domenica 8 dicembre 2013

Il ritratto. Se ne va Mandela icona pop di una rainbow nation mai nata

di Redazione Barbadillo

Per Clint Eastwood – suo grande estimatore – fu Invictus, il padre carismatico del nuovo Sudafrica che, proprio come la squadra di rugby degli Springboks (orgoglio ai tempi dei bianchi afrikaner) avrebbe vinto proprio perché avrebbe superato gli odi e la discriminazione. Quella squadra di rugby il miracolo lo fece davvero: battere gli All Blacks ai mondiali del 1995 e rappresentare da quel momento tutti i sudafricani, neri e bianchi che fossero.

Dal punto di vista politico, però, il grande progetto di Nelson Mandela, la Rainbow nation, non si è realizzato. Il Sudafrica, oggi, è un’altra cosa rispetto all’idea di nazione multiculturale teorizzata dal suo primo presidente di colore che è morto ieri a Johannesburg: è una nazione non pacificata, con una classe dirigente corrotta, un Paese dilaniato poi da un tasso di Aids che è stato sottovalutato dai governi, come ha confessato Mandela. Stesso discorso in termini di sviluppo economico: basta citare che nel secondo trimestre del 2013, i disoccupati in Sudafrica sono 4,7 milioni, circa un quarto della forza lavoro. Non a caso l’inquietudine con cui i suoi affezionati hanno vissuto gli ultimi anni di un leader ormai politicamente inattivo dimostrano come il Paese sia in preda all’incertezza rispetto alle altre potenze del Brics.

Di tutto ciò, però, i grandi media sembrano tenere poco conto. Questo perché Nelson Mandela è rimasto l’unica icona pop del mondo uscito dalla Guerra Fredda. Un’icona, quindi, riconosciuta di per sé più che per la sua storia (lo si capisce anche dagli strafalcioni sui titoli di alcuni giornali on line: c’è chi lo ha chiamato «il padre dell’Apartheid»). La potenza mediatica delle immagini del leader liberato e prima ancora la forza del suo discorso nel processo che lo ha accompagnato verso ventisette anni di reclusione lo hanno reso l’idolo moderno che oggi campeggia sulle pagine di tutti i giornali e i siti del mondo. Una figura che è stata innalzata urbi et orbi per aver sconfitto quel segregazionismo che – è bene ricordarlo – negli Stati Uniti è stato abolito solamente negli anni ’60.

Ad andare più in fondo, però, emergono i chiaroscuri non solo dell’uomo (non ha mai sconfessato l’uso della violenza per ottenere diritti politici, così come hanno fatto discutere, poi, le relazioni internazionali con gli scorrettissimi Gheddafi, Fidel Castro e Saddam Hussein) e le prove non brillanti dell’amministratore, ma anche quelli di una nazione lacerata da una guerra civile sommersa dopo la fine dell’Apartheid che ha provocato violenze contro la popolazione bianca (il 66% di attacchi alle fattorie è a danno di queste), violenze diffuse tra i neri stessi (un numero elevato di stupri) e poche conquiste in termini di progresso e aperture partecipative per le masse (non a caso la nazione è retta dalla stessa coalizione dal 1994).

Certo, l’idea di Mandela di mettere in campo la “commissione per la riconciliazione” tra le diverse etnie dopo la fine dell’apartheid che lui ha combattuto – e che probabilmente ha evitato l’esplosione massiccia del conflitto etnico – resta un’intuizione che dovrebbe far riflettere ancora oggi gli stati occidentali. Anche per questo è stato insignito del premio Nobel per la Pace: per una capacità politica e culturale che è andata oltre i risultati oggettivi.