lunedì 22 aprile 2013

Neri e rossi... con amore

di Mario M. Merlino


Eppure Sergio Pucciarelli e tutti gli altri che hanno narrato di un ‘nero’ e di una ‘rossa’, confesso e mi sconfesso, hanno delle storie che sono il frutto maturo di una stagione ove tutto ciò poteva accadere e, di fatto, accadde. E che sono, a ben guardare un inno alla giovinezza alla gioia di vivere alla ricerca di una felicità possibile al primato delle emozioni a quel linguaggio del corpo che, troppo spesso, prigionieri di una cultura cristiana marxista e freudiana (si tenga conto della medesima origine), è stato disatteso da sensi di colpa, macigni insormontabili e schiaccianti e perversi. Qualcuno si ricorderà di Antonello Venditti quando cantava del padre simile a ‘una montagna troppo alta da scalare’ ed anche come, di fronte al liceo Giulio Cesare, ‘Nietzsche e Marx si davano la mano…’.

Non ricordo se qui, su Ereticamente, ho raccontato di Sandro e Laura in quella mattina di annunciata primavera del 1 marzo del ’68, a Valle Giulia. Di sicuro ne ho tratto un capitolo in Ritratti in piedi e riproposto in sintesi in E venne Valle Giulia (mi faccio un po’ di pubblicità gratuita per un libro che, pur stampato nel 2008 e quest’anno in seconda ristampa, non ha perso di vivacità interesse attualità. Chi vuole trarne conseguenza, io sono pronto per una ulteriore presentazione. E dai…). Mi sopportino, dunque, i lettori (non dico di perdonarmi che è sentimento nobile ma eccessivo per simile occasione) se andrò ripetendomi, ma questa è prerogativa dei vecchi (e dei rincoglioniti!).

Sandro era sceso dai Castelli Romani, capelli lunghi barba occhiali dalla montatura forte camicia a scacchi (un Merlino più bello, meno geniale), membro della Caravella; Laura aveva preso il treno alla stazione di Latina, studentessa del primo anno di Architettura, esile slanciata molto graziosa, partecipe di qualche Collettivo di sinistra. Ebbero la ‘loro’ storia nella storia di quella mattina fatta di scontri tra studenti e polizia, lacrimogeni sirene e caroselli della celere bastoni sassi cariche e corse sui pratoni di Villa Borghese. Beh, Sandro mentre incitava gli altri studenti a non fuggire si prese una sassata in un occhio e Laura, trovandosi nei pressi, lo soccorse asciugandogli il sangue con il suo fazzoletto sorreggendolo e aiutandolo a evitare d’essere fermato dalle guardie. Scoprì così che egli era ‘l’altro’, il fascista, il nemico… Ne nacque una bella vicenda sentimentale, interrotta brutalmente dopo la strage di Piazza Fontana ed il mio arresto. Allora le saracinesche si abbassarono spente le radio ognuno scoperse d’essere ‘o con noi o contro di noi’ in un aberrante gioco al massacro. Solo dopo un decennio si ritrovarono, lei sconfitta nel personale oltre che nell’ideologia, lui ‘un perdente di successo’ per dirla con Giorgio Albertazzi, poi la vita li condusse altrove. Alcuni anni fa Laura è morta per un male incurabile…

Ho visto sempre nella loro vicenda il paradigma del Sessantotto, di quello che poteva essere (una rivolta generazionale, l’irrompere della fantasia del passo lieve di danza del dio Dioniso – e il rimando a Nietzsche è scontato – del regno del possibile contro le regole e le prigioni della necessità). Nel loro fallimento la sconfitta in nome delle dicotomie ideologiche politiche (meglio: partitiche) del mondo adulto con le sue ragioni né nobili né eque di meccanismi da proconsoli della colonia Italia (l’ipotetico scenario di guerra fredda, forse solo tiepida o con Yalta neppure guerra, tra Oriente ed Occidente). Non è casuale che, con il terrore delle stragi e delle P38, si è parlato di ‘anni di piombo’. Anni definiti dal peso di gravità, che spinge verso il basso, là dove regnano gli oscuri meandri del magmatico informe stato della quantità, a tarpare le ali (cosa sono le nostre scapole se non ali rapprese e avvilite, ma anche annuncio e premessa del sogno di Icaro di volare incontro al Sole?).

Sandro e Laura furono carne ossa e sangue, i romanzi che sono seguiti sono parole scritte sulla carta. Del resto, ci è stato insegnato da Martin Heidegger a pensare che ‘l’uomo abita nella casa del linguaggio’… E, allora, là dove si realizza il dominio della parola, quale ascolto dell’Essere, ben vengano quelle storie narrate che rinnovano in noi, nonostante il nostro nichilismo radicato e non domo, il sorgere della domanda su ciò che volevamo poter divenire e come avremmo potuto far sì che il mondo di fatto divenisse. Almeno nella libertà creativa dei sentimenti…
Forse continua…