Talvolta il lettore si sbaglia. O forse sono i titoli dei libri, messi lì a bella posta, come specchietti per le allodole, a trarlo in inganno. Sta di fatto che quando ho visto in libreria Elogio dell’egoismo di Armando Torno edito da Bompiani non ho resistito e l’ho preso in mano. Come sempre, con estrema circospezione, l’ho sbocconcellato, leggiucchiando qualche pagina qua e là, e, nonostante la perplessità, l’ho acquistato. Mi sono voluto ingannare da me, perché quella prima impressione è stata poi clamorosamente confermata dalla lettura.
Armando Torno, editorialista del Corriere della Sera, è onesto fin dall’inizio e dichiara nella prima pagina della premessa i suoi intendimenti. «Questo libro non è una vera e propria apologia dell’egoismo, ma un invito a pensare di più a noi stessi. O se volete: a non farsi male ogni giorno più di quanto ne facciano a noi gli altri». Tutto qui e niente di più.
Non dunque una tesa riflessione sul senso profondo dell’egoismo ma semplicemente un piccolo compendio di bon ton adatto al tempo calamitoso odierno, scandito dall’ingerenza altrui sulle nostre esistenze. Una forma di egoismo temperato, pettinato, smussato, condito dalla buona creanza che ci permette di vivere un po’ più in armonia con gli altri, utilizzando qualche benefico paletto che perimetri meglio il nostro territorio. È così che vengono sciorinati, nei vari capitoli, una serie di accorgimenti e consigli che sono una sorta di brodino tiepido e assai poco originale.
Nel capitolo d’esordio il problema affrontato è quello dell’ansia, nel nostro tempo rappresentata dall’eterna connessione cui ci sottoponiamo. Basta però, pensando egoisticamente a se stessi, non rispondere a questa invadenza, per abbassare il livello di guardia della nostra tensione e tutto torna a calmarsi intorno a noi. Lo stesso vale per mail, Internet e altri social network alla moda.
Gli altri capitoli ci spingono, anche qui riscoprendo il nostro amor proprio, a rispolverare l’ozio e a meditare sui vantaggi che reca. Poi non bisogna vendere se stessi, cioè bisogna, sì lavorare, ma non farsi assorbire troppo dal lavoro, per evitare una forma di prostituzione cui non vogliamo sottostare.
Nei confronti del prossimo trovo una delle poche indicazioni che più mi sento di segnalare. Che il nostro prossimo non sia buono (con qualche rara eccezione) è cosa certa, per cui bisogna organizzare le proprie difese «le quali, in molti casi, nascono da una simulazione travestita da educazione o da creanza, tanto che non bisogna mai dimenticare quanto l’egoista sappia essere cortese».
Così come sapiente è, per tenere lontani i seccatori, la citazione da Baltasar Gracian: «Non si deve concedere tutto né a tutti. Il saper negare ha una sua importanza quanto il saper concedere». E da buon gesuita qual era aggiunge «Un no indorato appaga più di un sì detto bruscamente… non si devono negare d’un colpo le cose, bisogna somministrare a sorsi il disinganno». Alla faccia dell’amore cristiano sarei tentato di dire, se non fossi d’accordo!
Il capitolo sull’amore poi dispensa solo un’altra piccola, seppur già nota, citazione questa volta da Dostoevskij: «Dicono taluni (e io l’ho udito e letto) che il supremo amore del prossimo è al tempo stesso anche supremo egoismo», che fa coppia con la frase d’esordio di Gabriel Laub: «La massima forma di egoismo è l’amore. Non amiamo i nostri partner, ma soltanto la loro capacità di amare noi».
Sarebbe bastato portare il discorso su questo vertiginoso punto per costruire un saggio del tutto diverso e ben più intrigante. Perché a parlare di egoismo si sbatte contro il suo contraltare: l’altruismo e contro la loro presunta contrapposizione.
È luogo comune pensare che l’altruismo sia un sentimento buono e caritatevole, di buon auspicio per se e per gli altri. Sentimento che denota bontà d’animo e predisposizione nei confronti dei nostri fratelli umani e non. Così come è luogo comune pensare che l’egoismo sia sentimento pernicioso e che vota, chi lo pratica, alla solitudine più sterile e rabbiosa. Niente di più falso, la melassa altruista nulla ha a che spartire con la luciferina iridescenza dell’egoismo.
Che poi l’egoismo non porti a nulla è altrettanto falso, perché non c’è egoismo che non si trascini almeno un po’ di vantaggio per gli altri. E l’egoista, talvolta e suo malgrado, si trova a vestire i panni del benefattore. Che importa agli altri l’involontarietà del suo gesto se sono loro a beneficiarne? Che poi i due sentimenti siano almeno in parte opachi è cosa nota, perché anche l’altruismo nasconde oscure pieghe di egoismo che non possono essere taciute. Si delinea così una raffigurazione del mondo assai poco rassicurante ma carica di implicazioni positive che non possono che non coinvolgere l’altro grande sentimento a lungo considerato mefitico: l’odio.
L’odio, che si contrappone all’amore come sentimento cristallino, tagliente e dirimente. L’odio che non implica affatto la violenza, ma la volontà di superare il proprio avversario che si riconosce tale, e degno del proprio odio, proprio perché lo si considera molto. Come nel caso dell’amore. Non siamo capaci di amare una persona che non stimoli in noi forti sentimenti positivi, così come non sappiamo odiare chi non consideriamo come degno di stima.
È contro l’indifferenza, il sentimento più vischioso che esista, che bisogna combattere e non contro l’odio o l’egoismo.
Tutto questo non ho trovato nel saggio di Torno che si accontenta, ma questo voleva e quindi non si può fargliene una colpa, di confezionare un manualetto per evitare le scocciature, per sedare quell’ansia d’accatto provocata dai telefonini, per cavalcare un’epoca che sempre più ci appare opprimente. A ben guardare, sembra un saggio per una ristretta cerchia di pasciuti signori di mezza età, danarosi, occupati e rincorsi da tutti. Per loro sarà pure una benedizione staccarsi dalla demonia del cellulare, ma se ci mettiamo nei panni di un giovane disoccupato che sta aspettando la sua prima chiamata per un lavoro, le cose cambiano drasticamente.
Il saggio di Torno s’infila nella scia di tutte quelle belle, bellissime lezioni (a me carissime) che arrivano da Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto, in assoluto i più citati nel saggio, che possono appunto lenire le ferite dell’anima, ma solo quando l’anima è stata ben alimentata attraverso il corpo. Perché se è vero che “non di solo pane vive l’uomo”, è pur vero che l’uomo senza pane deperisce e muore.
Per questo trovo stonato questo saggio che appare in tempi calamitosi e vorrebbe, come un’aspirina contro un cancro, guarire dai mali del tempo le nostre anime. Ben altro ci vorrebbe. Un sano, prepotente, animalesco egoismo potrebbe essere un primo unguento per questa ferita che rischia la cancrena.