martedì 30 aprile 2013

Viviamo più a lungo ma diventiamo vecchi più rapidamente

















di Massimo Fini

L'Istat nel ristrutturare la composizione della popolazione italiana per fasce d'età, definisce gli over 65 'giovani anziani'. E' una caratteristica tipica di questa nostra società bizantina di mettere le parole al posto delle cose credendo cosi' di mutarne la natura. Smettiamola di prenderci in giro con questa ossessione della giovinezza a tutti i costi. I Romani che erano meno ipocriti e retorici di noi fissavano l'inizio della vecchiaia a 60 anni. E cosi' è anche oggi come sa chi abbia compiuto questo fatidico compleanno. Come immutato è il periodo di fecondità della donna, che raggiunge il suo apice a 27 anni per degradare poi e concludersi poco dopo i quaranta, a meno di non ricorrere a qualche artificio tecnologico degno del laboratorio del dottor Frankenstein.

Viviamo più a lungo, è vero. Ma non nei termini cosi' clamorosi di cui ci informano, non innocentemente, gli storici e gli scienziati, secondo i quali gli uomini nel Medioevo vivevano in media 32 anni. Ora, gli uomini e le donne del Medioevo si sposavano, in genere, rispettivamente a 29 e a 24 anni (solo nella classe nobiliare i matrimoni erano molto precoci, soprattutto per motivi di intrecci dinastici). Non avrebbero avuto quindi nemmeno il tempo di crescere i primi figli, invece ne partorivano a dozzine o mezze dozzine. Come si spiega? Col fatto che parlare di 'vita media' di 32 anni è una statistica alla Trilussa, perchè quella società scontava l'alta mortalità natale e perinatale. Il confronto corretto, come sanno benissimo gli scienziati e gli storici moderni anche se lo nascondono, è con l'aspettativa di vita dell'adulto. Un uomo del Medioevo viveva, in linea di massima, 70 anni. Non a caso padre Dante fissa il «mezzo di cammin di nostra vita» a 35 anni. Oggi l'aspettativa di vita, in Italia, è di 78 anni per l'uomo e di 83 per la donna. Abbiamo guadagnato circa dieci anni, che comunque non è poco. Bisogna vedere pero' come li viviamo questi anni lucrati in più all'esistenza. Spesso, troppo spesso, li trasciniamo portandoci addosso malattie terrorizzanti, dolorose, umilianti, dimidianti, intubati, attaccati a macchine, tenuti in vita a forza dalla medicina tecnologica tanto per confortare le statistiche sulla longevità (io, come tutti, ho paura della morte, ma ho ancora più paura che i Frankenstein moderni «mi salvino»). Ma la questione di fondo non è nemmen questa quando si parla di vecchiaia nella modernità. Nella società preindustriale il vecchio, contadino o artigiano che fosse (il 90% della popolazione), restava fino all'ultimo il capo della famiglia, attorniato dai figli, dai nipoti, dalle donne, dai numerosi bambini (oggi, in Europa, solo il 3,5% degli anziani vive con i propri figli), in una società a tradizione prevalentemente orale era il detentore del sapere, conservava un ruolo e la sua vita un senso. Oggi ( a parte alcune categorie di privilegiati:i politici, gli artisti) il sapere del vecchio è obsoleto, non conta più nulla. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: «Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso tecnologico. In una tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L'agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell'adolescenza. L'uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio, nella società industriale è un relitto». Altro che 'giovani anziani'.

lunedì 29 aprile 2013

SERGIO RAMELLI: UNA STORIA CHE FA ANCORA PAURA...



A Sergio Ramelli, nell'anniversario della morte. Lo ricordiamo col suo sorriso, come molte fotografie ce lo dipingono e come molti amici lo ricordano. Aveva diciotto anni, ma un commando di sciacalli di Avanguardia Operaia, in nome dell'antifascismo, lo massacrò sotto casa a colpi di chiave inglese, spaccandogli il cranio, nella Milano degli "anni di piombo" dove "uccidere un fascista non è reato". Sergio rimase in coma per 47 giorni, prima di spegnersi in una fredda stanza di ospedale, coi ragazzi del Fronte della Gioventù al suo capezzale. 

Sergio fu vittima di una violenza cieca, ideologica e feroce. La violenza dell'antifascismo militante, che lo aveva preso di mira a scuola, al Liceo Molinari, dove era stato ritenuto "colpevole" di aver scritto un tema nel quale criticava l'operato delle Brigate Rosse, già responsabili del duplice omicidio di due militanti missini a Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Ne seguirono i "processi politici", le aggressioni verbali e fisiche, le minacce vergate sulle mura del quartiere. Fino a quando la sua foto non venne recapitata nelle mani del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia, che decise di passare alle vie di fatto e di eliminarlo utilizzando le chiavi inglesi Hazet 36, purtroppo assai in voga in quei terribili giorni. 

Al suo funerale, partecipato da molti attivisti della destra politica, si cercò di vietare il corteo funebre, mentre nel consiglio comunale milanese la notizia della sua morte venne accolta con un applauso corale, come nel peggiore degli incubi. Qualche anno più tardi venne scoperto il covo di via Bligny. a Milano, dove fu rinvenuto un vero e proprio archivio tenuto segreto per decenni dalla sinistra extraparlamentare milanese, che aveva schedato e colpito decine di attivisti di destra, magistrati, poliziotti, politici e personalità ritenute scomode. Il processo per l'omicidio Ramelli si concluse con condanne ridicole, con pene abbreviate e con assassini rilasciati dopo pochi anni di carcerazione. 

Nel primo anniversario della morte di Sergio, il 29 aprile del 1976, Prima Linea "festeggiò" con un altro omicidio, quello di Enrico Pedenovi, consigliere del Msi milanese. Lo ricordiamo, assieme a tutte le vittime di quella stagione di sangue e di odio. 

Mai più infamia, mai più antifascismo. 
SERGIO ED ENRICO PRESENTI!

domenica 28 aprile 2013

CASAGGì EMPOLI DA' LEZIONI DI STILE E DI ETICA AL PD...







CASAGGì EMPOLI – CENTRO SOCIALE DI DESTRA

CASAGGì EMPOLI: IL PD CI ACCUSA DI ESSERE VIOLENTI E PERICOLOSI. SIAMO RAGAZZI CHE SI BATTONO LEALMENTE PER AFFERMARE I VALORI DELL’IDENTITA’ E DELLA SOCIALITA’. POTREMMO SPORGERE QUERELA, INVECE INVITIAMO I CONSIGLIERI AD UN CONFRONTO PUBBLICO NELLA NOSTRA SEDE.

Casaggì Empoli, che in autunno inaugurerà un proprio spazio autonomo e autogestito anche ad Empoli, è una Comunità militante che agisce dal basso e nel solco della giustizia sociale e del volontariato. Da anni, in collaborazione con le altre strutture dell’area identitaria, opera nel campo della politica studentesca, della cultura e dell’attivismo solidale.

I consiglieri comunali del Pd empolese Alderighi, Bacchi e Pampaloni, hanno presentato una mozione nella quale parlano di un movimento – il nostro – che si richiamerebbe esplicitamente ad immagini e culture violente e quindi pericolose, che i signori vorrebbero scongiurare attraverso l’intensificazione delle campagne contro l’odio politico e per il mantenimento della memoria della Resistenza. Se così fosse il problema non sarebbe del consiglio comunale, ma della Magistratura, che dovrebbe provvedere a sciogliere l’associazione arrestandone i militanti per i reati di apologia, di ricostituzione e di incitamento all’odio. Dal momento che questo non è mai avvenuto abbiamo motivo di pensare che i tre consiglieri abbiano viaggiato un po’ troppo con la fantasia.

Le attività che svolgiamo sono quelle inerenti il volontariato, con raccolte di fondi e di beni di prima necessità per i terremotati, i senza tetto e gli indigenti; servizi di ascolto del cittadino con consulenze gratuite; cene sociali aperte a tutti; conferenze e dibattiti; concerti e serate; feste e assemblee; volantinaggi informativi e commemorazioni. Tra queste, come i tre consiglieri hanno notato, vi è anche quella dei caduti della Rsi, ma non ci pare che portare un fiore su un sacrario eretto in un cimitero pubblico sia un reato.

Potremmo querelare i tre consiglieri e magari ricavarne i soldi per finanziare una seconda sede nel circondario empolese, ma preferiamo invitarli ad un pubblico confronto nella nostra sede. Siamo ragazzi tra i sedici e trent’anni e non abbiamo alle spalle nessun tipo di esperienza criminale, violenta o fuori dalla legalità. Siamo ragazzi che hanno a cuore il futuro del proprio paese e si battono per renderlo migliore.

Chiediamo anche ai tre consiglieri, che giustamente vogliono combattere l’odio politico nella nostra città, come si pongono rispetto alle scritte minatorie che giusto tre giorni fa hanno imbrattato il portone della nostra sede. Le scritte, firmate con falce e martello, invocavano senza troppi complimenti la nostra morte e siamo certi che i tre esponenti del Partito Democratico non avranno alcun problema a condannare pubblicamente l’episodio che, ci pare, non sia mai accaduto a parti invertite. 

Ieri a Casaggì: storie d'Italia con Mario Merlino e Rodolfo Sideri



Si è svolta ieri, in una sede piena, l’attesa presentazione “incrociata” di Mario merlino e Rodolfo Sideri, che hanno dato vita ad un bel pomeriggio di confronto e di approfondimento su Alfredo Oriani (il libro di Sideri è tutto dedicato a questo autore troppo a lungo lasciato da parte) e sul contesto inerente la guerra civile e la scelta eroica di molti giovani che scelsero di combattere in grigioverde nella Repubblica Sociale Italiana. 

Rodolfo e Mario ci hanno guidati alla scoperta e alla riscoperta di quelle pagine della storia e della cultura italiana mai troppo banali: in primis la figura controversa e grande di Oriani, così fuori dagli schemi, così avanti nel prefigurare il coinvolgimento delle masse, lo spirito nazionale, la tensione spirituale di un’esistenza degna, il disprezzo per l’intellettualismo da accademia. 

E poi i racconti di Mario, quelle “Atmosfere in nero” che hanno letteralmente emozionato il pubblico, che in qualche caso le aveva vissute sulle pelle: storie di lotta e di amore, di riscatto, di testimonianza, di azione. E poi il monito ai più giovani, affinchè possano portarne il testimone con la consapevolezza del proprio tempo e la volontà di conquistare il futuro. 


A Rodolfo e Mario vanno i nostri ringraziamenti, perché in tempi di buio pesto, seppur per poche ore, siamo usciti a riveder le stelle.


PIAZZALE LORETO




L’enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del/ contadino/ Manes! Manes fu conciato e impagliato / Così Ben e la Clara a Milano / per i calcagni a Milano / Che i vermi mangiassero il torello morto...

venerdì 26 aprile 2013

UN ALTRO 25 APRILE DAI CADUTI DELLA RSI...


Anche quest'anno, come ogni 25 aprile, Casaggì era al sacrario dei caduti della Rsi di Trespiano. Con noi tante persone: cittadini, militanti, reduci e tantissimi giovani in una compostezza unica. Un fiume composto di persone in fila, in silenzio, con un mazzo di fiori o una rosa in mano, con in testa un tricolore e nel cuore la certezza che quei caduti, così bistrattati da quel mondo vile e infame che è il prodotto della loro sconfitta, non hanno combattuto invano. 

Si ringraziano i presenti, poi prende la parola Corrado, un Uomo che scelse di partire volontario nelle Fiamme Bianche per riscattare l'onore perduto dopo l'8 di settembre. Indossa una divisa di bersagliere, anche se, come dice sempre "questa divisa, per lo Stato italiano non ha alcun valore". Ma lui la indossa lo stesso, tutta piena di medaglie al merito: non per vanagloria, ma per sfida, per testimonianza, per quella voglia di riscatto che ha animato una lotta pura. Quella divisa, Corrado, non se l'è mai tolta. Certe cose passano, altre no. 

Sull'epitaffio c'è scritto: "Bisogna portare ai vivi che sono morti la fiaccola dei morti che sono vivi". E' quello che cerchiamo di fare ogni giorno, con umiltà e dedizione.

mercoledì 24 aprile 2013

25 APRILE: CASAGGì AL SACRARIO DELLA RSI. IL COMUNICATO.




25 APRILE: CASAGGì COMMEMORA I CADUTI DELLA RSI A TRESPIANO.
PORTEREMO UN FIORE SULLA TOMBA DI QUEI RAGAZZI CHE SCELSERO DI DIFENDERE L’ITALA E DI RISCATTARNE L’ONORE DOPO L’8 SETTEMBRE. NON ACCETTIAMO LEZIONI DA CHI CERCA DI RIACCENDERE L’ODIO POLITICO E IDEOLOGICO.

Anche quest’anno Casaggì sarà al sacrario dei caduti della Rsi di Trespiano per rendere omaggio ai ragazzi che dopo l’8 settembre scelsero di non cambiare bandiera e di riscattare l’onore perduto. Il nostro è un atto dovuto, che vogliamo rimarcare ogni anno affinchè dal basso possa diffondersi una cultura che sia in grado di riconoscere ai vinti quella dignità di combattenti e di volontari che ha animato le loro gesta.

Con noi ci saranno i protagonisti di quei giorni, che testimonieranno le ragioni di una scelta che, molti anni più tardi, resta ancora un monito alla migliore gioventù: il coraggio di osare, di donare tutto – anche la vita – ad un’Idea di Patria e di Stato.

Non saremo a Trespiano contro qualcuno o qualcosa, ma solo per portare un fiore sulla tomba di quei ragazzi che le Istituzioni democratiche del paese hanno infangato e relegato ai margini, demonizzandone le gesta e utilizzandone i valori come capro espiatorio.

La dialettica resistenziale, strumentalizzata dalla sinistra radicale fiorentina un paio di volte all’anno per recuperare consensi e compattare le file, ha etichettato la nostra commemorazione – che come sempre si svolgerà silenziosamente e compostamente – quale manifestazione di un pericoloso nostalgismo in rimonta. Su questo vogliamo essere chiari: il diritto di portare un fiore su una tomba è sacrosanto e intoccabile, specie se si tratta di una lapide che ricorda dei soldati, sacrificatisi per una causa resta comunque parte integrante della storia del nostro paese.

I pericoli, in questo momento storico ed economico, sono altri e di ben altra natura. La nostra Comunità umana e politica si è sempre battuta per la ricerca di una memoria storica condivisa, che diventasse patrimonio comune e collettivo di tutti, senza steccati ideologici, rancori forzati e pregiudizi di sorta. Non siamo mai caduti nel tranello degli opposti estremismi e non accettiamo lezioni di stile da chi tenta con ogni mezzo di riaccendere scontri tra le parti. Abbiamo la nostra identità, e ci basta.

Giovedì 25 aprile diamo appuntamento a tutti davanti al cimitero di Trespiano alle ore 10,30. 

martedì 23 aprile 2013

DAL 1 LUGLIO VIA EQUITALIA DA FIRENZE. GRAZIE A TORSELLI E CASAGGì...

Rivendichiamo con orgoglio questa battaglia, nata nelle stanze di Casaggì e fatta approvare in consiglio comunale dagli amici Francesco Torselli e Marco Semplici. Una vittoria dei fiorentini. 

EQUITALIA, TORSELLI (FDI) E SEMPLICI (LISTA GALLI): "IMPORTANTE VITTORIA DELL'OPPOSIZIONE: DAL 1 LUGLIO 2013 I FIORENTINI NON DOVRANNO PIÙ AVERE A CHE FARE CON EQUITALIA".
ADESSO RILANCIAMO: "I QUASI 400.000 EURO RISPARMIATI CON L'INTERRUZIONE DI QUESTO RAPPORTO SIANO INVESTITI IN AMMORTIZZATORI SOCIALI PER LE FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ".

"Un'importante vittoria politica dell'opposizione di centrodestra in consiglio comunale, ma prima ancora una vittoria di tutti i cittadini di Firenze: dal 1 luglio prossimo la riscossione coattiva dei tributi, nel comune di Firenze, non sarà più gestita da Equitalia, ma direttamente dal comune e dalla sua partecipata 'Linea Comune'. L'annuncio è avvenuto questa mattina, in commissione controllo, direttamente dall'assessore Petretto". Questo è quanto rendono noto i consiglieri comunali Francesco Torselli (Fratelli d'Italia) e Marco Semplici (Lista Galli) presentatori nell'aprile del 2012 di una mozione per chiedere l'interruzione dei rapporti tra Equitalia e Comune di Firenze.

"Interrompere il servizio di riscossione coattiva dei tributi da parte di Equitalia - spiegano Torselli e Semplici - significa liberare tante famiglie dalla spada di damocle di un ente che opera indiscriminatamente con gli stessi metodi verso i cittadini che si sono dimenticati di pagare una multa e con chi ha fatto il 'furbetto' per anni non pagando i doverosi tributi. E questo è lo spirito della nostra proposta che, tra poco più di due mesi diventerà finalmente operativa: internalizzare il servizio presso il comune, in maniera che chi svolge il compito della riscossione coattiva possa analizzare ogni singolo caso, diversificando i 'furbetti' da chi ha oggettive difficoltà a pagare un debito maturato negli anni".

"Siamo veramente soddisfatti dell'annuncio fatto questa mattina dall'assessore Petretto - concludono Torselli e Semplici - perché siamo certi di aver promosso un provvedimento che migliora realmente le condizioni di vita di molti nostri concittadini. Siamo doppiamente soddisfatti per aver dimostrato che l'opposizione di Fratelli d'Italia e della Lista Galli non è soltanto un'opposizione in grado di dire di 'no', ma un'opposizione capace di promuovere iniziative estremamente importanti per la vita dei fiorentini. E adesso rilanciamo: interrompere il rapporto con Equitalia significa un risparmio per il comune di Firenze di quasi 400.000 Euro all'anno; questi soldi che finora finivano nelle casse di Equitalia, siano adesso investiti in ammortizzatori sociali per le situazioni più drammatiche".

lunedì 22 aprile 2013

Neri e rossi... con amore

di Mario M. Merlino


Eppure Sergio Pucciarelli e tutti gli altri che hanno narrato di un ‘nero’ e di una ‘rossa’, confesso e mi sconfesso, hanno delle storie che sono il frutto maturo di una stagione ove tutto ciò poteva accadere e, di fatto, accadde. E che sono, a ben guardare un inno alla giovinezza alla gioia di vivere alla ricerca di una felicità possibile al primato delle emozioni a quel linguaggio del corpo che, troppo spesso, prigionieri di una cultura cristiana marxista e freudiana (si tenga conto della medesima origine), è stato disatteso da sensi di colpa, macigni insormontabili e schiaccianti e perversi. Qualcuno si ricorderà di Antonello Venditti quando cantava del padre simile a ‘una montagna troppo alta da scalare’ ed anche come, di fronte al liceo Giulio Cesare, ‘Nietzsche e Marx si davano la mano…’.

Non ricordo se qui, su Ereticamente, ho raccontato di Sandro e Laura in quella mattina di annunciata primavera del 1 marzo del ’68, a Valle Giulia. Di sicuro ne ho tratto un capitolo in Ritratti in piedi e riproposto in sintesi in E venne Valle Giulia (mi faccio un po’ di pubblicità gratuita per un libro che, pur stampato nel 2008 e quest’anno in seconda ristampa, non ha perso di vivacità interesse attualità. Chi vuole trarne conseguenza, io sono pronto per una ulteriore presentazione. E dai…). Mi sopportino, dunque, i lettori (non dico di perdonarmi che è sentimento nobile ma eccessivo per simile occasione) se andrò ripetendomi, ma questa è prerogativa dei vecchi (e dei rincoglioniti!).

Sandro era sceso dai Castelli Romani, capelli lunghi barba occhiali dalla montatura forte camicia a scacchi (un Merlino più bello, meno geniale), membro della Caravella; Laura aveva preso il treno alla stazione di Latina, studentessa del primo anno di Architettura, esile slanciata molto graziosa, partecipe di qualche Collettivo di sinistra. Ebbero la ‘loro’ storia nella storia di quella mattina fatta di scontri tra studenti e polizia, lacrimogeni sirene e caroselli della celere bastoni sassi cariche e corse sui pratoni di Villa Borghese. Beh, Sandro mentre incitava gli altri studenti a non fuggire si prese una sassata in un occhio e Laura, trovandosi nei pressi, lo soccorse asciugandogli il sangue con il suo fazzoletto sorreggendolo e aiutandolo a evitare d’essere fermato dalle guardie. Scoprì così che egli era ‘l’altro’, il fascista, il nemico… Ne nacque una bella vicenda sentimentale, interrotta brutalmente dopo la strage di Piazza Fontana ed il mio arresto. Allora le saracinesche si abbassarono spente le radio ognuno scoperse d’essere ‘o con noi o contro di noi’ in un aberrante gioco al massacro. Solo dopo un decennio si ritrovarono, lei sconfitta nel personale oltre che nell’ideologia, lui ‘un perdente di successo’ per dirla con Giorgio Albertazzi, poi la vita li condusse altrove. Alcuni anni fa Laura è morta per un male incurabile…

Ho visto sempre nella loro vicenda il paradigma del Sessantotto, di quello che poteva essere (una rivolta generazionale, l’irrompere della fantasia del passo lieve di danza del dio Dioniso – e il rimando a Nietzsche è scontato – del regno del possibile contro le regole e le prigioni della necessità). Nel loro fallimento la sconfitta in nome delle dicotomie ideologiche politiche (meglio: partitiche) del mondo adulto con le sue ragioni né nobili né eque di meccanismi da proconsoli della colonia Italia (l’ipotetico scenario di guerra fredda, forse solo tiepida o con Yalta neppure guerra, tra Oriente ed Occidente). Non è casuale che, con il terrore delle stragi e delle P38, si è parlato di ‘anni di piombo’. Anni definiti dal peso di gravità, che spinge verso il basso, là dove regnano gli oscuri meandri del magmatico informe stato della quantità, a tarpare le ali (cosa sono le nostre scapole se non ali rapprese e avvilite, ma anche annuncio e premessa del sogno di Icaro di volare incontro al Sole?).

Sandro e Laura furono carne ossa e sangue, i romanzi che sono seguiti sono parole scritte sulla carta. Del resto, ci è stato insegnato da Martin Heidegger a pensare che ‘l’uomo abita nella casa del linguaggio’… E, allora, là dove si realizza il dominio della parola, quale ascolto dell’Essere, ben vengano quelle storie narrate che rinnovano in noi, nonostante il nostro nichilismo radicato e non domo, il sorgere della domanda su ciò che volevamo poter divenire e come avremmo potuto far sì che il mondo di fatto divenisse. Almeno nella libertà creativa dei sentimenti…
Forse continua…

domenica 21 aprile 2013

SKOLL PRESENTA "EROICA" A CASAGGì FIRENZE...



Sabato 18 maggio Skoll sarà a Casaggì per presentare "Eroica", il nuovo disco tutto dedicato all'Italia. Dalle ore 21 festa e concerto con musica identitaria e bar a prezzi popolari. Una grande serata, da non perdere.

Una delle canzoni contenute nel nuovo disco:


Il simbolo di Roma



Oggigiorno si è soliti rapportarsi a Roma come ad una mera città turistica le cui rovine e monumenti non rappresentano nient’altro se non un’occasione per farsi immortalare in una foto ricordo mentre si è in vacanza. Complice di questa attitudine errata oltre alla superficialità della gente, troppo indaffarata per guardare oltre le contingenze e il quotidiano, gli stessi storici contemporanei che fedeli come sono allo scientismo, pretendono di insegnarci ciò che trascende l’approccio empirico. Eccoli allora attribuire la grandezza di una volta della Roma imperiale alla fortuna o all’addestramento militare senza riconoscere le motivazioni spirituali profonde e l’idea universale di cui si fece interprete.

Nell’antico Impero romano essi vedono solo la vastità territoriale non l’Ideale che dominava queste terre. Loro guardano al passato per le speculazioni intellettualoidi fine a se stesse e per i potenziali fini pratici nel presente, possibilmente commerciali, mentre a noi ci interessa il tempo trascorso fin quanto c’è su di lui il riflesso dell’eterno. Come scrive Plutarco, Roma “non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile”.

Diversamente dall’attuale Unione europea fondata sull’ideale materiale dell’interdipendenza economica dei popoli e sull’ideologia dell’individualismo assoluto di cui la dichiarazione dei diritti dell’uomo ne è il manifesto, la Roma imperiale incarnò la spiritualità ardente e virile portatrice di luce rappresentata dai valori di Ordine, Eroismo, Virilità, Volontà, Gerarchia, Aristocrazia e Impero. Roma, prima ancora di vincere la piccola militare guerra santa si era proposta di vincere la Grande guerra santa tracciando un modello di uomo e di stato fondati su principi di ordine superiore quali l’Onore e la Fedeltà. “Roma era fondata sulla parola data” (R. Sermonti).

Alla stregua di un atleta che può avere i muscoli più definiti che vuole e che non sarà mai in grado di vincere se dentro di se non arde innanzitutto di una volontà positiva, virile, e sana di superarsi, allo stesso modo le ben addestrate legioni romane sarebbero servite a ben poco senza un ideale Sacro a monte delle loro campagne militari di cui farsi i messaggeri.

Il 21 Aprile si festeggia il Natale di Roma, occasione ulteriore per meditare sul Mito di Roma “forza formatrice della realtà che si palesa in gesta, avvenimenti ed anche istituzioni le quali per tale via assumono un significato simbolico” (Evola).

Nico di Ferro (Azione Tradizionale)

sabato 20 aprile 2013

Senza lavoro e con la paura di perderlo...

di Andrea Angelini (Rinascita)


Il lavoro è una emergenza sociale. Chi no lo ha lo sogna e chi ha la fortuna di averlo ancora teme di perderlo. Il 25% degli italiani ha paura di ritrovarsi senza lavoro nei prossimi 6 mesi. Una paura diffusa che si alimenta dalla percezione che il mercato del lavoro è praticamente fermo e che non ci sono prospettive di un cambiamento in tempi brevi. L’indagine congiunta di Confcommercio e Censis non lascia molte speranze. E i primi tre mesi del 2013 sono stati in tal senso molto indicativi. Il crollo dell’occupazione è proseguito senza sosta con un conseguente calo dei consumi delle famiglie. E se un italiano su 4 teme di perdere il lavoro, vi è un 27% che teme invece una decurtazione dello stipendio. Se non è zuppa insomma è pan bagnato.

Sono così oltre 11 milioni le famiglie che temono di non riuscire a mantenere l'attuale tenore di vita, mentre per altre 14 milioni e mezzo è diventato molto più difficile risparmiare qualcosa e tenerlo di riserva per le evenienze future.

Si finisce così per rinunciare a delle spese che erano considerate necessarie come la ristrutturazione della casa. Anche rinviarle si trasforma in una necessità. Una percentuale che riguarda il 72,5% delle famiglie. Non ci sono nemmeno più soldi per comprarsi un mezzo di locomozione (un problema per il 79% circa del totale) che un tempo, sia per motivi di necessità che di prestigio, era considerato un investimento necessario. Per molte famiglie si stanno esaurendo i risparmi in banca e si è costretti (il 27% lo ha fatto) a ricorrere a piccoli prestiti.

Insomma siamo di fronte ad un Paese di ex formiche che, senza essersi trasformate in cicale, non ce la fa più a tirare avanti e che sta inesorabilmente sprofondando in una povertà di massa nel silenzio complice della politica in altre faccende affaccendata e che sembra davvero non rendersi conto della rabbia che sta covando nella maggioranza dei cittadini. Una rabbia che aspetta soltanto l’occasione buona per esplodere. E non sarà, ci vuole poco a prevederlo, una esplosione dentro le urne elettorali. Ma una che, come in Grecia, vedrà la gente affamata e incavolata nera scendere in piazza per dare l’assalto ai supermercati e ai Palazzi del potere politico e finanziario.

venerdì 19 aprile 2013

La grazia ipocrita allo 007 Usa colpevole di sequestro


di Massimo Fini

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha graziato d'ufficio, cioè sua sponte, senza che vi fosse una richiesta dell'interessato e nemmeno delle autorità statunitensi, Joseph Romano, nel 2003 capo della base militare Nato di Aviano, condannato il 19 settembre 2012 dalla Cassazione, e quindi in via definitiva, a 7 anni di reclusione per il rapimento, a Milano nel febbraio 2003, dell'Imam radicale Abu Omar, di null'altro colpevole che di essere tale. Con Romano sono stati condannati dalla cassazione 22 agenti Cia che parteciparono all'operazione, compreso il capo dell'Intelligence americana a Milano, Bob Lady. Condanne cui si sono aggiunte, per ora solo in Appello, quelle di altri tre agenti Cia che operavano a Roma sotto vesti diplomatiche.

In questa operazione che gli Americani chiamano di «Extraordinary rendition» (in cui 007 Usa sono autorizzati a compiere qualsiasi tipo di reato in territorio straniero, in violazione di tutte le norme del diritto internazionale, col pretesto della lotta al terrorismo) Romano ebbe un ruolo centrale. Come capo della base Nato di Aviano, che gode di extraterritorialità, fece entrare gli autori materiali del sequestro. Da qui trasportare Abu Omar nell'allora amico Egitto di Mubarak, dove la tortura è ammessa e praticata, fu un gioco da ragazzi. E infatti nelle prigioni egiziane Abu Omar fu sottoposto a torture fisiche e umiliazioni in stile Abu Ghraib, Guantanamo e anche peggio.

Giorgio Napolitano non poteva concludere in un modo peggiore il suo settennato. Il fatto stesso che abbia sentito il bisogno di motivare il suo atto dietro cavilli giuridici, giudicati da tutti i giuristi interpellati, nella più benevola delle ipotesi, «sciocchezze», dimostra che aveva la coda di paglia. La grazia è una prerogativa esclusiva del Capo dello Stato, un retaggio del potere regale, e può concederla a suo insindacabile giudizio. Ma Napolitano, con tipica ipocrisia catto-comunista, ha voluto travestire con abiti giuridici, tra l'altro sconfessando in questo modo ancora una volta, alla maniera di Berlusconi, la Magistratura italiana, una decisione squisitamente politica. Lo conferma il fatto che Joseph Romano, da tempo latitante e al sicuro negli Stati Uniti, come tutti gli altri 007 condannati, non correva alcun rischio di finire in carcere. Non solo perchè gli americani, che non ammettono che i loro militari siano giudicati all'estero mentre pretendono che quelli dei loro nemici siano spediti davanti al Tribunale internazionale dell'Aja, non ce lo avrebbero mai consegnato (come è avvenuto per il pilota responsabile della tragedia del Cermis ,20 morti, come avviene per i militari Usa di base a Napoli che stuprano le ragazze partenopee, rifugiandosi poi nell'extraterritorialità), ma perchè tutti e sei i ministri della Giustizia avvicendatisi dopo la vicenda di Abu Omar (Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Palma, Severino) appena insediati si sono affrettati a rassicurare gli americani che rinunciavano a dar corso alla ricerca dei latitanti in campo internazionale. Ci eravamo quindi già appiattiti come sogliole ai piedi degli Usa, cui è consentito nel nostro Paese fare ciò che vogliono, commettere anche, restando impuniti, i reati più ripugnanti, come il sequestro di persona e, sia pur interposto Egitto, la tortura. Il Presidente Napolitano ha voluto fare un ulteriore atto di servaggio. Per chi a cuore, nonostante tutto, la dignità del nostro Paese, suonano mortificanti le parole pronunciate dallo svizzero Dick Marty, relatore del Consiglio d'Europa per le indagini sui 'voli segreti' della Cia: «Non è un atto di giustizia , ma di sudditanza verso gli Stati Uniti».

giovedì 18 aprile 2013

La Cina ha comprato l'Amazzonia...




di Fabio Polese

L’Ecuador si appresta a mettere in vendita la Foresta Amazzonica e lo vuole fare al meglio, non curandosi della dannosa situazione del territorio, già massacrato dalle multinazionali del legno e dalle deportazioni di popolazioni indigene. 
Il governo di Quito sta organizzando degli incontri in diverse capitali straniere per vendere al massimo le potenzialità energetiche dei terreni. Alcuni rappresentanti politici dell’Ecuador, in quello che possiamo definire un vero e proprio tour arrivato alla terza tappa dopo Houston e Parigi, si è recato a Pechino all’inizio del mese per illustrare l’offerta alle principali aziende petrolifere cinesi, compresa la China Petrochemical e la China National Offshore Oil. 
«Chiediamo sia alle compagnie private e sia a quelle statali, di rifiutarsi di partecipare a questa asta che viola sistematicamente i diritti di sette nazioni indigene, imponendo esplorazioni petrolifere nei loro territori ancestrali». Questo è il grido di speranza che le comunità indigene dell'Ecuador hanno scritto in una lettera aperta. In risposta a questa lettera, Andrés Donoso Fabara, ministro ecuadoregno per gli Idrocarburi, ha commentato che i leader della protesta non vogliono fare gli interessi delle popolazioni, ma al contrario, hanno «un’agenda politica e non tengono conto dello sviluppo e della lotta alla povertà». 
Quito afferma che gli investimenti cinesi potrebbero contribuire allo sviluppo dell’economia della comunità locale, ma secondo le comunità indigene, dietro la scelta fatta dal governo di vendere i territori della foresta, ci sarebbe la volontà di ripagare a Pechino una parte dei tanti miliardi di dollari che gli deve. Dal 2009 ad oggi, infatti, la Cina, in cambio di commesse e petrolio, ha finanziato due infrastrutture idroelettriche tra le più importanti dell’Ecuador. E in ballo ci sarebbe anche un progetto da 12,5 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova raffineria. 
Secondo l’organizzazione californiana Amazon Watch, se l’affare andasse in porto con le multinazionali cinesi, ci troveremmo di fronte ad una violazione molto grave. Infatti, le linee guida fissate congiuntamente dai ministri cinesi per l’Ambiente e per il Commercio estero il mese scorso, sottolineano che gli investimenti stranieri dovrebbero esserci solo «promuovendo uno sviluppo armonioso dell’economia locale, dell’ambiente e delle comunità». Cosa che in questo caso non accadrebbe. 
Nel febbraio del 2001 una sentenza attesa 17 anni, dopo una battaglia legale iniziata negli Stati Uniti e rimbalzata da una Nazione all’altra, aveva dimostrato che le estrazioni di petrolio effettuate nella parte dell’Amazzonia dell’Ecuador, avevano portato grandi danni alle tribù indigene delle regioni di Sucumbios e Orellana. La storia iniziò nel 1993 quando l’allora Texaco, poi fuso con Chevron - seconda compagnia multinazionale petrolifera americana -, a causa delle estrazioni effettuate tra il 1964 e il 1990, fecero aumentare i casi di malattie mortali. 
La foresta amazzonica è l’ecosistema più ricco al mondo di specie animali e vegetali - si contano 75mila tipi di alberi diversi -, ed è già gravemente minacciata dalla deforestazione. Invece di «stuprare» questi territori, dovremmo tutelarli il più possibile. Come dovremmo cercare di tutelare lo stile di vita delle tribù Indios che ci vivono. Il direttore di «Survival International» ci suggerisce una riflessione interessante: «Spesso questi popoli (indigeni, ndr) vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».

mercoledì 17 aprile 2013

La storia di Jan Palach e dei dissidenti antisovietici in una miniserie televisiva...


di Michele de Feudis (Barbadillo.it)

Il sacrificio patriottico di Jan Palach raccontato in una serie televisiva: il progetto porta la firma di Agnieszka Holland, due volte candidata all’Oscar, ed è prodotto dalla Hbo. La pellicola è stata presentata al Miptv di Cannes, la più importante fiera dell’audiovisivo nel mondo. La storia raccontata parte dal 16 gennaio 1969, quando lo studente Jan Palach si diede fuoco in Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. E dopo offre un quadro realista del clima politico del tempo, della ribellione giovanile contro l’oppressione totalitaria e delle campagne di disinformazione orchestrate dal governo filosovietico per sminuire il significato politico dell’auto-immolazione. La trama mette in evidenza il ruolo dell’avvocato Dagnar Buresova (personaggio realmente esistito e attivo al tempo a favore dei dissidenti), che difese la memoria di Jan nel processo contro i suoi calunniatori. Jan Mojto Ceo della Beta Film che distribuirà l’opera, ha commentato così il progetto: “Burning Bush racconta una vicenda storica che ha a che fare con la brutalità dei totalitarismi e insieme con il coraggio di chi si oppose in nome della rivoluzione. Perché la libertà è la più dura fiamma da estinguere”. 

martedì 16 aprile 2013

Sono passati 40 anni dal rogo di Primavalle, ma alla fine nessuno ha pagato


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

È facile e comodo quarant’anni dopo esecrare un crimine come quello di Primavalle. Era allora che si doveva dire la verità, rendere giustizia alle vittime e punire i colpevoli, ma i giornali non la dissero, e vedremo il perché. Sono passati quarant’anni dal rogo di Primavalle, quello in cui un bambino di dieci anni, Stefano, e un giovane di 22, Virgilio, persero la vita nell’incendio che distrusse la loro casa dove abitavano con i genitori e con i fratelli, rimasti tutti feriti in modo più o meno grave. Militanti di Potere Operaio, formazione extraparlamentare dell’epoca, appiccarono il fuoco all’appartamento popolare della famiglia Mattei, in via Bernardo da Bibbiena 33, lotto 15, scala D, interno 5, con della benzina, due litri, secondo le perizie. Gli assassini si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, e per loro uccidere un fascista non era reato, anzi, un’operazione meritoria. Come sembrò anche in seguito a esponenti della sinistra italiana che per loro attivarono una rete di solidarietà formidabile, che giunse anche alla pubblicazione di un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si sosteneva l’innocenza dei tre. Libretto redatto da un gruppo di giornalisti “democratici”. Dario Fo e Franca Rame si adoperarono per attivare “Soccorso rosso” in favore di chi aveva causato la morte di un bambino e di un giovane, e con loro altri autorevoli esponenti della sinistra, come Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, che oltre a Lollo difese anche Marini, l’omicida di Carlo Falvella, e Panzieri, condannato per l’assassinio di Mantakas. Ma non solo lui. Il quotidiano Lotta Continua il giorno dopo titolò: «La provocazione fascista oltre ogni limite: è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Sì, perché la tesi di tutte le sinistre e non solo delle sinistre fu quella di una faida interna tra fascisti, che per qualche settimana resse, per poi essere frantumata dalle perizie, dai fatti, dall’opinione pubblica, dalla magistratura e, nel 2005, dallo stesso Lollo che, dal Brasile, ammise che quella notte lui c’era e non da solo. Solo il Movimento Sociale e i suoi dirigenti e militanti conoscevano da tempo la verità, da sempre, e tentarono con ogni mezzo di diffonderla, vanamente; ma molti italiani neanche sapevano cosa fosse successo quella notte di 40 anni fa nel popolare quartiere di Primavalle, perché all’intera vicenda fu messa per decenni una sordina mediatica, i morti erano di serie B, figli di un dio minore, di loro non si doveva parlare e, soprattutto, gli assassini non erano tali. Non è successo solo per i morti di Primavalle, ma per tutti i morti “fascisti”, ignorati dall’opinione pubblica e dai mass media “democratici”.

Mario Mattei, il capofamiglia, era il segretario della sezione missina di Primavalle, la “Giarabub”, e il figlio maggiore, Virgilio, morto nel rogo, militava nei “Volontari nazionali”, formazione del Msi. Era una famiglia proletaria, di un quartiere popolare, ma era fascista, e questo l’intelleghentzia comunista non lo poteva tollerare: non poteva tollerare che il Msi a Primavalle non solo esistesse, ma che avesse anche un certo seguito. E così assalti e attentati erano quotidiani, come nelle sezioni dei Msi della vicina Monte Mario, via Assarotti, e in tutti gli altri quartieri popolari dove il Msi è stato sempre presente con rappresentanze significative: dal Prenestino a Portonaccio, da Torre Maura a Tor Pignattara, da Centocelle al Quadraro e in molti altri quartieri. E ovunque la sinistra tentava di cacciarli con le bombe, col fuoco, con aggressioni quotidiane, che talvolta costarono la vita ai giovani di destra. Nell’orazione funebre nella chiesa dei Sette Santo Fondatori il segretario del Msi Giorgio Almirante, che ebbe il non facile compito di gestire un movimento ostracizzato da tutti, perseguitato, disprezzato, odiato, disse tra l’altro che «questo crimine è talmente efferato che, pur conoscendone la precisa matrice politica, stentiamo a definirlo politico. Il teppismo, la delinquenza, non hanno colore», disse, ma poi, abbandonando la cautela con la quale cercò sempre di non scatenare una nuova guerra civile, aggiunse: «Il teppismo, no. La l’odio, l’odio sì. L’odio ha un solo colore, il colore rosso». E non sembri semplice retorica, perché questo sfogo in realtà apre uno squarcio sul clima di ossessiva intolleranza che caratterizzava quegli anni. La questione gira sempre intorno a quella frase, uscita direttamente dalla guerra civile italiana, «uccidere un fascista non è reato».

Il rogo era certamente annunciato, perché Potere Operaio aveva deciso una vasta offensiva contro il Msi di Primavalle: le autovetture e le moto dei “fascisti” avrebbero dovuto essere incendiate, così come gli esercizi commerciali di esponenti della destra nonché attentati con la benzina nelle loro abitazioni. Nei giorni precedenti Lollo, che abitava in zona e che si distinse anche come caporione del liceo Castelnuovo, vera palestra di demagogia e di violenza, si rivolse più volte ad Aldo Speranza, netturbino repubblicano amico dei Mattei, per sapere i nomi e gli indirizzi dei “fascisti” del quartiere per poi poterli colpire. In una occasione Speranza fu condotto da Lollo in un appartamento di Trastevere, “covo” dei radical-chic di Potop, abitato da Marino Clavo ma di proprietà di Diana Perrone, miliardaria nipote del proprietario del Messaggero, giornale che guarda caso sin dai primi giorni propugnò la pista interna per il rogo, poi smentita dai fatti e in tempi recenti dallo stesso Lollo, seguito in questa mistificazione della verità da tutti i quotidiani, anche quelli che oggi condannano il rogo di Primavalle perché costretti dalla storia. In questo appartamento poi furono trovati sia il nastro adesivo sia i fogli a quadretti usati per la rivendicazione. E in questo appartamento Lollo e gli altri mostrarono a Speranza l’esplosivo con cui fu fatta esplodere la sezione del Msi. E il 7 aprile effettivamente fu data alle fiamme la macchina del missino Marcello Schiaoncin in via Pietro Bembo, l’11 aprile una bomba devastava la sezione di via Domenico Svampa, atti rivendicati dalla “Brigata Tanas”. Fina alla mattina del 16 aprile con la strage a casa Mattei, anche questo rivendicato dalla Brigata Tanas. A fine anno l’istruttoria si concluse con il rinvio giudizio per i reati di strage, incendio doloso, pubblica intimidazione, fabbricazione, detenzione e porto di congegni esplosivi gli esponenti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, questi ultimi due latitanti. La sentenza è stata emessa dal giudice istruttore Francesco Amato su richiesta del pubblico ministero Domenico Sica. I tre furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale, ma Clavo e Grillo non hanno scontato neanche un giorno. Ma la grancassa antifascista ha sempre surrettiziamente continuato a propalare la tesi della faida interna, come poi fu fatto anche per altri omicidi di ragazzi, a cominciare da quello di Mantakas. Se Lollo nel 2005 non avesse confessato, per gli antifascisti di professione sarebbe ancora una faida, ed è su questo che bisogna riflettere: su come la macchina della menzogna gestita dalla sinistra ha modificato in questi anni la storia italiana. E nei casi in cui un Lollo non ha confessato, è rimasta solo la menzogna…

lunedì 15 aprile 2013

In ricordo di Giovanni Gentile.Ucciso dai vili,scordato dai servi


Il 15 aprile del 1944 a Firenze, un commando di partigiani gappisti uccise Giovanni Gentile. Il filosofo, freddato sul cancello di Villa Montalto dove risiedeva, era accusato di aver collaborato attivamente col Fascismo e di aver aderito alla Rsi. Ancora oggi, a Firenze, l'amministrazione comunale non ha inserito nessuna targa commemorativa sul luogo dell'omicidio, nè ha dedicato al filosofo nessun tipo di commemorazione. 
Noi non dimentichiamo.

25 APRILE: CASAGGì AL SACRARIO DELLA RSI...



Come ogni anno il 25 aprile saremo al sacrario della Rsi di Trespiano per portare un fiore sulla tomba di quei ragazzi che hanno sacrificato la vita per difendere la dignità e l'onore d'Italia. Il ritrovo è alle ore 10.30 davanti al cimitero: seguirà una commemorazione con le testimonianze di chi c'era e di chi, negli anni, ha sentito il bisogno di mantenere vivo il ricordo di questa pagina di storia.

domenica 14 aprile 2013

Kosovo. L’orrore diventa un film


di Dragan Mraovic (Rinascita)


Nel narco-staterello di Hashim Thaci, il Kosovo e Metohija, si chiede in questi giorni di proclamare “persona non grata” il regista di fama mondiale Emir Kusturica perché intende a realizzare un film sulla tratta degli organi dei serbi fatta dai secessionisti schipetari dell’UCK. Kusturica ha affermato di non capire il nervosismo di Pristina perché non è stato lui a inventare questa storia, ufficialmente presentata da Dik Martin nel suo rapporto sui trattamenti inumani e i traffici d’organi dei serbi in Kosovo, relazione che puntava direttamente al premier kosovaro ed ex leader dell’Uck Hashim Thaci, approvata il 16 dicembre 2010 dalla Commissione affari legali e diritti umani dell’Assemblea del Consiglio d’Europa. Il film sarà realizzato basandosi su un romanzo di Veselin Dzeletovic intitolato “Il cuore serbo di Johann”. Si tratta della storia vera di un tedesco che porta nel petto il cuore di un serbo rapito dall’UCK e ucciso per strappargli il cuore e venderlo al mercato nero. Questo tedesco ha poi adottato il figlio della vittima. L’autore del romanzo ha parlato direttamente con l’uomo tedesco, molte volte, dal 2004 al 2007. Lo scrittore Dzeletovic racconta: “Sono andato nel Kosovo e Metohija a portare libri da donare e lì ho sentito parlare di una donna serba violentata da cinque schipetari e che si è suicidata non potendo più vivere con quel ricordo tremendo. Quella donna è stata la moglie di un mio amico rapito dagli schipetari nel 1999. Durante la sepoltura della poveretta, nel cimitero con molti monumenti distrutti dagli albanesi, c’era un tedesco che voleva aiutare materialmente la famiglia della donna perché aveva saputo da chi e come aveva avuto il suo cuore trapiantato. Voleva acquietare la propria coscienza. Intendeva donare una grossa cifra, ma dopo aver capito che il figlio della donna era rimasto solo, che non aveva fratelli né sorelle, ha deciso di addottarlo. Lo zio del ragazzo non accettava che il ragazzo diventasse tedesco e per questo il tedesco Johann accettò di convertirsi e diventare ortodosso per avere l’approvazione dello zio all’adozione. Il destino ha voluto invece quest’adozione. Oppure la volontà divina! Dunque, il tedesco stava nel povero cimitero ortodosso serbo vestito molto diversamente dalla gente del posto, cioè signorilmente. Seguiva i funerali con una certa distanza aristocratica e gli stava accanto in ogni momento un agente della BND cioè della Bundesnachrichtendienst (servizio informazioni federale della Repubblica Federale Tedesca). Ad un certo momento il ragazzo, la cui mamma veniva seppellita, si mise ad abbracciare le gambe di quel tedesco e disse ad alta voce: “Papà”. Il ragazzo istintivamente ha riconosciuto il cuore del suo padre in un altro uomo. È una storia tragica che non può lasciare indifferente nessuno. Tutti i fatti del mio romanzo sono veri tranne i nomi dei personaggi e del villaggio”. Il romanzo di Dzeletovic offre anche delle informazioni che nessuno voleva pubblicare finora, neppure Dick Martin. Per esempio, le operazioni del trapianto non venivano fatte in Albania, ma in Italia. I serbi rapiti venivano portati in Albania per essere uccisi secondo gli ordini che arrivavano: i loro organi venivano estratti in Albania con i metodi più crudeli e poi trasportati in frigoriferi in Italia. Sono stati usati i motoscafi con i quali si raggiungeva l’Italia in meno di tre ore. Le basi logistiche di questi traffici loschi sono state poste prima dell’aggressione della NATO alla Serbia, quando i figli dei poveri d’Albania venivano venduti agli italiani ricchi ancora prima del 1999. In tal modo sono stati stabiliti i primi contatti con i contrabbandieri cementati poi con i traffici illegali di sigarette e di droga. Ricordiamo che il testimone protetto K-144 del Tribunale dell’Aia dichiarò: “Io so di almeno 300 reni e di altri 100 organi estratti ai rapiti del Kosmet. Si estraevano anche il fegato e i cuori. Un rene si vendeva da dieci a cinquanta mila marchi tedeschi… Hashim Taci prendeva l’80% del guadagno che lui spartiva poi con altri comandanti dell’UCK…” Nella televisione irachena, un certo sceicco Bahramin si è vantato, nel 2000 ,d’aver avuto un cuore nuovo in Turchia. Diceva di stare benissmo e gli dispiaceva solo un fatto: il cuore era di un serbo cristiano. L’autore del romanzo “Il cuore serbo di Johann” ha detto d’aver incontrato recentemente un funzionario dell’Eulex e che era possibile che le indagini si sarebbero ampliate all’Italia e alla Germania. Comunque sia, Kusturica dice che girerà questo suo film in Russia, dove ha tanti amici che gli daranno una mano a realizzarlo. Ovviamente l’Europa, e specialmente i Balcani, compresi l’Albania e la stessa Serbia con la sua provincia del Kosovo e Metohija, cioè i territori dove sono avvenuti questi crimini, non sono un palcoscenico dove è possibile girare un film su questi delitti orrendi, anche se è stato comunque possibile commettervi questi crimini genocidi, non immaginabili da una mente normale. E con l’assoluta complicità di Bruxelles e di Washington.

sabato 13 aprile 2013

Gli occhi della guerra’ di Almerigo Grilz (oggi avrebbe compiuto 60 anni)...


di Giorgio Ballario (Barbadillo.it)

Se non avesse incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, oggi avrebbe compiuto sessant’anni. E probabilmente sarebbe stato in giro per il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica. Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania… Il reportage di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una grande passione.

Nato a Trieste l’11 aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù. Quella che inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione, anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non c’è posto per un reporter free-lance fascista, anche se bravo e coraggioso.

Grilz infatti ama documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque stelle non mettono neanche piede. Con due amici-camerati della sezione triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine, Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan, invaso dai sovietici - racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto “Vita spericolata” di Vasco Rossi».

Almerigo Grilz è sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà. In Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma all’estero Grilz comincia a farsi un nome. Acquistano i suoi reportage le reti americane Cbs e Nbc, la televisione statale tedesca, il Sunday Times, l’Express. Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il marchio di fascista pesa ancora troppo. Solo il Tg1, Panorama e soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono in fronte “antifascista”.

Nella tarda primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage. Il 19 maggio un proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative. E’ il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in scarni trafiletti. C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza: «Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi. Aveva 34 anni e secondo le sue volontà viene sepolto in Mozambico. Quindici anni più tardi l’amico Micalessin realizzerà un documentario filmato sui luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.

Il suo nome è inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha voluto dedicare a tutti i giornalisti caduti sul campo sulle spiagge della Normandia, dove il mitico fotografo Robert Capa sbarcò nel 1944 con la prima ondata di truppe alleate. E la sua Trieste gli ha dedicato una via sul lungomare cittadino. Ma non c’è posto per il nome di Grilz sulla facciata del palazzo che ospita la sede dell’Ordine dei giornalisti e dell’Associazione della stampa di Trieste, dove sono collocate le lapidi che ricordano i giornalisti giuliani caduti nell’esercizio della loro professione: Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo, della Rai, morti a Mostar durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia; e Miran Hrovatin, ammazzato a Mogadiscio assieme a Ilaria Alpi.

Lo denunciava, in un lungo articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano del 19 maggio 2007, proprio Fausto Biloslavo, che di Grilz fu amico, collega e “camerata”. «Nonostante le ripetute richieste, dei suoi amici e colleghi, l’ultima in occasione del ventennale (della morte, ndr) – scrive Biloslavo – non c’è verso di aggiungere una targa per Almerigo, il giornalista dimenticato. Nel 2002 il Comune di Trieste, conquistato dal centrodestra, gli dedicò una via sollevando la levata di scudi del quotidiano locale e di tanti benpensanti. A vent’anni dalla sua morte, solo l’Ordine dei giornalisti sembra aver iniziato a passare il guado, con un timido patrocinio delle iniziative che ricordano Grilz, come “Gli occhi della guerra”. La targa, però, è un tabù difeso a spada tratta dal sindacato unico dei giornalisti, che in passato riuscì a giustificare il suo niet sostenendo che una nuova lapide renderebbe la facciata dello stabile una sorta di orto lapidario».

Insomma, sulla facciata della sede dei giornalisti triestini non c’è posto per Almerigo Grilz. Neanche da morto. Fuori dal coro anche in memoriam, verrebbe da dire. Forse non gli sarebbe spiaciuto poi tanto, visto che “Ruga” – come lo chiamavano gli amici – ha sempre amato remare controcorrente.

venerdì 12 aprile 2013

Vecchi cari compagni che tristezza i vostri nipoti...


di Mario M. Merlino (da ereticamente.net)

Da militanti anni ‘60 del MSI (la mia permanenza ebbe breve durata, meno di tre anni) e delle organizzazioni giovanili dentro e fuori del partito avevamo una sorta d’invidia, che si trasfigurava in alcuni in vero e proprio mito, per la formazione dei quadri del PCI. Un’aurea di leggenda, un po’ tenebrosa (il che eccita le anime assetate d’avventura e lettrici di Emilio Salgari), circondava la scuola delle Frattocchie, alle porte di Roma.

Parto subito con un ricordo personale ( ‘E vai!’, si dirà qualche lettore ormai assuefatto a simili esternazioni, mentre io ho il sospetto che questi miei interventi su Ereticamente si stanno trasformando nel lettino dello psicanalista…Il negriero trasformato in Herr Doktor Freud!). Andiamo ad attaccare manifesti, ragazzini ed incoscienti, spingendoci fino in via delle Botteghe Oscure (quale nome appropriato per la sede nazionale del PCI!) e dintorni. Qualcuno ci vede e avverte il servizio d’ordine che staziona in vigile e permanente all’erta. Ne arrivano quattro o cinque, fisico armadio a doppia anta, mani come palanche, naso da mastino napoletano. Gli altri buttano secchio e pennello e scappano. Io no. Non per coraggio o amore della sfida, credo, solo che le gambe non mi reggono… Ho in mano il manico della scopa con cui si arrotolano i manifesti. Ridicolo. Mi si para davanti uno di questi orchi, appena uscito dalla fiaba di Pollicino. In un attimo di autocoscienza mi dico: ‘Ciao, Mario, anzi addio!’. ‘Non voglio menarti.’ – mi soffia sul viso, respiro di sollievo (il mio) – ‘Parliamo. Perché io, che sono proletario, sono comunista e tu, borghese, sei fascista’. Tenta di convincermi, io lo ascolto docile e annuisco con la testa. Non mi ha convinto, ma – lo confesso – sul momento ho pensato che era poco ‘educato’ dissentire…

Morale della storia: quelli erano i compagni, forse ‘trinariciuti’ come li definiva il buon Guareschi, che guardavano all’Unione Sovietica, madre di tutte le rivoluzioni, e che, segretamente dopo il XX Congresso, avevano nel cuore ‘a da veni’ Baffone!’. Quelli che non avevano alcun dubbio, esitazione di sorta, tentennamento. Il sol dell’avvenire era prossimo, stava scritto non nelle stelle ma nei testi di Marx, e sulla terra si sarebbe steso un candido velo per rasserenare l’umanità intera donando ogni bene e sanando ogni bisogno (nel frattempo bisognava accettare i cimiteri sparsi in tante parti del mondo con le loro fosse comuni di milioni di dissenzienti, di nemici del popolo, di traditori al servizio del capitale, di piccoli e grandi borghesi malati di egoismo, di piccoli e grandi proprietari terrieri attaccati alle zolle e al recinto con il bestiame). Erano, diciamolo pure, di una estetica tragica e affascinante; nomadi di un sogno grandioso e brutale; ubriachi ad abbracciare un lampione e confonderlo con la luna. Quelli, sì, con cui misurare le nostre forze i nostri ideali il nostro sogno… non quelli che, oggi, fanno la fila davanti ai gazebo o si sparano canne, emanando sudore e stracci quali bandiere nei centri sociali.

Ultima immagine. Sono in aereo per Cagliari. All’università si tiene un convegno sul ’68. Sono tra i relatori. Accanto a me siede il giornalista ed amico Sandro Provvisionato. Fine anni ’90, mi sembra di ricordare. Mi dice, riferendosi proprio alle Frattocchie, del suo fallimento se, dopo i D’Alema, vi sono dirigenti come i Folena i Fassino… Nostalgia di quella classe politica che era stata capace di sopravvivere nella Mosca di Stalin e ai ricorrenti processi e purghe (si legga, ad esempio, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler); che s’era costruita titoli di merito con il colpo alla nuca e la tortura nella Spagna della guerra civile (si legga, ad esempio, Omaggio alla Catalogna di George Orwell); che nella ‘nostra’ guerra civile era stata la più agguerrita e brutale fino allo scannamento e allo scempio di piazzale Loreto (ai miei alunni Armando Cossutta disse esplicitamente, riferendosi alle carrette cariche di fascisti assassinati a Sesto San Giovanni, nell’aprile del ’45, che costoro ‘non erano neppure uomini’).

Anche questo va rimproverato al nostro tempo: averci tolto il nemico da guardare negli occhi o, come diceva Nietzsche, ‘voi dovete essere soltanto nemici cui si convenga l’odio, non il disprezzo’. Oggi sappiamo, certo, chi sono i nostri nemici, ma non li vediamo. I consigli d’amministrazione, i detentori delle grandi banche, l’usura elevata a norma, i finanziatori delle testate giornalistiche. E, in televisione, ci appaiono compresi nella serietà del ridicolo le loro maschere… E quel comunismo, di cui rifuggimmo in modo subitaneo e definitivo le lusinghe, dov’è andato ad infrangersi? Non tra le macerie di Berlino difesa da un pugno di volontari europei e da quei ragazzini con il panzerfaust, no, per qualche lattina di coca-cola per un concerto di musica rock all’Est e, da noi, la cravatta intonata ai calzini la pelliccia e i salotti bene di Roma dal ventre caldo e le cosce accoglienti…

giovedì 11 aprile 2013

Cosa manca al Bel Paese per gestire al meglio le città d’arte...



di redazione (Secolo d'Italia)

In tempi di disastri, approssimazioni, ignoranza e presunzione un libro come questo dello storico dell’arte Tommaso Montanari (Le pietre e il popolo, Minimum fax) è un aiuto a riflettere sul rapporto tra istituzioni e beni culturali. Certo le obiezioni non mancheranno, specie sul come fare a trovare fondi perché tutto non crolli, in particolare in un momento di crisi grave, e non così transitoria, come questo. 

Non sarà un caso quindi che questo pamphlet contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d’arte e vorrebbe restituirne ai cittadini l’arte e la storia, come recita il sottotitolo, inizi con Siena, infettata dalla gestione del Monte dei Paschi: “L’enorme quantità di quattrini che MPS faceva piovere sui buoni e sui cattivi ha portato a una degenerazione in cui non contavano più le qualità del progetto, o la qualità delle persone, ma l’affiliazione e la spartizione”. 

Così Montanari denuncia come l’Opera Metropolitana del Duomo abbia ceduto un ramo dell’azienda (quello che si occupa di accoglienza, marketing e iniziative culturali) ai privati (una società controllata da Civita) per soli 42 mila euro, e come L’Ospedale museo di Santa Maria della Scala, su cui da decenni ci sono importanti progetti firmati Brandi e Previtali, sia stato ridotto a uno scatolone per eventi e mostre. Eventi e mostre sono un altro dei suoi bersagli, a cominciare da quelle varie organizzate a Roma sul Rinascimento per arrivare a quelle caravaggesche promosse dalla Sovrintendenza, come quella che “ha strappato quasi 40 opere dagli altari veri, che ancora le accolgono nelle chiese, per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo… 

Nel 2011 le chiese di Roma erano dunque ridotte a un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna-park in attività”. Il problema è che Montanari ci richiama un’ integrità e purezza di visione che è ineludibile nel momento in cui una confusione (potremmo dire creata ad arte?) rischia di finire per far equiparare iniziative meno folli con altre che sono enormi castronerie. 

E in queste pagine ci viene ricordato tutto, dalla pista di sci alta 60 metri proposta per il Circo Massimo, davanti al Palatino, al sindaco di Firenze Renzi che ha “trivellato gli affreschi cinquecenteschi che ornano la più grande sala civica del suo palazzo comunale per tentare di trovare un ‘capolavoro’ perduto che possa alimentare mito personale e diventare feticcio di un super-marketing turistico” (il riferimento è alla leonardesca, mitica Battaglia di Anghiari). Il palazzo comunale è poi uno dei simboli centrali per Montanari: “Per secoli, anzi millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si sono definite e si sono riconosciute nella forma dei luoghi pubblici… 

Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità” (da qui la difesa del Patrimonio dell’art. 9 della Costituzione). Ora invece il valore civico è stato negato in favore della rendita economica, così che “a essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica”. 

Le pietre e il popolo passa in rassegna situazioni di tutte le città d’arte, da Venezia all’Aquila, da Milano a Napoli, e alla fine ci mostra un quadro disperante che rispecchia nella situazione, privatizzazione e trasformazione in Disneyland del nostro patrimonio il grave degrado della vita sociale e politica che stiamo attraversando.

mercoledì 10 aprile 2013

Le esibizioni delle Femen e la reazione di Putin: “Di politica si parla con i vestiti”...

da Barbadillo.it

Il colmo per una Femen: mostrare il seno (assai esiguo) a Putin ed essere presa allegramente per i fondelli da quello che non ci sta a passare per il “grande dittatore”.

Putin in verità ha affrontato e risolto con arguzia agguati ben più complicati. Non è stato difficile per lui smontare l’ennesima provocazione conformista che il gruppetto delle Femen ha messo in scena durante la sua visita ad Hannover. Mentre la Femen mostrava la sua tettina scialba e strillava contro le discriminazioni dei gay in Russia, Putin sorvolava con allegrezza. “La loro azione mi è piaciuta anche se non ho capito bene quello che urlavano, perché gli agenti della sicurezza che potevano essere più gentili hanno fatto bene il loro lavoro”. A mettere ko le contestatrici erano stati non i rudi agenti dei servizi russi, ma gli altrettanto rudi agenti della Polizei tedesca. Ha concluso serafico l’ex agente del KGB “Non è stato niente di terribile, anche se sarebbe meglio avere i vestiti quando si vuole discutere problemi politici”.

Le Femen invece amano esporre la loro “nuda” verità sia in materia di politica che di teologia. Negli ultimi mesi hanno manifestato in piazza San Pietro,hanno segato una croce in Ucraina (forse per non essere da meno delle Pussy Riot): era la croce che sovrastava il monumento alle vittime del comunismo in una nazione in cui Stalin negli anni Trenta aveva pianificato lo sterminio per fame di sette milioni di persone!

Un passo troppo audace l’hanno compiuto in Tunisia rivendicando il diritto al possesso personale del corpo femminile contro le limitazioni della Sharia. Qui purtroppo l’adepta maghrebina delle Femen ha pagato di persona l’aver voluto spingere la contestazione fuori dagli ambiti tolleranti dell’Europa. Della Femen tunisina si sono perse le tracce e siamo arcisicuri che nei prossimi anni le attiviste continueranno a inveire contro le cupole del Vaticano e del Cremlino, ma si guarderanno bene dal rompere le scatole ai salafiti…

Ma chi c’è dietro la seconda di reggiseno delle Femen? Pare che le Femen come le Pussy Riot appartengano alla scuderia della medesima agenzia di spettacolo e che questa agenzia riceva finanziamenti dal solito signor Soros.

Nella grande partita a scacchi tra la dirigenza russa e le organizzazioni di impronta filo-occidentale il gruppo femminista-arrabbiato aggiunge un tocco color carne. A metà gennaio le Femen manifestavano a seno nudo in piazza San Pietro mentre Benedetto XVI parlava, mostrando sulla carne scritte del tipo “In gay we trust”. Ma per un petto nudo non è crollato San Pietro così come non crolla San Pietroburgo.

Torniamo alla voce finanziamenti: finanziatori stranieri versano ogni mese la quota d’affitto di 2.500 dollari per la loro sede di Kiev. Sempre con finanziamenti stranieri le Femen hanno aperto a Parigi un centro di addestramento delle modelle attiviste. Tra i nomi dei generosi sponsor sputano quelli del miliardario tedesco Helmut Geier e dell’americano Jed Sunden, “uomo d’affari americano con molti interessi a Kiev”.

Ogni trasferta di protesta costa qualche migliaio di euro, più ovviamente il tornaconto personale delle modelle. La leader Femen ha candidamente affermato: «Cerchiamo di farci invitare per ridurre le spese».