DUE PAROLE DA CASAGGì...
Oggi è l'8 settembre. Per qualcuno potrà apparire paradossale che, con tanti anni di distanza, un ambiente politico che aspira a governare il paese si fermi a riflettere su una pagina di storia che dovrebbe essere metabolizzata. Eppure è così: ogni anno, di fronte ad una data che nessuno di noi ha vissuto sulla propria pelle, ci s...i ferma a pensare con il cuore cupo. Perché ogni declino, seppur lento e progressivo, ha sempre un inizio tangibile. E il declino dell'Italia, purtroppo, inizia l'8 settembre del 1943.
Siamo l'unico paese al mondo che si vanta di aver cambiato schieramento bellico durante un conflitto. L'unico paese al mondo che festeggia la sconfitta di una guerra, che non ammette di aver commesso un'infamia, di aver cambiato casacca, di aver mollato gli alleati e aver rivolto contro di essi il fucile per accompagnarsi a quelli che fino al giorno prima erano i nemici comuni. Siamo l'unico paese che ha coscientemente aiutato le truppe straniere a sbarcare in casa nostra, a bombardare le nostre città, a violare le nostre donne e massacrare i nostri figli. E a chi si era prodigato nell'aiutare lo straniero, dopo quell'8 di settembre, si sono date le medaglie, le pensioni, i riconoscimenti. Ai figli di quel tradimento si è dato il monopolio della memoria: quella storia la raccontano loro, omettendone le vergogne, la tramandano loro, la proteggono con le leggi speciali e i reati di opinione, la trasformano in dogma, la inculcano come fosse un mantra.
Ma, come ogni pagina di storia, dall'infamia nasce anche il riscatto. Perché l'8 di settembre non è soltanto l'armistizio, ma anche la reazione fiera e spavalda di chi non riuscì ad accettarne il corso e decise di schierarsi dove aveva combattuto fino al giorno prima. Sulle ceneri dell'Italia costruì una Repubblica, la fece bella, le diede un'impronta sociale e nazionale. Il simbolo ne riassumeva le virtù: in mezzo al tricolore non c'era più lo scudo di chi era fuggito, ma un'aquila che, tra gli artigli, stringe un fascio littorio. Dopo quell' 8 di settembre non ci sono solo i Badoglio, ma anche i Pavolini: gente che si rimette la camicia nera, che rimarca un giuramento e gli tiene fede, che decide di dare un ultimo disperato segnale di vita. E sono stati tanti i piccoli gesti di coraggio e di dignità. E' per quei gesti che vale la pena lottare, perché non siano stati fatti invano.
Quell' 8 di settembre ci consegnò al nemico, ci rese una colonia, ci precipitò dalla tragedia alla farsa e ci relegò al rango dei servi, quelli da interpellare ogni tanto e senza pretese, quelli fedeli perché costretti e asserviti perché deboli: l'Italietta del dopoguerra; quella degli scandali, delle bombe di Stato, degli inciuci, della mediocrità, della lobotomizzazione di massa, del servilismo atlantico, del compromesso sempre pronto. E fare politica, oggi, ha più senso di sempre: per ribaltare l'esito di quel giorno infausto e tornare a sperare, per prestare fede al giuramento di chi scelse di non arrendersi, per onorare la memoria dei nostri morti, per dare ai nostri figli un futuro, per tornare ad essere Nazione e non girarsi dall'altra parte, per non morire di centri commerciali e trasmissioni televisive, per non vivere una vita nella quale gli obiettivi siano solo la carriera e la partita di calcetto con gli amici, per potersi guardare allo specchio senza vergogna, per avere la possibilità - un domani - di ripensare a questi giorni e dire con gli occhi lucidi che, nonostante tutto e nonostante tutti, noi abbiamo fatto ciò che doveva esser fatto. Perché, come disse Ezra Pound, "qui l'errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare".
Non esitate mai più: l'Italia ha bisogno di gesti decisi e di gambe solide.