venerdì 6 giugno 2014

Riscoprire la centralità dello Stato


di Alessio Pizzichini (L'intellettuale Dissidente)

Al centro dell’ormai scaduto dibattito politico, sulla questione sociale non si riesce ad andare oltre gli 80€ o il reddito di cittadinanza. Questioni meramente superficiali, che, seppur un giorno verranno applicate, non risolveranno il problema della precarietà e soprattutto della disoccupazione, ormai al 13,6% con quella giovanile al 46%.

Agli Italiani serve lavoro. Tutto il resto ruota attorno al problema, lo affievolisce, ma non lo risolve.

Con 80euro in più al mese, sorvolando l’illogicità con cui verranno distribuiti, se mai lo saranno, una famiglia cosa può fare? O con il reddito di cittadinanza non si rimane precari? Con 400€ al mese una persona che voglia vivere dignitosamente non può che cercare almeno un lavoro part-time, magari in nero e sottopagato. Non arriva neanche a un migliaio di euro, tra l’altro senza contributi. Certo, come direbbe La Palice, meglio avere 80€ in più che non averli, o meglio avere un sussidio quando non si ha lavoro. Ma una casa va ristrutturata dalle fondamenta, non dal tetto.

Se serve occupazione, si creano posti di lavoro. Ci sono vari modi, da quelli più liberisti a quelli più tipici di un’economia centralizzata. Per esempio si possono defiscalizzare le imprese, così che trovino conveniente assumere ulteriore forza lavoro. Il governo ha dichiarato che ciò sarà fatto, ma piuttosto che sprecare fondi per gli 80€, col fine di ottenere consensi che non si sono avuti con legittime elezioni, sarebbe stato più opportuno investirli tutti nelle imprese così da permettere la creazione di nuovi posti di lavoro. Oppure si possono concedere più prestiti a tassi di interesse più bassi, così che le imprese possano allargare la loro produzione e investire in nuovi settori, ma ciò è impensabile con il sistema bancario attuale, dove tutte 

le banche sono private, avide di profitti e prive di umanità, se mai l’hanno avuta. Più tipico invece di un’economia centralizzata è la creazione di imprese statali, o la rilevazione da parte dello stato di imprese private che si occupano di interventi pubblici.

Queste creano posti di lavoro, quindi più stabilità e permettono la conduzione di una vita più dignitosa. Ci sono sempre stati pregiudizi sulle imprese statali derivanti dal fatto che chi lavora per lo stato ha eccessive agevolazioni rispetto a chi lavora per un privato. La verità è che in Italia sono sempre state gestite male, dai loro vertici all’ultimo operaio. Innanzitutto i consigli di amministrazione sono composti da persone che più che qualifiche e meriti hanno una buona rete di relazioni, e ogni qualvolta vengono scelti i manager pubblici si nota come i nomi siano sempre quelli, che cambiano solo l’impresa da amministrare o il consiglio d’amministrazione su cui sedere. Si veda il recente scandalo dell’INPS che vide coinvolto il presidente Mastrapasqua, immischiato in ben ventisei cda tra enti e imprese.

Altra critica mossa è quella che le imprese statali sono inefficienti rispetto a quelle private. Ciò accade quando chi gestisce un’impresa statale è più incompetente rispetto a chi ne gestisce una privata. Infatti a parità di competenza riceverebbe un salario maggiore chi lavora in un’impresa statale, o, mantenendo costanti i salari, questa potrebbe assumere ulteriore forza lavoro. Inoltre risulterebbe molto più conveniente per un consumatore acquistare beni o servizi prodotti dallo Stato piuttosto che da un privato, perché il primo cerca di massimizzare le vendite sotto il vincolo dell’assenza del profitto, ponendo quindi il prezzo poco maggiore rispetto al costo di produzione, mentre il secondo cerca di massimizzare il profitto ponendo il prezzo più elevato consentito dal mercato.

Così facendo si sarebbero evitate la multinazionalizzazione della FIAT, le innumerevoli delocalizzazioni che solo lo Stato può evitare per salvare posti di lavoro, e le grandi imprese, quali l’ILVA di Taranto, sarebbero state gestite meglio, salvando lavoro e soprattutto vite umane. La soluzione alla crisi non è dare elemosina ai cittadini, confidando che continueranno a fidarsi ciecamente dei burattini dei grandi industriali italiani e internazionali e dei grandi speculatori finanziari. Il problema è sovrastrutturale: c’è da cambiare il sistema bancario, il sistema di emissione di moneta, il sistema economico ormai lasciato alle barbarie del neoliberismo. E ciò si può fare soltanto se si ridà allo Stato quel ruolo di “sintesi assoluta della razionalità dei singoli, che riconoscono in esso il luogo della piena realizzazione della libertà individuale” (Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto), e non il ruolo che ricopre oggi, di obbediente servitore di superpotenze sovranazionali.