di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)
La Francia degli ultimi anni si è trasformata e insieme ad essa si sono trasformati i francesi. Se pensiamo ancora ai nostri vicini d’Oltralpe nelle vesti di fieri patrioti, come li disegnavano Goscinny e Uderzo, o se pensiamo alla Francia dei De Gaulle e dei Depardieu – ora a tutti gli effetti cittadino russo – siamo ancorati ad un tempo sorpassato. È pur vero che il Front National (Fn), ultimo contenitore non tanto politico quanto più socio-culturale di una “francesità” in via di estinzione ha preso il 17,9% alle ultime elezioni, ma la Francia di oggi ha un volto nuovo.
Questa fisionomia recente, tuttavia, ha origini lontane, e fu proprio alla fine dell’esperienza coloniale e imperialista – intrapresa dal XVI secolo – che si cominciarono a registrare i primi flussi migratori che avrebbero cambiato il volto del Paese. Dalle ex colonie del Maghreb, dell’Africa e dell’Indocina un gran numero di migranti muoveva verso la Francia metropolitana. Solo nel 1945 però, dopo la caduta del regime di Vichy, per effetto delle posizioni contrarie al diritto al lavoro e alla cittadinanza allo straniero, l’immigrazione divenne un fenomeno rilevante, tanto che le politiche di immigrazione duratura istituzionalizzarono l’acquisizione dei diritti di cittadinanza con l’aumentare del tempo di soggiorno. Il boom economico del secondo dopoguerra – le famose Trente glorieuses – costrinse la Francia a soddisfare la necessità di manodopera a basso costo e quindi a promuovere la permanenza degli immigrati. Successivamente, con le crisi del petrolio degli anni Settanta le decisioni dell’Assemblea Nazionale si alternarono su posizioni diverse, secondo i governi, che prima regolarono i flussi migratori e sovvenzionarono addirittura il ritorno in patria degli stranieri, mentre, in altri casi, si regolarizzarono 130mila immigrati senza documenti (1981). Uno studio di “La France Africaine” sostiene che il 13% della popolazione francese è di origini africane. Secondo i dati dell’Insee (l’Istat francese) il 18,7% dei giovani non ancora maggiorenni ha almeno un genitore immigrato. Certo, un fenomeno di queste dimensioni non può non andare a modificare le dinamiche sociali di uno Stato.
Progressivamente, la questione migratoria ha introdotto il problema dell’integrazione. Rispetto al modello “pluralista” britannico o canadese, promotore dell’autonomia culturale, religiosa e comunitaria degli immigrati, che soprattutto in Inghilterra è stato un primo sintomo del fallimento del multiculturalismo (ricordiamo i roghi di Tottenham), il modello francese è “assimilazionista”. L’assimilazione si basa sull’universalità dei valori della Repubblica, sulla laicità e sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo: l’immigrato, abbandonata la sua cultura di origine, o almeno relegata nella sfera dell’intimità, si proietta a tutti gli effetti nella cultura e nella società francese in quanto cittadino.
A servire da strumento di transizione in questo processo – dalla cultura di origine a quella ospitante – è la scuola pubblica, laica e obbligatoria, che veicola tramite la letteratura, la storia, la geografia e l’educazione civica le tradizioni e i valori della République: i collanti della “francesità”. Il modello francese si realizza, dunque, non in quanto multiculturale ma propriamente in quanto “monoculturale” e se da un lato rappresenta un importante successo, dall’altro accerta una disfatta. L’Alto Consiglio all’Integrazione (Hci) sostiene che “da tempo le generazioni di immigrati e i loro bambini hanno trovato un posto in Francia” e aggiunge il presidente Patrick Gaubert: “Se consideriamo degli indicatori tangibili come il livello dei diplomi delle generazioni seguenti, la mobilità sociale, i matrimoni misti, la maggioranza degli immigrati si integra”. È vero infatti che un consistente numero di francesi di origini straniere, figli a loro volta di immigrati, occupano oggi posizioni di rilevo nel mondo del lavoro, nell’ambito dell’amministrazione pubblica, dei settori strategici e dello spettacolo. Nondimeno l’immigrato meno abbiente e privo della nazionalità francese ha diritto a tutti i servizi pubblici, dall’educazione alla sanità sino al sussidio in caso di disoccupazione. Eppure il problema delle banlieu, le periferie parigine sovraffollate e divise in ghetti autogestiti dagli stranieri più poveri, è ancora irrisolto. Se quindi il modello “assimilazionista” alla francese può dirsi per certi versi un successo, d’altro canto è impossibile non constatare un’erosione interna di quella cultura francese alla quale gli immigrati devono assimilarsi. Dei flussi migratori tanto rilevanti sono riusciti col tempo a rimettere in causa – come in uno scontro di civiltà – i valori della Repubblica. Il dibattito politico si è spinto tanto in là da domandarsi, in nome della diversità, se promuovere l’identità nazionale o se permettere l’affermazione delle minoranze etniche, arrivando a ripensare il proprio modello di integrazione. La cultura a cui ci si deve assimilare, infatti, è sempre più priva di punti di riferimento e per non entrare in conflitto con le diverse etnie straniere – alle quali si è concessa sempre più autonomia – la cultura francese si è rimessa in discussione da sé. Questa paradossale conseguenza è il risultato di quei valori repubblicani che a partire dal 1789 sono stati spinti allo stremo fino a diventare un controsenso.
Da un lato si cristallizza una Francia spaccata, priva di un collante socioculturale ma che si riconosce secondo il luogo geografico e il campanilismo (“sono di Parigi”) e da l’altro lato si profila una situazione potenzialmente esplosiva: il conflitto tra una consistente fetta della popolazione costituita dagli immigrati e dai loro figli, sradicati dalle loro origini e inglobati nella cultura francese, e tutti quegli stranieri che hanno scelto un ritorno alle comunità di provenienza. I più poveri, ghettizzati nelle periferie e abbandonati a se stessi, finiscono spesso per entrare nel mondo della criminalità organizzata. Ricordiamo le rivolte nelle periferie delle più importanti città francesi, una serie di sommosse che hanno evocato, come intensità, solo il Maggio francese del 1968.