di Fabio Polese
L’Ecuador si appresta a mettere in vendita la Foresta Amazzonica e lo vuole fare al meglio, non curandosi della dannosa situazione del territorio, già massacrato dalle multinazionali del legno e dalle deportazioni di popolazioni indigene.
Il governo di Quito sta organizzando degli incontri in diverse capitali straniere per vendere al massimo le potenzialità energetiche dei terreni. Alcuni rappresentanti politici dell’Ecuador, in quello che possiamo definire un vero e proprio tour arrivato alla terza tappa dopo Houston e Parigi, si è recato a Pechino all’inizio del mese per illustrare l’offerta alle principali aziende petrolifere cinesi, compresa la China Petrochemical e la China National Offshore Oil.
«Chiediamo sia alle compagnie private e sia a quelle statali, di rifiutarsi di partecipare a questa asta che viola sistematicamente i diritti di sette nazioni indigene, imponendo esplorazioni petrolifere nei loro territori ancestrali». Questo è il grido di speranza che le comunità indigene dell'Ecuador hanno scritto in una lettera aperta. In risposta a questa lettera, Andrés Donoso Fabara, ministro ecuadoregno per gli Idrocarburi, ha commentato che i leader della protesta non vogliono fare gli interessi delle popolazioni, ma al contrario, hanno «un’agenda politica e non tengono conto dello sviluppo e della lotta alla povertà».
Quito afferma che gli investimenti cinesi potrebbero contribuire allo sviluppo dell’economia della comunità locale, ma secondo le comunità indigene, dietro la scelta fatta dal governo di vendere i territori della foresta, ci sarebbe la volontà di ripagare a Pechino una parte dei tanti miliardi di dollari che gli deve. Dal 2009 ad oggi, infatti, la Cina, in cambio di commesse e petrolio, ha finanziato due infrastrutture idroelettriche tra le più importanti dell’Ecuador. E in ballo ci sarebbe anche un progetto da 12,5 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova raffineria.
Secondo l’organizzazione californiana Amazon Watch, se l’affare andasse in porto con le multinazionali cinesi, ci troveremmo di fronte ad una violazione molto grave. Infatti, le linee guida fissate congiuntamente dai ministri cinesi per l’Ambiente e per il Commercio estero il mese scorso, sottolineano che gli investimenti stranieri dovrebbero esserci solo «promuovendo uno sviluppo armonioso dell’economia locale, dell’ambiente e delle comunità». Cosa che in questo caso non accadrebbe.
Nel febbraio del 2001 una sentenza attesa 17 anni, dopo una battaglia legale iniziata negli Stati Uniti e rimbalzata da una Nazione all’altra, aveva dimostrato che le estrazioni di petrolio effettuate nella parte dell’Amazzonia dell’Ecuador, avevano portato grandi danni alle tribù indigene delle regioni di Sucumbios e Orellana. La storia iniziò nel 1993 quando l’allora Texaco, poi fuso con Chevron - seconda compagnia multinazionale petrolifera americana -, a causa delle estrazioni effettuate tra il 1964 e il 1990, fecero aumentare i casi di malattie mortali.
La foresta amazzonica è l’ecosistema più ricco al mondo di specie animali e vegetali - si contano 75mila tipi di alberi diversi -, ed è già gravemente minacciata dalla deforestazione. Invece di «stuprare» questi territori, dovremmo tutelarli il più possibile. Come dovremmo cercare di tutelare lo stile di vita delle tribù Indios che ci vivono. Il direttore di «Survival International» ci suggerisce una riflessione interessante: «Spesso questi popoli (indigeni, ndr) vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».