di Pietrangelo Buttafuoco
Ho visto “La mafia uccide solo d’estate”. E’ il film di Pif, ovvero Pierfrancesco Diliberto, già famoso per essere stato uno delle “Jene”, la trasmissione di Mediaset dove, in tema di inchieste giornalistiche, danno in testa pure a Milena Gabanelli. L’ho visto, il film, dopo aver letto “Storie e cronache della città sotterranea”, la raccolta di pezzi di Salvo Licata scritti in massima parte per L’Ora di Palermo.
L’ho dunque visto, il film il cui titolo è come quello del libro di Angelino Alfano, già preparato. Anzi, già mutriato grazie a Licata rispetto all’esercizio di memoria e debbo dire che me ne sono uscito da quel cinema con la consapevolezza di una pellicola commovente ma antiretorica, dolcissima ma dura, surreale e realissima al punto che la gente – e mi trovavo all’Alhambra di Roma, non dunque al Cinema Diana di Leonforte – batteva le mani e piangeva, piangeva e batteva le mani e io, uscendo con fasciacollo e cappotto, mi ripassavo a memoria Salvo Licata che così, in quelle pagine oggi pubblicate da Sellerio, scriveva: “Strada facendo l’argomento mafia è sempre molto richiesto, nonostante se ne fosse scritto senza sosta”.
Nonostante la mafia sia diventata, nel frattempo, un pretesto di retorica, il film – perfetta nel ruolo anche Cristiana Capotondi, coprotagonista con Pif – profuma di sapienza critica.
Ho visto il film, dunque, con la testa felicemente imbrogliata dai racconti di Licata. Avevo fresche le cronache minori tutte di parolacce nere e messe in fila nella prosa di quel libro – così teatrante e così giornalistico, così remoto perfino – e m’incamminavo ripetendo il finalmente. Finalmente un film senza muffa, un film – sazio di cronache e d’inserti documentari – degno erede di quel “Mafioso” di Alberto Lattuada e de “La Matassa” di Ficarra & Picone che, certamente, sono due distinti canovacci strappati alla fantasia, sono sfacciatamente comici, ma che nell’immaginario hanno danneggiato la mafia più di quanto possa fare qualunque etica/estetica della Costituzione più bella del mondo. Tutto in virtù di ironia.
Un film che deve avere di sicuro attinto a Licata, a L’Ora, a Peppino Sottile che in “Nostra Signora della Necessità” (Einaudi-Stile libero) svelò il racconto della mafia vista con gli occhi di un ragazzo; un film, infine, dove quella memoria – bravo, bravissimo Pif – non scivola come l’acqua sul marmo, nell’indifferenza, ma nutre, dimora e rinnova di vita la storia. Personalmente ho avuto un pugno al petto quando ho visto Benito Paolone fissato in un fotogramma. L’ho visto quando nel film, ai funerali di Giovanni Falcone, tutta Palermo scende in strada. Benito urla e sfonda le transenne e il cordone di carabinieri trascinando con sé, sotto l’immunità derivatagli dal suo tesserino di parlamentare, tutto un popolo che non sapeva in quale catoio seppellire la propria disperazione: se nell’antro buio di un rione o nel ballatoio saturo di schiuma e rosolio di una bicchierata. Questa è la pagina delle pagine di Licata: “La mafia della fame”. In punto di filologia, spiego meglio: “La mafia del pititto”. Chi vede il film, si legga il libro di Licata e così avrà visione delle famiglie dei protagonisti dei delitti: “Chiusasi la catena dei delitti, a questa gente non è rimasto che andare e venire dall’Ucciardone e dagli studi degli avvocati. E così si sono venduti pure i chiodi dei muri”.
Chi ha letto Licata legge tra le scene del film il racconto di una società parallela: il bambino che a furia di non capire l’incastro di coincidenze, i morti, gli iris di ricotta impastati nei proiettili, i baffi – i bellissimi baffi sporchi di zucchero – di Boris Giuliano, arriva alla rivelazione: la gente non viene sparata per le femmine, ma per la mafia. Chi ha visto il film troverà la chiave di un enigma, quello della mafia, che non è così raffinatissimo d’intelligenza, piuttosto di tragica necessità: “Ce l’avete un posto di spazzino?”. Così si sentivano chiedere i cronisti de L’Ora quando andavano dentro quelle famiglie, tutte di pane e mafia.
Bravo, bravissimo Pif. Il tallone d’Achille della mafia è il culo. E di essere presa per il culo, dove Pif, la prende, non vuole saperne punto. La mafia, specie se sotto i riflettori della denuncia, cresce in mitologia. La mafia, poi, nutrita d’antimafia giganteggia per negazione restituendo a certi professionisti l’agio sociale di un’invincibilità etica che riduce tutto a protocollo. Valga per tutti l’esempio di Antonio Ingroia. Ma anche quello di Rosario Crocetta. E poi tutta la mistica dell’Agenda rossa di Paolo Borsellino, rivelatasi poi per un parasole, e poi però mi fermo qui per non precipitare di esempi in esempi, all’infinito, tanto è fruttuosa l’industria dell’antimafia.
Magari faccio danno a Pif nel fargli i complimenti. Ma è un fatto che a differenza di altri film dove, come minimo, un fotogramma sì e l’altro pure mettono una denuncia, una trattativa stato/mafia, lui ci mette l’orazione civile finale giusto per tic, per riflesso condizionato, perché poi l’argomento tira e poi – si sa – c’è il disbrigo formale del birignao istituzionale. Dopo il felice esito della produzione, rischia di farsi mettere cappello nella retorica di post produzione. Già ha dovuto farsi la savianata d’obbligo, quindi il Te Deum con Pietro Grasso, il sempre sorridente presidente del Senato, già procuratore nazionale antimafia, spettatore sottoscorta, già autore di una dimenticabilissima pièce dal titolo “Lezioni di Mafia”, rivelatasi un parasole, ops, un’agenda. Di birignao teatrale.