Una società senza padri è destinata a soccombere, è necessario il loro ritorno. Sono in tanti a dirlo, ma per lo psicanalista di fama internazionale Claudio Risé, come si legge nel suo libro appena pubblicato, “Il padre,Libertà dono” (Ares, 192 pagine, 14 euro), questo «non significa un ritorno al padre autoritario da cui siamo scappati, quello delle leggi e dell’imposizione dall’alto», spiega a tempi.it.
A mancare è un padre capace di tenerezza, «che è il contrario di un vago sentimento o di un servilismo nei confronti di figli padroni. La tenerezza è accoglimento dell’altro per quello che è. Il padre deve rispettare la diversità del figlio e accompagnarlo a scoprire chi è, senza imporre propri schemi, dicendo con affettuosa fermezza dei no là dove siano necessari a non farsi male».
L’assenza di un padre simile conduce la persona o a chiudersi in se stessa, rifiutando il mondo sentendolo nemico, o a omologarsi, facendo di tutto per avere l’approvazione degli altri. Come si esce da questa polarità?
Serve una madre che accolga pienamente il bambino, in completa sintonia, e lo rassicuri nei contatti con l’esterno: tale funzione, in una presenza affettiva costante, è fondamentale nei primi anni di vita. Il padre deve poi subentrare per staccare il figlio da questo rapporto per stimolare il suo sviluppo personale e condividere con lui la ricerca del senso della vita, in un rapporto educativo di testimonianza. Si riceve amore e supporto e la persona cresce capace di stabilità e responsabilità verso il prossimo, contribuendo al benessere di tutta la società.
Parla delle patologie ignorate da chi predica la normalità dell’assenza di una figura paterna o materna, della famiglia omosessuale, dei figli che nascono in laboratorio, dell’aborto in cui il padre è messo da parte. Lega le stragi americane ai problemi familiari di chi le ha compiute. Parla del tabù per cui si finge che le madri che lavorano senza mai vedere i figli sono identiche a quelle che li accudiscono. Quale impatto avrà questo modello sulle generazioni future?
Si vede già ora: le patologie psichiatriche sono in forte crescita.
Da una parte negli ultimi trent’anni sono enormemente aumentati i giovani chiusi in se stessi, soli anche se in compagnia e incapaci di costruirsi una vita basata su relazioni stabili. Dall’altra parte l’assenza del padre genera un narcisismo patologico in cui la persona ha bisogno di continue conferme di sé, prigioniera di una fragilità destabilizzante che la fa essere in balia di tutto. Incapace di fidarsi (innanzitutto di sé) per via del padre che ha abdicato, non sa confrontarsi né accogliere l’altro, di cui dubita sempre.
Questa situazione è sfruttata economicamente attraverso comunicazioni e consumi indotti e dipinta come positiva dal circo massmediatico. Così la persona sofferente, lasciata nella sua sostanziale solitudine anziché aiutata a uscirne, rimane insicura e dipendente e sviluppa angoscia.
Eppure si continua a mascherare il malessere crescente e il fatto che le psicopatologie toccano il 38 per cento della popolazione europea.
I dati clinici si fanno più allarmanti di mese in mese. Nel libro cito ampi studi che collegano lo sviluppo delle patologie psichiatriche alle modifiche che hanno trasformato e indebolito i rapporti familiari primari con la madre e il padre.
Di chi è la responsabilità?
La famiglia spesso non conosce più la propria funzione e il valore di ciò che in essa si vive. Il problema è quindi alla radice, nella consapevolezza dell’esperienza che si fa. Per questo Benedetto XVI spiegò che la famiglia è alla base dell’esperienza umana, il luogo dove attraverso i legami affettivi primari si scopre e si ama l’altro nella sua diversità, anche sessuale (e non identità a sé), e quindi anche se stessi nella propria specifica identità.
Solo nel vivere questo impegno, accettandone le fatiche e le sfide, se ne scopre la ricchezza, che è la crescita della persona, in un contesto amoroso, anche se costantemente sfidato. Come ripeté papa Ratzinger prima dell’ultimo Natale: la famiglia è la condizione necessaria allo sviluppo integrale di un essere umano.
Come un uomo può riprendersi da una condizione alienante?
Uscirne è possibile in un percorso lungo che richiede tempo, pazienza e amore.
Senza libertà e volontà, la persona non può compiere un cammino di liberazione.
Aiutano molto le pratiche religiose come la preghiera, fatta anche con il corpo, i digiuni, il nutrimento dei sacramenti. Tutto questo compensa l’inadeguatezza o la perdita del padre biologico con l’alleanza col Padre della vita. Perché in questi momenti di relazione forte con Dio padre la persona si riequilibra, si riscopre figlio amato e comincia a vederlo anche nell’altro ed in tutta la creazione.
Basta questo?
Servono anche padri che rappresentino il Padre. Persone che ci indichino il senso, la nostra strada per riconoscerlo, e che la ricerchino con noi. Servono contesti in cui i legami siano veri, comunità in cui ci si supporti l’uno con l’altro, spiritualmente, affettivamente e materialmente. Ne abbiamo urgenza sia noi sia gli altri.
Le persone sono sempre più isolate: quando le incontriamo dobbiamo fare di tutto per rompere questo isolamento. Dobbiamo costruire dei ponti, come ci sta ricordando papa Francesco.
Perché allora, come descrive lei ad esempio terapeutico, la madre siro-fenicia che chiede aiuto a Gesù perché guarisca la figlia all’inizio non viene ascoltata?
In lei c’è ancora una fantasia di fusione totale: vuole imporre a chi la aiuta, Gesù, cosa fare senza “vedere”, considerare nella sua alterità la persona a cui si rivolge. Come molte madri fanno rivendicando i diritti dei figli (o i loro diritti sui figli). Cristo allora chiede alla donna un rapporto di amore e insieme di distanza da sé. Lei accetta e la bimba guarisce. Perché serve una distanza? Perché senza di essa non riconosciamo l’altro, e quindi non gli consentiamo di incontrarci. È un continuo esercizio di relazione amorosa, ricevere e donare, stare e andare, di cui l’emblema è la vita monacale, dell’Ora et Labora.
Insiste sulla necessità di essere padri. Ma come può esserlo una generazione che non ne ha avuto uno?
Le nostre ferite sono le nostre fonti primarie di vita. Se le guardiamo e le affrontiamo nel processo sopra descritto, diventano sorgenti d’amore e di acqua viva. Penso alla ferita del costato di Cristo davanti a noi in questo triduo pasquale appena passato: insieme al sangue ne esce acqua, che rende fertile il terreno che la riceve. Da lì scaturisce l’amore che ancora oggi perdona, converte e costruisce la Chiesa.
Non sarà dagli sviluppi tecnologici, dal pensiero astratto e intellettuale che rinascerà la vita vera e una società umana. Ma da una sofferenza tale, come dice il filosofo Pietro Barcellona, che l’uomo pur di uscirne sarà disposto a seguire un bene da cui farsi salvare.