di Fabio Polese (Rinascita)
I due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre non sono gli unici italiani imprigionati in terra straniera: sono circa 3mila i nostri connazionali detenuti all’estero. Poco più di 2mila sono detenuti nelle carceri europee - con in testa la Germania che ne detiene più di mille - il restante degli italiani si trova nelle carceri di diversi angoli del mondo, dall’Asia agli Stati Uniti, dall’Africa al Sud America. Ma il dato più allarmante è che, secondo i dati forniti dalla Farnesina, circa duemila detenuti devono essere ancora processati e solo una trentina sono in attesa di essere trasferiti in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla «Convenzione di Strasburgo» nei casi che riguardano le persone già condannate.
C’è chi finisce in carcere per le proprie responsabilità e chi ci finisce per una ingiustizia. Ma una cosa è chiara: in diversi Paesi vengono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali come l’assistenza di un avvocato durante gli interrogatori o la presenza di un interprete. In alcuni casi le notizie lasciate trapelare dalle autorità sono talmente poche e generiche che mancano gli elementi per fornire una idea dettagliata sul processo. Complici spesso il silenzio dei nostri media e la diplomazia italiana, che non sempre riesce a far fronte in maniera adeguata a queste situazioni.
Alcune storie corrispondono ad evidenti ingiustizie. Un esempio potrebbe essere quello di Carlo Parlanti, detenuto nella prigione californiana di Avenal e recentemente liberato dopo aver scontato l’85 per cento della sua pena. Parlanti è rientrato in Italia il 15 febbraio del 2012 da colpevole, nonostante ci fossero diverse documentazioni che è possibile quantomeno definire «ambigue» e che, tuttavia, sono state utilizzate al processo come prove contro di lui. Arrestato in Germania nel 2004 perché segnalato con un «red alert» dell’Interpool per un presunto stupro avvenuto negli Stati Uniti ai danni della sua ex compagna Rebecca White, ha scontato otto anni per violenza sessuale. Parlanti, manager informatico di Montecatini, che ha più volte denunciato diverse falsificazioni di prove contro di lui, si è sempre dichiarato innocente e, per questo, non ha mai voluto patteggiare. Se lo avesse fatto, sarebbe rientrato in Italia molto prima. «Seppur non vi sono referti medici, seppure la sig.ra White è stata inconsistente e quanto raccontato va oltre la realtà, penso che il sig. Parlanti l’abbia danneggiata psicologicamente da renderla inconsistente». Così il Giudice americano ha commentato e «giustificato» la sentenza emessa il 7 aprile del 2006 che condannava Parlanti a scontare nove anni di reclusione.
Sempre negli Stati Uniti troviamo il caso di Enrico «Chico» Forti, condannato all’ergastolo. La sua storia è iniziata la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, un produttore televisivo del Trentino che era in trattativa con il padre di Dale per l’acquisto di un albergo.
Il processo a Forti, che si è sempre dichiarato innocente, non si è basato su una minima prova che potesse inchiodarlo ma, nonostante questo, la giuria americana lo ha condannato all’ergastolo, affermando che «la Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto». Recentemente il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha presentato l’iniziativa «Una chance per Chico», che ha come obiettivo quello di raccogliere fondi per la richiesta di revisione del processo.
In India non sono solo i marò ad essere ostaggio del governo di Nuova Delhi. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono rinchiusi a Varanasi, in India, condannati all’ergastolo con l’accusa di aver assassinato il loro amico e compagno di viaggio, Francesco Montis, secondo una teoria che la polizia locale ha definito di «triangolo amoroso» e di «delitto passionale»: la Boncompagni che era la ragazza di Montis, durante il viaggio in India nel 2010, si sarebbe innamorata di Bruno ed insieme avrebbero così pensato di ucciderlo.
Nel primo esame effettuato sul corpo di Montis dalla polizia e dal medico dell’ospedale che ne ha constatato il decesso, non sono stati rilevati né lividi, né ferite sul corpo. I due giovani italiani sono stati condannati all’ergastolo nella sentenza di primo grado e in quella d’appello. «Il prossimo 3 gennaio - ha detto la mamma di Tomaso Bruno - sarà presentata l’istanza alla Supreme Court dopo la sentenza di secondo grado che ha confermato la condanna all’ergastolo».
Nelle drammatiche storie degli italiani detenuti all’estero c’è chi ha perso la vita, la storia di Mariano Pasqualin è una di queste. Pasqualin è un ragazzo di Vicenza che è stato arrestato per traffico di droga a Santo Domingo nel giugno del 2011. In una galera del posto, dopo pochi giorni dal suo arresto, il 2 agosto, ha trovato la morte in circostanze alquanto sospette. Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare in Italia la salma al fine di procedere con un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità di Santo Domingo hanno arbitrariamente deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. Questa vicenda è costellata da molte ombre, che nessuno, tra organi di stampa e istituzioni in Italia, ha voluto approfondire.
Queste storie di sofferenza e spesso anche di ingiustizie, che vengono lasciate al buio più cupo, sono solo alcune delle vicende che riguardano i nostri connazionali detenuti all’estero. Rompere il muro di silenzio, anche nei casi più scomodi, è dovere di tutti. Ogni persona, innocente o colpevole che sia, ha il diritto di essere processata regolarmente, senza discriminazioni e aiutata da quello che dovrebbe essere il proprio Stato.
Fabio Polese è autore, insieme a Federico Cenci, del libro «Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero», Eclettica Edizioni.
www.levocidelsilenzio.com
I due marò a casa per Natale
800 mila euro per farli tornare a casa per Natale. Tanto è costata la cauzione pagata dallo Stato italiano per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò detenuti in India da febbraio scorso perché accusati dell’uccisione di due pescatori indiani mentre erano imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come sicurezza contro la pirateria. L’Alta Corte del Kerala, chiamata ieri mattina a pronunciarsi sulla richiesta presentata dai legali dei due di una licenza per le festività natalizie, ha concesso due settimane a partire dal momento in cui lasceranno il Paese.
In collegamento con l’Italia, Latorre e Girone si sono detti felici e hanno ringraziato i ministri della Difesa e degli Esteri, Di Paola e Terzi, aggiungendo che torneranno in India per attendere il processo e rispettare la parola data: “Noi abbiamo una parola sola ed è parola di italiani”, hanno dichiarato.
L’Italia tuttavia conta sul fatto che possano finalmente arrivare “decisioni della Suprema Corte indiana perché rientrino finalmente in patria per essere sottoposti alla giustizia italiana”. I due fucilieri dovranno tornare a Kochi entro il 10 gennaio per attendere la sentenza della Corte suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del loro caso, contesa tra India e Italia. I due marò a casa per Natale
800 mila euro per farli tornare a casa per Natale. Tanto è costata la cauzione pagata dallo Stato italiano per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò detenuti in India da febbraio scorso perché accusati dell’uccisione di due pescatori indiani mentre erano imbarcati sulla petroliera italiana Enrica Lexie come sicurezza contro la pirateria. L’Alta Corte del Kerala, chiamata ieri mattina a pronunciarsi sulla richiesta presentata dai legali dei due di una licenza per le festività natalizie, ha concesso due settimane a partire dal momento in cui lasceranno il Paese.
In collegamento con l’Italia, Latorre e Girone si sono detti felici e hanno ringraziato i ministri della Difesa e degli Esteri, Di Paola e Terzi, aggiungendo che torneranno in India per attendere il processo e rispettare la parola data: “Noi abbiamo una parola sola ed è parola di italiani”, hanno dichiarato.
L’Italia tuttavia conta sul fatto che possano finalmente arrivare “decisioni della Suprema Corte indiana perché rientrino finalmente in patria per essere sottoposti alla giustizia italiana”. I due fucilieri dovranno tornare a Kochi entro il 10 gennaio per attendere la sentenza della Corte suprema di Nuova Delhi sulla giurisdizione del loro caso, contesa tra India e Italia.