di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)
È facile e comodo quarant’anni dopo esecrare un crimine come quello di Primavalle. Era allora che si doveva dire la verità, rendere giustizia alle vittime e punire i colpevoli, ma i giornali non la dissero, e vedremo il perché. Sono passati quarant’anni dal rogo di Primavalle, quello in cui un bambino di dieci anni, Stefano, e un giovane di 22, Virgilio, persero la vita nell’incendio che distrusse la loro casa dove abitavano con i genitori e con i fratelli, rimasti tutti feriti in modo più o meno grave. Militanti di Potere Operaio, formazione extraparlamentare dell’epoca, appiccarono il fuoco all’appartamento popolare della famiglia Mattei, in via Bernardo da Bibbiena 33, lotto 15, scala D, interno 5, con della benzina, due litri, secondo le perizie. Gli assassini si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, e per loro uccidere un fascista non era reato, anzi, un’operazione meritoria. Come sembrò anche in seguito a esponenti della sinistra italiana che per loro attivarono una rete di solidarietà formidabile, che giunse anche alla pubblicazione di un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si sosteneva l’innocenza dei tre. Libretto redatto da un gruppo di giornalisti “democratici”. Dario Fo e Franca Rame si adoperarono per attivare “Soccorso rosso” in favore di chi aveva causato la morte di un bambino e di un giovane, e con loro altri autorevoli esponenti della sinistra, come Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, che oltre a Lollo difese anche Marini, l’omicida di Carlo Falvella, e Panzieri, condannato per l’assassinio di Mantakas. Ma non solo lui. Il quotidiano Lotta Continua il giorno dopo titolò: «La provocazione fascista oltre ogni limite: è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Sì, perché la tesi di tutte le sinistre e non solo delle sinistre fu quella di una faida interna tra fascisti, che per qualche settimana resse, per poi essere frantumata dalle perizie, dai fatti, dall’opinione pubblica, dalla magistratura e, nel 2005, dallo stesso Lollo che, dal Brasile, ammise che quella notte lui c’era e non da solo. Solo il Movimento Sociale e i suoi dirigenti e militanti conoscevano da tempo la verità, da sempre, e tentarono con ogni mezzo di diffonderla, vanamente; ma molti italiani neanche sapevano cosa fosse successo quella notte di 40 anni fa nel popolare quartiere di Primavalle, perché all’intera vicenda fu messa per decenni una sordina mediatica, i morti erano di serie B, figli di un dio minore, di loro non si doveva parlare e, soprattutto, gli assassini non erano tali. Non è successo solo per i morti di Primavalle, ma per tutti i morti “fascisti”, ignorati dall’opinione pubblica e dai mass media “democratici”.
Mario Mattei, il capofamiglia, era il segretario della sezione missina di Primavalle, la “Giarabub”, e il figlio maggiore, Virgilio, morto nel rogo, militava nei “Volontari nazionali”, formazione del Msi. Era una famiglia proletaria, di un quartiere popolare, ma era fascista, e questo l’intelleghentzia comunista non lo poteva tollerare: non poteva tollerare che il Msi a Primavalle non solo esistesse, ma che avesse anche un certo seguito. E così assalti e attentati erano quotidiani, come nelle sezioni dei Msi della vicina Monte Mario, via Assarotti, e in tutti gli altri quartieri popolari dove il Msi è stato sempre presente con rappresentanze significative: dal Prenestino a Portonaccio, da Torre Maura a Tor Pignattara, da Centocelle al Quadraro e in molti altri quartieri. E ovunque la sinistra tentava di cacciarli con le bombe, col fuoco, con aggressioni quotidiane, che talvolta costarono la vita ai giovani di destra. Nell’orazione funebre nella chiesa dei Sette Santo Fondatori il segretario del Msi Giorgio Almirante, che ebbe il non facile compito di gestire un movimento ostracizzato da tutti, perseguitato, disprezzato, odiato, disse tra l’altro che «questo crimine è talmente efferato che, pur conoscendone la precisa matrice politica, stentiamo a definirlo politico. Il teppismo, la delinquenza, non hanno colore», disse, ma poi, abbandonando la cautela con la quale cercò sempre di non scatenare una nuova guerra civile, aggiunse: «Il teppismo, no. La l’odio, l’odio sì. L’odio ha un solo colore, il colore rosso». E non sembri semplice retorica, perché questo sfogo in realtà apre uno squarcio sul clima di ossessiva intolleranza che caratterizzava quegli anni. La questione gira sempre intorno a quella frase, uscita direttamente dalla guerra civile italiana, «uccidere un fascista non è reato».
Il rogo era certamente annunciato, perché Potere Operaio aveva deciso una vasta offensiva contro il Msi di Primavalle: le autovetture e le moto dei “fascisti” avrebbero dovuto essere incendiate, così come gli esercizi commerciali di esponenti della destra nonché attentati con la benzina nelle loro abitazioni. Nei giorni precedenti Lollo, che abitava in zona e che si distinse anche come caporione del liceo Castelnuovo, vera palestra di demagogia e di violenza, si rivolse più volte ad Aldo Speranza, netturbino repubblicano amico dei Mattei, per sapere i nomi e gli indirizzi dei “fascisti” del quartiere per poi poterli colpire. In una occasione Speranza fu condotto da Lollo in un appartamento di Trastevere, “covo” dei radical-chic di Potop, abitato da Marino Clavo ma di proprietà di Diana Perrone, miliardaria nipote del proprietario del Messaggero, giornale che guarda caso sin dai primi giorni propugnò la pista interna per il rogo, poi smentita dai fatti e in tempi recenti dallo stesso Lollo, seguito in questa mistificazione della verità da tutti i quotidiani, anche quelli che oggi condannano il rogo di Primavalle perché costretti dalla storia. In questo appartamento poi furono trovati sia il nastro adesivo sia i fogli a quadretti usati per la rivendicazione. E in questo appartamento Lollo e gli altri mostrarono a Speranza l’esplosivo con cui fu fatta esplodere la sezione del Msi. E il 7 aprile effettivamente fu data alle fiamme la macchina del missino Marcello Schiaoncin in via Pietro Bembo, l’11 aprile una bomba devastava la sezione di via Domenico Svampa, atti rivendicati dalla “Brigata Tanas”. Fina alla mattina del 16 aprile con la strage a casa Mattei, anche questo rivendicato dalla Brigata Tanas. A fine anno l’istruttoria si concluse con il rinvio giudizio per i reati di strage, incendio doloso, pubblica intimidazione, fabbricazione, detenzione e porto di congegni esplosivi gli esponenti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, questi ultimi due latitanti. La sentenza è stata emessa dal giudice istruttore Francesco Amato su richiesta del pubblico ministero Domenico Sica. I tre furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale, ma Clavo e Grillo non hanno scontato neanche un giorno. Ma la grancassa antifascista ha sempre surrettiziamente continuato a propalare la tesi della faida interna, come poi fu fatto anche per altri omicidi di ragazzi, a cominciare da quello di Mantakas. Se Lollo nel 2005 non avesse confessato, per gli antifascisti di professione sarebbe ancora una faida, ed è su questo che bisogna riflettere: su come la macchina della menzogna gestita dalla sinistra ha modificato in questi anni la storia italiana. E nei casi in cui un Lollo non ha confessato, è rimasta solo la menzogna…