalla Costa d’Avorio alla Libia di Gheddafi. Unico capo di Stato africano a chiedere formalmente la liberazione di Nelson Mandela, allora detenuto, Sankara guidò una rivoluzione radicale e senza violenze, con un unico obiettivo: restituire sovranità politica ed economica all’Africa, cominciando dal Burkina Faso. Era una rivoluzione pericolosa, perché potenzialmente contagiosa: mentre il Burkina è poverissimo, i suoi vicini sono ricchi di materie prime. Niger, Mauritania. E appunto: Mali.

Una guerra contro i “crociati”: questo l’odierno proclama di “Aqim”, che minaccia i 5.000 francesi tuttora residenti nel paese sub-sahariano. Sul fronte opposto, l’esercito maliano è appoggiato dalla Cedeao, Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, con 3.500 soldati provenienti da Niger, Nigeria e Togo, più Senegal, Benin, Ciad e Burkina Faso, a bilanciare la defezione di Costa d’Avorio, Mauritania e Liberia, mentre l’Algeria resta su posizioni attendiste perché non gradisce “aiuti” occidentali nell’area. Venti di guerra: «Sul fronte occidentale – scrive Remondino su “Globalist” – da sempre Usa e Francia si sono dichiarati favorevoli a una soluzione armata stile Libia, disponibili per fornire logistica e addestramento». Secondo “Washington Post”, “Le Figaro” e “Jeune Afrique”, gli Stati Uniti potrebbero utilizzare droni, mentre Parigi ha già dato il via alle forze speciali già presenti nella regione, dotate di supporto aereo. Con 500.000 sfollati su 15 milioni di abitanti, l’opzione militare era data per scontata da mesi: Onu, Cedeao,  
Unione Africana e Ue condividono il timore di un’implosione del Mali attraversato da spinte secessioniste, col radicamento di gruppi islamici radicali e la destabilizzazione dell’intera regione.

Pesa l’incertezza del potere locale, tra scosse e colpi di Stato come quelli organizzati da Amadou Toumani Touré, ex generale, alle prese con le ribellioni nel nord del paese e i movimenti Tuareg dell’Azawad, un milione e mezzo di nomadi. Clientele tribali: «Il favoritismo verso dirigenti mediocri, la corruzione, l’incanalamento delle risorse verso la capitale che assorbe il 90% di abitanti a danno delle regioni del nord e la penetrazione dei gruppi jihadisti di matrice qaedista nel Sahel – scrive Remondino – hanno progressivamente eroso le capacità mediatrici di Touré», convinto di poter controllare Aqim anche grazie al supporto occidentale – uomini e mezzi – nella “lotta al terrorismo”. Ma il vento che spira dal Mediterraneo cambia in fretta, aggiunge Remondino: tra l’Africa che assaggia la democrazia e l’estremismo c’è di mezzo la Libia. Sono almeno 2-3 mila uomini ben addestrati i reduci Tuareg della guerra libica combattuta al fianco di Gheddafi: tornati a casa, nel nord del Mali, hanno chiesto l’indipendenza della regione, pena l’avvio della guerriglia, affrontata da un esercito maliano «demotivato» e assistito dai francesi.

La situazione precipita a marzo, con il golpe del capitano Amadou Sanogo, che spacca in due in paese sbriciolando l’esercito. Risultato: qaedisti insediati a Timbuctù e in gran parte del territorio, fino alla periferia della capitale, Bamako. La guerriglia islamica diretta da comandanti algerini si prepara a esercitare la “legge coranica” nelle città conquistate e i militari invocano l’aiuto internazionale. Capitola il golpista Sanogo, che si impegna a restituire il potere formale al Parlamento, mentre l’Onu rifiuta di intervenire con una forza armata, lasciando così esplodere lo scontro – militare, politico e religioso – tra i Tuareg dell’Azawad e i jihadisti. Vincono questi ultimi, scacciando i Tuareg. «Su invito del “Consiglio per la Sicurezza e la Pace” riunito a luglio dall’Unione Africana ad Addis Abeba – racconta Remondino – si cerca di ottenere l’invio di una forza militare internazionale per fronteggiare i qaedisti ed evitare il loro radicamento nel nord», mentre il Mali torna a invocare l’aiuto dell’Onu. «Nell’attesa, la Francia decide per tutti, con i propri parà ma con l’aiuto dei droni  Usa». Servirebbe un politico prestigioso, ma non c’è più. L’ultimo è stato ucciso 35 anni fa. Era pericoloso: sosteneva che la ricchezza dell’Africa dovesse restare agli africani.