mercoledì 26 giugno 2013

In libreria “Fino alla tua bellezza” di Gabriele Marconi. Ecco il prologo...





Tratto da barbadillo.it


Brihuega, 16 marzo 1937. Notte.

«“A lungo mi sono coricato di buon’ora…”. Mmh, brutta cosa la vecchiaia!».
«Ma va’ in mona, tu e il tuo Proust: è questa pioggia che m’è entrata nelle ossa!».
«Non è il mio Proust», precisò Giulio, «e sei tu che non hai più il fisico».
«Tutti muscoli…».
«Vabbè che ti sei sempre lamentato del fango… Oh, è inutile che ridi perché è la verità vera!».
«No, è che stavo ripensando a Dado».
«Dado… Incredibile, eh? Ha un concetto ben strano di menefreghismo: dove c’è casino c’è lui!».
«E allora noi?».
«Noi? Perché, mi hai mai sentito dire che non me ne frega niente di niente? E tu hai mai detto una cosa del genere? È Dado che ha sempre giurato di fregarsene di tutto, e invece…».
Marco si tirò su, sedendosi a gambe incrociate sulla coperta:
«Usti, erano quasi vent’anni che non lo vedevo… io sono identico a prima, a parte il pizzo, ma lui…».
Giulio ridacchiò: «Sì, tu e il tuo gemello nascosto sotto la camicia!».
«Ci tengo ai miei addominali, dovrò pure proteggerli in
qualche maniera. Insomma, lui invece è cambiato un bel po’…
la faccia scavata, la barba, i capelli lunghi, eppure…».
«Avevamo vent’anni, amico mio. Vent’anni. Adesso ne abbiamo quasi il doppio».
«Appunto, e ci siamo riconosciuti alla prima occhiata. Non è incredibile?».

Giulio si tastò le tasche, poi frugò nella borsa di tela del Modello 33 (che tutti usavano come tascapane dopo aver tolto l’inutile maschera antigas) e pescò un pacchetto di Giuba in mezzo alle bombe a mano. Accese due sigarette e ne offrì una a Marco, quindi tirò una lunga boccata. «Se te devo di’ la mia, per me no, non è incredibile», rispose sbuffando il fumo, «certe cose restano per sempre».

«Ma stai buonino… sotto un temporale e nel bel mezzo di una sparatoria? Lui per me era un nemico, un birillo tra mille altri da buttare giù. E invece ci siamo squadrati e siamo scoppiati a ridere, mentre tutto intorno era un bordello del demonio».
«E lui? Lui che ha detto di preciso?». Giulio sapeva già tutto, ma era l’unica cosa divertente capitata da quando avevano cominciato a ritirarsi davanti a Guadalajara, perciò voleva sentirlo di nuovo e sorrise, pregustando il racconto.

Marco guardò la sigaretta, accorgendosi solo ora di averla accettata. «Assurdo», ricordò sorridendo. «Mi ha gridato: “Ma pensa te… non ti è bastata la sberla che abbiamo preso a
Fiume?”».

Ma pensa te era il biglietto da visita di Alessandro «Dado» Lazzaroni, un anarchico che con loro due aveva condiviso l’avventura fiumana al seguito di Gabriele d’Annunzio, nel ’19. E
adesso se l’erano ritrovato dall’altra parte della barricata.
«Stavo per rispondergli per le rime», continuò Marco, «ma le pallottole fischiavano di brutto, così l’ho perso di vista e dopo un po’ ho pensato più a riportare a casa la buccia che a capire dov’era lui. Comunque ti sembrerà assurdo, ma sono stato proprio contento di vederlo».

Giulio fece un anello col fumo della sigaretta e subito dopo ne infilò un altro al centro del primo (abilità che aveva appreso tanti anni addietro, durante le lunghe, noiosissime settimane di degenza all’ospedale militare di Massaua). «Perché dovrebbe sembrarmi assurdo? È un amico, gli vogliamo bene e tanto basta».

Marco ridacchiò scuotendo la testa per un altro ricordo di Dado che gli era tornato in mente. Poi si rivolse di nuovo a Giulio: «Tu quanto tempo era che non avevi sue notizie?».
«L’ultima volta al matrimonio di Nello: mi dissero che era tornato a Fiume, che si era innamorato di una ragazza di là. Pare addirittura che si fosse messo a lavorare per sposarla».

«Minchia! Nello e Dado sposati… Alla fine siamo invecchiati davvero, altro che storie».
Giulio sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere, tossendo il fumo che gli era andato di traverso.
Marco lo guardò risentito: «Cazzo ridi, scemo!».
«No, è che…», altre risate e colpi di tosse, «…mi sono ricordato di una battuta identica a questa in un film americano che ho visto al cinema l’estate scorsa. C’erano… c’erano tre amici seduti in salotto, vestiti di tweed, la pipa in una mano e un bicchiere di brandy nell’altra, il camino acceso… uno diceva “siamo invecchiati davvero, amici miei”. E tu… ahahah! Non ci posso credere! Tu che mi dici la stessa cosa con la divisa imbrattata di sangue, seduto su una coperta in mezzo al fango gelato a duemila chilometri da casa e gli aerei che mitragliano e bombardano tutto intorno!».

Marco lo guardò per un istante, poi scoppiò a ridere anche lui. Risero insieme. Risero fino alle lacrime, poi il bergamasco la chiuse là. «Bon», concluse dopo essersi calmato, «ma se non fossi invecchiato davvero, bombe o non bombe, fango o non fango, a quest’ora starei bellamente dormendo fregandomene di tutto, invece di star qui sveglio a sorbirmi le tue menate. Quindi come sempre ho ragione io, bigolo!».