di Marcello Veneziani
Le notizie sono sempre di più e sempre più incontrollabili. L'equilibrio tra rischi e benefici è precario. E il pericolo maggiore è l'illusione della verità
Ieri si è conclusa ad Asti l'undicesima edizione del festival culturale «Passepartout», il cui tema portante era: «1954-2014 Sesto potere? Informazione, disinformazione e controinformazione in TV». In questa pagina presentiamo una sintesi della «lectio magistralis» tenuta a conclusione del festival da Marcello Veneziani.
Nel regno dell'informazione non tutto è come appare. Non è il titolo per un breve trattato di dietrologia, con un bel complottone dei poteri occulti. Indica piuttosto la differenza abissale tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica, l'ipocrisia che si nasconde nel culto dell'outing e della spontaneità, l'ideologia che si copre dietro i fatti e il paradosso che a volte l'evidenza più sfacciata serve a dissimulare la verità delle cose. L'informazione oggi patisce di bulimia, ipernutrizione, il media-mondo è un'emorragia perenne di notizie. E da qualche anno i flussi inarrestabili di notizie si accavallano ai flussi incontinenti di commenti in forma di blog, e-mail, twitter e sms. Fatti e interpretazioni si intrecciano in tempo reale sul piano universale. Si è sfondata la porta che separava i datori di commenti dai fruitori, si è superato il confine tra la sfera pubblica e la sfera privata ed è indistinto il passaggio dal fatto alla chiacchiera. Non ha senso stabilire se questo sia un progresso o un regresso in assoluto, perché è sia l'uno che l'altro, a seconda di cosa viene messo in relazione, in rapporto a cosa. Qui mi limiterò a mettere in contraddizione alcuni aspetti e alcune conseguenze, sapendo che su altri piani, l'informazione permanente, universale e incontrollata, produce benefici.
Per cominciare, l'evidenza delle immagini e la loro universale fruibilità non è sicuro indizio di trasparenza e comprensibilità dei fatti. Dalla prima guerra in diretta, quella del Golfo nel '91, alle ultime rivolte, noi vediamo lo spettacolo degli eventi ma non cogliamo il senso e l'intero. Vedemmo fiumi d'immagini grazie alla Cnn, ma ci sfuggirono i centomila iracheni sepolti sotto la sabbia, tra popolazioni civili, la distruzione di Ninive, Babilonia e Damasco. La tv poi ci mostrò il sogno di libertà della primavera araba, ma non ci fece cogliere il lato cupo di quelle rivolte che colpirono dittature semi-moderne per instaurare regimi tribali o aspirare a regimi dispotici peggiori di segno integralista. E in Ucraina ci hanno istigato al tifo per la rivolta in favore della libertà e l'Europa e alla deplorazione dei carri armati russi, senza dirci che un governo democratico e legittimo, voluto dal popolo e riconosciuto a livello internazionale, era stato rovesciato con la piazza e invece a una popolazione in prevalenza russa, come in Crimea, era negato il diritto di restare nell'alveo originario, sancito pure da un referendum popolare. L'evidenza delle immagini non ci dice niente sulla verità dei fatti e dei moventi. Ci dà uno scorcio, un fotogramma, non l'intero.
In secondo luogo la denuncia reiterata, la gogna mediatica, l'overdose di notizie non scoraggia il ripetersi di pratiche, sistemi e fatti, come quelli legati alla corruzione. Anzi l'eccesso di notizie crea assuefazione ai fatti, l'indignazione si fa routine, l'abuso mitridatizza. L'informazione non è un vaccino etico.
L'effetto peggiore che produce la democrazia del blog è quella barbarie dell'ipermodernità che denunciò molti anni fa Ortega y Gasset e si riassume in una sua riflessione aristocratica: l'animo volgare sentendosi volgare impone dappertutto il diritto alla volgarità. Avendone la possibilità, tutti si sentono in diritto di giudicare tutto, solo da un labile indizio, una diceria, un'impressione, e di inoltrarsi in terreni ostici di cui ignorano quasi tutto. Il nucleo della barbarie è l'immediatezza, cioè la spontaneità irriflessiva dei giudizi, priva di mediazioni e confronti, di paragoni e approfondimenti. È l'equivoco che il libero accesso universale produca parificazione universale. Si perde lo scarto tra le opportunità e le capacità: le prime in un sistema libero e democratico valgono per tutti, il riconoscimento di meriti e capacità è invece commisurato al livello di ciascuno. Si confondono mezzi e fini, strumenti, ranghi e piani.
La caduta mediatica dei tabù, delle reticenze e dei segreti viene accompagnata dall'apologia del coming out, ovvero la rivelazione in pubblico di quel che si considerava intimo, privato, rimosso o taciuto. Dietro questa glasnost universale c'è spirito di verità o esibizionismo egocentrico, narcisismo puro e perdita di ogni relazione tra diritti e doveri, tra piacere e responsabilità? Ma l'aspetto più perverso della trasparenza è che con l'outing cresce anche il nuovo codice dell'ipocrisia, il politically correct, il gergo della finzione che copre la verità per tutelare alcune categorie. Il rococò del parlar falso si spinge fino a considerare reati alcune opinioni «scorrette». Curioso questo canone di divieti nel pieno della società permissiva, trasparente, del re nudo. Effetti collaterali di questi codici di benevolenza e malevolenza nei media sono la fabbrica dei palloni gonfiati e la finzione d'inesistenza per temi e autori non allineati.
Qui entriamo nel tema cruciale: chi orienta i media, chi li influenza? I padroni dell'informazione oltre i proprietari di testate e d'hardware, sono tre: il potere economico-politico, i grandi committenti pubblicitari e i gestori del software ovvero l'intellettuale collettivo nella specie di egemonia culturale, clero dei potentati ideologici. Gli scopi generali di chi detiene il potere dell'informazione sono tre: vendere, orientare, condizionare (più farsi ammirare, per chi scrive). Il primo è lo scopo commerciale puro, il secondo è lo scopo ideologico, succedaneo del propaganda fidei, il terzo scopo ibrido è favorire un'impresa, un prodotto, un progetto, un'operazione, far pressione, lobbying a mezzo stampa.
L'ideologia che fodera questi assetti e questi scopi è il primato dei fatti rispetto alle opinioni. In realtà dietro i fatti viene violata la verità in due modi diversi: o con la pretesa assolutistica di detenere il monopolio della verità o con la pretesa relativistica che non ci sia la verità nei fatti ma solo interpretazioni. Più onesta un'altra chiave di lettura: la verità esiste, oltre le nuvole delle opinioni, ma nessuno ne detiene il monopolio, possiamo solo approssimarci ad essa, e coglierne uno spicchio; non siamo portatori di verità ma la verità porta dentro anche noi. L'informazione buona e onesta è animata da tensione di verità e non nega di avere anche una finalità etico-educativa, libera e trasparente. A patto di riconoscere quel che Gioberti definiva la poligonia del vero: la verità ha più lati e noi ne cogliamo uno. Si tratta di ripristinare la relazione tra il vero e il fatto, per dirla con Vico. Il vero è la visione intelligente del fatto. I fatti sono parziali, le interpretazioni sono partigiane: la verità è l'intero rispetto alle parti. Ognuno faccia la sua parte, senza la pretesa di dire il Tutto o di rivelare il Nulla.