mercoledì 31 luglio 2013

Heidegger: epocale e inattuale


di Mario M. Merlino

Nel 1949, a cura del discepolo e filosofo lui stesso, Hans Georg Gadamer, venne realizzata una antologia di interventi, tutti di grande prestigio, nel sessantesimo compleanno di Martin Heidegger. Era un omaggio, di certo doveroso, ma anche il tentativo di sottrarre l’uomo il professore la grande figura di pensatore all’isolamento e alla proibizione all’insegnamento, che gli alleati avevano imposto sotto l’accusa di coinvolgimento con il regime nazista. Accusa questa che verrà rinnovata nel tempo, anche dopo la sua morte (basterà ricordare il libro del cileno Victor Farias, titolo Heidegger e il nazismo, edito in Italia nel 1988, che darà l’avvio a tutta una serie di ulteriori pubblicazioni sul medesimo tema e con il medesimo intento). Una accusa, va ricordato, dalla quale non si è mai discolpato, affermando solo di essersi illuso che il nazionalsocialismo potesse essere la forza in grado di affrontare il tema del dominio della tecnica e della modernità, entrambi espressione del nichilismo europeo.

Fra gli autori di questa raccolta vi era anche lo scrittore Ernst Juenger, che con La mobilitazione totale (1930) e L’Operaio (1932) avevano attirato l’attenzione di Heidegger. ‘…tentai di mostrare come essi costituissero una comprensione essenziale della metafisica di Nietzsche, nella misura in cui … erano visti e prefigurati la storia e il presente dell’Occidente’. E ancora, nell’inverno del 1939, vi era ritornato sopra e s’era reso conto come, alla base di quelle opere, vi ‘è il dominio universale della volontà di potenza, all’interno della storia pensata in una prospettiva planetaria’. E nella realtà scaturita dal conflitto mondiale ciò si evidenzia si colloca ‘si stanzia … lo si chiami comunismo, fascismo o democrazia mondiale’(E questo molto prima che i concetti di ‘mondialismo’ e di ‘globalizzazione’ ci divenissero familiari…).

Così, nel 1955, compiendo a sua volta Juenger sessantanni, egli si decide a rispondere a quello scritto antologico che lo scrittore aveva intitolato Oltre la linea e che egli intitola Sulla linea. Va rilevato che nella lingua tedesca il termine ‘ueber’ può tradursi sia come l’andare oltre la linea mediana, il travalicamento (ed è ciò che fa Juenger), quel meridiano zero ad indicare che la parabola del nichilismo ha iniziato il suo percorso; sia come l’essere su, ove il risguardo si rende possibile, anzi (ed è ciò che fa Heidegger) si necessita per conoscere qual è stato il destino dell’essere, il significato del suo fondamento, il fraintendimento che s’è dato. Insomma, da una parte una posizione etico-esistenziale, dall’altra rigorosamente ontologica.

Per meglio intendersi, ecco come Juenger chiude il suo breve saggio: ‘Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca. Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici’.

Una forma una forza una volontà… Ad altro pensa Heidegger. Il pensiero riflettente (quello a cui egli fa riferimento) s’attarda nella ‘localizzazione del luogo che riunisce nella loro essenza essere e niente, che determina l’essenza del nichilismo e che consente così di riconoscere le vie per le quali si delineano i modi di un possibile oltrepassamento del nichilismo’.

Questo attardarsi non va confuso con l’esitare, semmai è il suo contrario.
Senza la consapevolezza del come e del perché ogni cammino porta con sé il rischio di disperdersi per ‘sentieri interrotti’ (si noti la similitudine con l’‘entrare nel bosco’ auspicato proprio da Juenger ne Il trattato del ribelle, ancora una volta proposto quale atto di volontà e d’orgoglio oltre che di ‘resistenza’ contro le lusinghe e le catene della modernità politica). Il destino equivale ad una sconfitta qualora il suo metro si affidi alla pretesa d’essere auto-coscienza del proprio valore. Proprio Heidegger ha scritto in altra parte: ‘Colui che pensa nella grandezza, nella grandezza costui è costretto ad errare’…

Entrambi, dunque, si confrontano in un dialogo a distanza sul nichilismo ‘il più inquietante di tutti gli ospiti’, come era stato definito da Nietzsche, la cui ombra si estende su tutto il XX secolo e di cui questo esile libro, edito in Italia dall’Adelphi nel 1980, è il punto più alto di svelamento, di comprensione, di superamento. Un libro epocale, osiamo dire, che poi, a ben guardare, è l’altra faccia, il rovescio dell’inattualità, di cui anche qui dobbiamo essere grati al padre di Zarathustra per avercene fatto dono.

martedì 30 luglio 2013

Il male assoluto è un vecchio di cent'anni


di Marcello Veneziani (Il Giornale)

Il Male Assoluto è un vecchio che domani compie cento anni alle porte di Roma. Si chiama Erich Priebke e sulle sue vecchie spalle regge ormai da solo il peso cosmico dell'Orrore Universale.
Celebri torturatori, capi spietati di polizie segrete che hanno compiuto crimini orrendi, truci infoibatori con pensione elargita dallo Stato italiano, capi di Stato che ordinarono milioni di vittime, vissero e morirono serenamente e riposano nelle segrete dell'oblio. Resta invece solo lui, nei secoli Imputato, per lui i processi si rifecero a gentile richiesta del pubblico, i tribunali mutarono sentenze.
Per forza, è il Male Assoluto... Resta un mistero perché ad esempio Paul Tibbets, il pilota di Enola Gay che sganciò la bomba atomica sulla popolazione di Hiroshima, obbedendo a un infame ordine ricevuto, sia morto pochi anni fa da eroe, e un soldato tedesco che obbedendo a un infame ordine ricevuto, eseguì sotto il comando di Kappler la strage delle Fosse Ardeatine per rappresaglia alla strage di via Rasella, incarni il Male Assoluto. Chissà come vive in cuor suo questa interminabile esistenza, lui il Mostro, se la reputa una beffa del destino, una condanna o una grazia. Vogliono proibirgli il centenario. Ma come, ancora vivo, che provocatore, che strafottenza biologica, che arroganza anagrafica, si vergogni. Vietato festeggiarlo, venite tutti a vituperarlo.
E invece tenetevelo caro, Priebke, perché morto lui, per le Fosse Ardeatine e per il Male Assoluto non resterà che prendersela con Pippo Baudo.


SCRITTE ANTI-ITALIANE SU CASAGGì: IL CALDO MIETE VITTIME...



Firenze è una città calda. Ogni estate si raggiungono temperature da record, con tassi di umidità sopra la media e afa da vendere. Tutto questo, unito allo smog e alla scarsa presenza di luoghi di svago, può produrre effetti collaterali di una certa gravità. Le menti deboli, quelle che già durante l'inverno manifestano segni di probabile disagio, rimangono vittime di una terribile ricaduta, spesso accompagnata da evidenti segni di instabilità. 

E' quanto deve essere accaduto all'autore di questa scritta, comparsa nella notte sul muro antistante Casaggì e accompagnata da un volantino inneggiante all'antifascismo e firmato Anonymous, una sorta di fenomeno informatico che fa dell'anonimato - appunto - un vanto. 
Tralasciando le connotazioni politiche, semmai ce ne fossero, va precisato che il volantino era scritto in italiano, come del resto la scritta. Italiano sarà certamente stato anche l'autore, il che la dice lunga sullo stato di salute dell'antifascismo fiorentino, costretto addirittura alle battaglie etniche contro se stesso. 

Che inizino a dare l'esempio: si appendano per primi. Noi li seguiremo più tardi, a tempo debito...

lunedì 29 luglio 2013

11 AGOSTO: CASAGGì AL SACRARIO DELLA RSI DI TRESPIANO!



Come ogni anno, l'11 di agosto, porteremo un fiore sulla tomba dei caduti della Repubblica Sociale Italiana, al sacrario di Trespiano. Lo faremo nel giorno della "liberazione" di Firenze, per rendere simbolicamente omaggio a chi, fino all'ultimo respiro, ebbe il coraggio di opporsi all'invasione anglo-americana. Lo faremo in silenzio, senza simboli politici, perchè riteniamo quel sacrificio, dimenticato e oltraggiato da decenni di menzogne e di calunnie, appartenga alla storia di tutto il nostro Popolo. 

E, come ogni anno, riportiamo in calce il brano di Malaparte, tratto da "La Pelle", nel quale si racconta della fucilazione di alcuni ragazzi sul sagrato della chiesa di Santa Maria Novella. Un episodio taciuto dalle cronache storiche, ma assolutamente vero e non privo di spunti di riflessione...

Domenica 11 agosto l'appuntamento è alle ore 11 al cimitero di Trespiano. Esserci, nonostante la stagione, sarà un atto di memoria, di condivisione e di identità. 

DA "LA PELLE" DI CURZIO MALAPARTE:

I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista “Potente", armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo.

I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino.

C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine.

Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle dell’ufficiale partigiano seduto davanti al tavolino di ferro.

Al cigolio dei freni delle due jeep, l’ufficiale non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse:
- Tocca a te. Come ti chiami?
- Oggi tocca a me - disse il ragazzo alzandosi - ma un giorno o l'altro toccherà a lei.
- Come ti chiami ?
- Mi chiamo come mi pare... - O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui.
- Gli rispondo per insegnargli l'educazione, a quel coso - rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore. Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso l'ufficiale partigiano. 

A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo.
Parlavano con l'accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.

L’ufficiale partigiano alzò la testa e disse:
- Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te.
- Se gli è per non farle perdere tempo - disse il ragazzo con voce di scherno - mi sbrigo subito - E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
- Bada di non sporcarti le scarpe ! - gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere.
- Jack e io saltammo giù dalla jeep.
- Stop! - urlò Jack.

Ma in quell’istante il ragazzo gridò: - Viva Mussolini ! - e cadde crivellato di colpi .

Un Paese in preda a marasma senile

di Massimo Fini

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all'estero. Un estero molto vicino: la Corsica (anche se la definisco «il luogo più vicino più lontano dall'Occidente» perchè, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario 'recul' (che è la distanza giusta per osservare un quadro, perchè se sei troppo vicino non ne capisci l'insieme, se troppo lontano, non lo vedi) l'Italia offre di sè uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. Non si tratta di questo. E' che l'Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati.

E' saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all'insaputa l'uno dell'altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo perchè sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni del Kazakistan, un Paese che un tempo facevamo fatica a trovare sulle carte geografiche. Di fronte all'impudenza dei kazaki che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l'intervento kazako è stato «intrusivo». Abbiamo perso ogni credibilità internazionale e non solo per le gaffe di Berlusconi e il suo modo molto personale e privato di fare politica estera («l'amico Putin», «l'amico Erdogan» e «l'amico Muhammar»). Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, quando era Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l'estradizione, l'ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro.

Un delinquente comune, anzi 'naturale' come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di 'delinquente abituale', vuol dire che ce l'ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perchè crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perchè, direi fisicamente, non puo' cadere.

Una potente 'family', palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c'entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a innocuizzarli in modo definitivo è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c'è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio, un pus purulento che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c'è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perchè mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità.

Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali.

Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese si trova nel suo.


domenica 28 luglio 2013

Il caso. Quando per i britannici il fascismo non era né di destra né braccio armato del capitale

di Luca Gallesi

Quando si parla di fascismo inglese, generalmente si pensa a qualche isolato ed eccentrico gentleman come Sir Oswald Mosley, oppure ci si immagina una banda di rozzi hooligans, più propensi ad alzare il gomito e le mani piuttosto che a leggere e a pensare. Ebbene, nulla è più lontano dal vero, come dimostra uno storico inglese, Tom Villis, già apprezzato autore di studi sul «protofascismo» britannico come Reaction and the Avant-Garde (Tauris Academic Studies, 2006), che ha appena licenziato per i tipi di Palgrave-MacMillan British Catholics and Fascism (pagg. 280, £ 60), un documentato saggio che fa piazza pulita di stereotipati luoghi comuni, riaprendo la discussione sull’essenza del Fascismo, che sembra ben lungi dall’essere chiusa. Villis non affronta il fascismo inglese nel suo complesso, ma approfondisce i rapporti tra Fascismo e Cattolicesimo, che ebbero più di un punto in comune, a partire dall’importanza dell’idea di Roma, mito fondante fascista e sede del Vaticano, per finire sullo stesso fronte anticomunista nella Guerra civile di Spagna.
Discriminata, quando non perseguitata, fino al 1829, anno di approvazione dell’Emancipation Act, quella cattolica nel Regno Unito è una minoranza perennemente all’opposizione e costantemente critica verso le ingiustizie palesi del capitalismo finanziario. La dottrina della Chiesa cattolica, soprattutto con le encicliche Rerum Novarum e Quadragesimo Anno aveva analizzato la crisi del liberalismo, con una diagnosi non molto lontana da quella del fascismo italiano, come cercano di dimostrare i due intellettuali cattolici più rappresentativi: G.K. Chesterton e Hilaire Belloc, che ebbero entrambi incontri personali con Mussolini, verso cui non risparmiarono elogi, arrivando ad appoggiare e difendere la conquista italiana dell’Abissinia.
Sempre a proposito di intellettuali, Villis fa notare che furono molte altre le brillanti penne a subire il fascino della tentazione fascista, a cominciare dallo studioso A.J.Penty, che vide nell’Impresa di Fiume il primo tentativo di mettere in pratica la Rerum Novarum, passando per lo storico Christopher Dawson, definito da T.S.Eliot nel 1930 «l’intellettuale più influente d’Inghilterra», che vide nel Fascismo un’ordine spirituale superiore e uno «spiritualismo dinamico», per finire con James Strachey Barnes, prototipo dell’eroe dannunziano, che dopo aver frequentato l’intellighenzia britannica, da Bertrand Russell a J.M.Keynes, e da Henry James a T.E.Lawrence, abbracciò così entusiasticamente il Fascismo da essere nominato da Mussolini direttore del Centre International d’Etudes sur le Fascisme di Losanna, mentre la sua autobiografia ebbe l’onore di una prefazione del Duce.
Per quello che riguarda l’essenza del fascismo, invece, stupisce come in Inghilterra, almeno negli ambienti colti e minoritari presi in considerazione, la rivoluzione italiana non è minimamente considerata di destra né, tantomeno, il braccio armato del capitalismo. Riviste come Order e The Colosseum, diretta da Bernard Wall, aprirono le loro pagine al dibattito sul Fascismo come fenomeno originale a respiro europeo, ospitando interventi di Giovanni Papini e Robert Brasillach.
Quello che colpisce, nel libro, è la varietà delle simpatie britanniche verso il Fascismo, che qui sono considerate soltanto da parte degli intellettuali cattolici, escludendo quindi la maggioranza protestante degli inglesi, che a sua volta non fu affatto immune dalla tentazione fascista o addirittura nazista, come, ad esempio, accadde al celebre P.G.Wodehouse. Le soprese toccano anche il campo della morale. Villis ci ricorda che, tra le adesioni entusiastiche di inglesi al fascismo, ci furono anche quelle di sorprendenti figure di lesbiche dichiarate, come l’importante scrittrice Radclyffe Hall, meglio nota come John, e la sua amante Una Troubridge, che negli anni Trenta si trasferirono in Italia per meglio manifestare la loro purissima fede fascista.

sabato 27 luglio 2013

Il capitale francese divora l’imprenditoria italiana



di Kirios Di Sante (L'Intellettuale Dissidente)

Con l’arrivo dell’estate chi può permetterselo è più incline a compiere quelle spese folli che vuoi l’inverno, vuoi il buon senso, si è soliti accantonare. Le società di calcio più facoltose acquistano talentuosi gioielli, il turista in vacanza si avventura verso panieri di beni a lui prima ignoti. E le società di capitali francesi si avventurano nel nostro paese, attratti più che dal sole, dall’imprenditoria manifatturiera italiana da sempre sinonimo di eccellenza.

E’ quello che è accaduto con il colosso francese Lmvh che ha acquistato l’80% del gruppo “Loro Piana”, marchio celebre nell’industria tessile per la lavorazione del cachemire.L’operazione ha avuto un costo di 2 mld di euro, e attraverso una speciale clausola detta “opzione put”, la percentuale del gruppo detenuta dai francesi potrà salire al 100% nei prossimi 3 anni.

La famiglia Loro Piana cerca di acquietare le voci cariche di critiche per aver ceduto uno dei marchi più appetibili sul mercato ai cugini d’oltralpe. I due fratelli che a capo della direzione asseriscono che non si è trattata di una svendita, ma di un’opportunità per sviluppare al massimo le altissime potenzialità del marchio, in un mercato dove le dimensioni aziendali contano e come.

Sta di fatto che il capitale che consentirà lo sviluppo sarà francese, e non italiano. E c’è chi grida alla lentezza della burocrazia in materia di acquisizione di gruppi aziendali, e ai soliti punti deboli del fare impresa nel nostro paese.Resta il fatto che quello del marchio Lore Piana non è l’unico acquisto fatto dal colosso francese Lvmh; nel 2011 infatti ha acquisito la maggioranza del celebre marchio “Bulgari”,nel 2000 il marchio dello stilista “Enrico Pucci”, il gruppo“Fendi”, “Acqua di Parma” e perfino la pasticceria milanese “Cova”. E c’è anche chi parla che il gruppo francese ambisca a portare nella sua scuderia anche il marchio “Armani”.

C’è qualcuno insomma che è più che disposto a scommettere sulle nostre attività produttive, sulle nostre conoscenze tecniche invidiate da tutto il mondo, sulla nostra capacità di produrre eccellenza da immettere nel mercato. C’è qualcuno disposto a investire enormi capitali, conscio che la qualità è qualcosa di fruttifero nel lungo periodo. Ma quel qualcuno non siamo noi.

venerdì 26 luglio 2013

La Farnesina colleziona gaffe. Manchiamo di sovranità nazionale...



Marco Petrelli intervista Pietrangelo Buttafuoco...

Ciò che emerge dall'intervista è un'immagine piuttosto confusa del nostro Paese nell'ambito delle relazioni internazionali. L'Italia, secondo il giornalista catanese, mancherebbe di autonomia decisionale e di autorevolezza nei confronti degli interlocutori alleati o no.

Che idea si è fatto del caso Ablyazov?
Sospetto che la questione sia solo un regolamento di conti. Dal Kazakhistan deriva il nucleo centrale del gasdotto russo. L'Italia, con Berlusconi, scelse questa opzione. Fu conveniente perché dimezzò i costi ma agli alleati americani non è andata giù. Hanno perso molti soldi nel mancato affare.

Alfano dovrebbe dimettersi secondo lei?
E dunque anche Bonino? E poi i vertici delle amministrazioni? Vedrà che finirà con una relazione esauriente e chiara in un punto: farla pagare ai sottoposti.

E' forse mancato un coordinamento tra Viminale e Farnesina?
Non ho idea. Non voglio neppure farmela.

Cosa ne pensa di Emma Bonino agli Esteri?
E' un ottimo ufficiale di collegamento tra la colonia Italia e il Pentagono

Che impressione si è fatto della politica estera italiana?
La Farnesina ha collezionato tutta una serie di gaffe. Ancora prima dei marò c'è la vicenda di Mario Vattani, il diplomatico richiamato da Osaka perché colpevole di lesa canzone quando il governo del Giappone dimostra considerazione e stima per lo stesso, uno dei pochi in grado di conoscere a fondo Tokio e tutte le complessità del mercato nipponico. Dalla vicenda dei due marò a oggi si aggiunge, passando per la tragicomica vicenda del presidente della Bolivia cui l'Italia, l'effetto di un cancro conclamato. Quello di non avere sovranità politica.

Perché?
L'Italia è un'espressione geografica. Tutto qua.

Turchia ed Egitto: secondo lei le rivolte dei due paesi sono simili quanto a contesto e modalità?
No. In Turchia c'è una vivacità di ambiente cosmopolita che l'Egitto non ha. Quest'ultimo è più facile preda delle influenze straniere, sia nel versante dei buoni, sia in quello dei cattivi.

Come dovrebbe comportarsi l'Italia nelle sue relazioni con Ankara e Il Cairo?
Come uno stato sovrano la cui politica estera è dettata dagli interessi nazionali.

giovedì 25 luglio 2013

L’Italia della miseria: meno sanità per tutti



di Ernesto Ferrante (Rinascita)

Sappiamo già di turbare la serenità chi dedica le sue giornate al ruttino dell’infante albionico o all’aggiornamento del campionario delle pruriginose capriole dialettiche e non solo di Sara Tommasi, ma ce ne faremo una ragione. Lasciamo a costoro il “piacere” di continuare a ballare mentre il Titanic Italia affonda e ci teniamo con orgoglio il “dispiacere” che ci sta costando carissimo (le tagliole posizionate lungo la strada di questo giornale lo dimostrano ampiamente...) di raccontare senza peli sulla lingua e fette di prosciutto davanti agli occhi, le nefandezze collezionate in serie dal politicume imperante. E’ stato presentato nei giorni scorsi il rapporto annuale di “Cittadinanzattiva” intitolato “Meno sanità per tutti”, di cui consigliamo vivamente la lettura a chi ancora continua a gozzovigliare nel mondo dei sogni. La presunta insostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, platealmente sbandierata da Mortimer Monti, usata come alibi per tagliare, smembrare e sventrare è in realtà una precisa scelta ideologica compiuta per trasformare la salute in merce da affidare ai privati e trarre dall’erogazione dei servizi il massimo profitto. La spesa sanitaria italiana rimane, infatti, ben al di sotto della media europea e quasi nulla si continua ad investire nella prevenzione. Come ha fatto notare l’Unione Sindacale di Base, il nostro Sistema Sanitario nazionale, nonostante tutte le legnate ricevute, produce oltre l’11% di PIL assorbendone solo il 7,1%! I dati che affiorano dal Rapporto annuale di Cittadinanzattiva sono agghiaccianti. Per la prima volta in 16 anni emerge chiaramente che il principale problema degli italiani risiede nell’impossibilità di accedere alle prestazioni sanitarie del servizio pubblico, proprio come avviene per i cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo, e le cause risiedono, fondamentalmente, nell’insostenibilità del costo di ticket e intramoenia e nella ipertrofia delle liste d’attesa. Al secondo problema, fino a qualche tempo fa, si poteva ovviare rivolgendosi ai privati, con relativi esborsi ma, adesso che i soldi scarseggiano, o si aspetta per forza, con gravi rischi per la salute o si rinuncia delle cure. Le più penalizzate sono le regioni del centro sud, a causa dei disastrosi effetti di quel federalismo che ha costretto alcuni territori a tornare al livello del secondo dopoguerra, e le donne. Ai 9 milioni di italiani, da noi spesso citati, che dall’inizio della crisi hanno rinunciato a curarsi per problemi economici sono inevitabilmente destinati ad aggiungersi migliaia di nuovi poveri, assoluti e relativi, fotografati dall’Istat. Una povertà in ascesa che, fanno notare i sindacalisti di base, “colpisce non più solo i ceti popolari, i redditi da pensione, il lavoro privato ma arriva fin dentro il lavoro pubblico garantito”. Il boom di richieste di prestiti personali finalizzati alle spese mediche (odontoiatriche in primis) è l’esempio dell’ulteriore superamento dell’asticella tra civiltà e barbarie. Lo sfascio odierno, si legge ancora sul portale dell’Usb, è figlio di anni “di definanziamento del sistema sanitario pubblico (meno 30 miliardi tra il 2013/2015 con effetti retroattivi), del taglio dei posti letto (45.000 dal 2010), della politica di privatizzazione ed esternalizzazione dei servizi e del blocco quasi totale del turn over”. Uno scempio pagato direttamente dai cittadini e un’assistenza sanitaria accollata alle famiglie da uno Stato sempre più aziendalizzato. Svantaggi per l’utenza e numerosi vantaggi per chi ha le mani in pasta. La Sanità continua ad essere, infatti, una gallina dalle uova d’oro non solo per banche, assicurazioni e fondi di investimento ma anche per i signori del mattone e le imprese fornitrici. E non va trascurato lo sfruttamento per fini elettorali del settore in virtù della sua spessa ragnatela di contatti e clientele.

mercoledì 24 luglio 2013

“Manif pour tous” arriva in Italia: “No al bavaglio per chi difende la famiglia”...

di Barbadillo.it 


Una pagina facebook appena nata a presa d’assalto in poche ore, una uscita pubblica in programma per giovedì a Roma sullo stile dei Veilleurs e la prima maglietta ufficiale. “Manif pour tous” sbarca in Italia. Non (solo) in segno di solidarietà alla “primavera francese” che si sta consumando oltralpe contro la legge Taubira e che sta risvegliando la volontà di partecipazione di gran parte dei giovani francesi che occupano da mesi le piazze contro le politiche antisociali del governo Hollande. Ma proprio perché anche in Italia, come denunciano i promotori, sarebbe in atto un tentativo analogo non solo di liberalizzazione del matrimonio per le coppie omosessuali ma anche l’eventualità di un vero e proprio reato d’opinione dietro le norme sul contrasto all’omofobia.

Come spiegano i fondatori del sodalizio italiano nel comunicato, «il 18 giugno 2013 è stato avviato l’iter legislativo al Senato della Repubblica sulla proposta di legge per l’accesso al matrimonio da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso (chiamata “Matrimonio egualitario”). Inoltre, nel cassetto c’è anche quella della Modificazione dell’attribuzione di sesso». Il punto delicato, assieme a questo, riguarda proprio «la discussione della legge in “Contrasto all’omofobia e alla transfobia” proposta dal deputato Ivan Scalfarotto (Pd) come integrazione della Legge Mancino Reale» che istituisce «tra i reati che persegue, il crimine legato alla discriminazione di genere, punendolo con il carcere. È quindi una vera e propria legge bavaglio».

Bavaglio per un motivo in particolare: «Se pubblicamente si dichiara che il matrimonio tra persone dello stesso sesso non sia paragonabile a quello tra uomo e donna (sulla proposta di legge giocano sul concetto di “idee fondate sulla superiorità”)», potrebbe accadere che questa affermazione potrebbe «essere benissimo letta come una discriminazione, se non addirittura un incitamento alla violenza, verso le persone omosessuali, cosa che può portare al carcere fino a quattro anni». Un po’ come già accade in Francia, dove episodi di censura (e anche di violenza) delle forze dell’ordine contro manifestanti pacifici di Manif pour tous hanno richiamato l’attenzione delle stesse istituzioni europee.

Secondo l’associazione «è chiaro che questa prima proposta è un cavallo di troia per far passare senza troppa fatica le altre due proposte di legge, compresa l’adozione da parte delle persone dello stesso sesso. Nella proposta di legge sul “Matrimonio egualitario” c’è l’esplicita volontà di sostituire le parole “marito e moglie” con la parola “coniugi”. Insomma, una vera decostruzione di ciò che da sempre ed in tutte le culture è stato considerato il cardine della società umana, la famiglia fondata tra un uomo ed una donna». Per protestare contro tutto questo si sono dati appuntamenti giovedì a Montecitorio dove, a partire dalle 19, «verrà distribuita a tutti i partecipanti una candela da utilizzare durante la veglia, come richiamo a non spegnere la propria coscienza». Inoltre i promotori consigliano «di portare anche un bavaglio, a ricordare che la libertà di pensiero e di parola può sempre essere a rischio».

L’obiettivo di Manif pour tous, insomma, è quello di far nascere anche in Italia un fronte laico, trasversale e apartitico – proprio come il fortunato modello francese al quale partecipano anche tanti esponenti stessi della comunità omosessuale – a difesa non solo del concetto di famiglia ma anche dell’impianto sociale che da questa proviene.

martedì 23 luglio 2013

Pasolini tra eresia e genialità...



di Mario M. Merlino (ereticamente.net)


Nel 2010, per la casa editrice Vallecchi, esce il libro dal titolo Una lunga incomprensione con sotto titolo Pasolini fra Destra e Sinistra. Gli autori sono il giornalista Adalberto Baldoni e Gianni Borgna, che fu assessore alla cultura del comune di Roma sotto la giunta Veltroni. La presentazione ufficiale, si alternano al microfono il sindaco Alemanno e Walter Veltroni, si svolge nella prestigiosa sala con i quadri di Pietro da Cortona in piazza del Campidoglio. Fra gli autorevoli invitati – per l’occasione mi sono messo la giacca, ma non la cravatta – il sottoscritto. Al termine gli autori mi autografano la copia, mentre Walter Veltroni mi guarda con occhio cupo e malevolo quando Adalberto mi cita nel suo intervento.

Nell’indice dei nomi compaio ripetutamente – e ne darò spiegazione in questo mio intervento. Più volte Baldoni mi aveva telefonato e, mi sembra, sia anche venuto una volta a casa. Ci conosciamo dall’ottobre del 1960, da quando cioè andai ad iscrivermi a La Giovane Italia in via Quattro Fontane e lui ne era il responsabile provinciale. Poi, certo, le strade si sono divise e, in alcuni casi (al congresso di Pescara 1965, ad esempio), sono entrate in conflitto fra loro, ma mai venendo meno però la reciproca stima. Anzi, di più, negli anni successivi alla mia scarcerazione, mentre molti evitavano perfino il saluto o per viltà congenita o per reiterate e in malafede accuse, fu sempre cortese e mi inviò un affettuoso e spontaneo biglietto alla morte di mio padre. E queste sono cose che si ‘devono’ ricordare…

L’incomprensione verso Pasolini è nota: verso la sua omosessualità, quella che lo porterà alla morte (al di là di suggestive interpretazioni su possibili moventi per un omicidio programmato), a cui va – mi sembra – in folle e disperata ricerca, dove la destra si fa interprete, e prona, dei pregiudizi di una borghesia ammantata dal trinomio ‘dio patria e famiglia’ che, con l’americanismo, ne conserva le parole svuotate ormai d’ogni contenuto; la sinistra, bigotta ideologicamente prigioniera di un marxismo dispregiatore del Lumpenproletariat ( quei ‘ragazzi di vita’ delle borgate che Pasolini eleva a mito altro al mondo operaio bramoso di consumismo e libero nel gergo dalla lingua dominante quale prodotto borghese) e in concorrenza con la chiesa da cui media però la medesima mentalità ‘perbenista’.

D’altronde, quando inizia la collaborazione su Il Corriere della Sera con gli Scritti corsari manifesterà tutta la sua eresia e con intuizioni, poetiche astratte forse, ma voce di una genialità tanto che, secondo gli epigoni della beat generation USA, può essere considerato fra i massimi poeti del ‘900. E ne aveva già dato molteplici segnali fra cui quella in cui s’era scagliato contro gli studenti a Valle Giulia, 1 marzo del ’68, accusati d’essere figli della borghesia, di razza prepotente e cattiva (Adriano Romualdi, su altro fronte, ci definirà i pulcini partoriti dall’uovo marcio della borghesia). Io rimango convinto che avessero entrambi torto, ma questa è altra storia…

E’ il 7 gennaio 1973 ed egli inaugura la nuova rubrica sul Corriere con un articolo dal titolo Contro i capelli lunghi, che si concludeva:
‘Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino…’ Bontà sua! E mia, mi permetto d’aggiungere, che non conosco rimpianti e rancori…

Nel libro raccontavo ad Adalberto – e lui fedelmente, com’è nel suo DNA, ne riportava il contenuto – di quando s’era deciso di contestarlo, primi anni ’60, nei pressi della Casa dello studente, dove era stato invitato a tenere una conferenza, tirandogli contro un secchio di merda. E di come ci avesse inseguito mentre, rimasti in due o tre, ci si andava a ficcare a San Lorenzo, quartiere precluso ad ogni nostra presenza. In quella occasione, di sicuro consapevole della valenza politica del nostro gesto, egli non ci gridò alle spalle ‘Al fascista!’ ma un reiterato ‘Al ladro! Al ladro!’ che ci salvò da un assicurato linciaggio. Era l’ombra del fratello Guido, ‘morto giovanetto’, a spingerlo, non lo saprò mai. Di quel fratello, assassinato nella malga di Porzùs dai comunisti al servizio degli slavi del IX Korpus, il 7 febbraio del 1945, in quanto partigiano della Divisione Osoppo contraria all’espansione dei titini oltre la linea del Tagliamento.

Qui, però, voglio ricordare l’ultima sua poesia, scritta in friulano (1974) l’anno della sua morte, nella raccolta La nuova gioventù. S’intitola Saluto e augurio ed è rivolta ad ‘un fascista giovane,/ avrà ventuno, ventidue anni:/ è nato in un paese/ e è andato a scuola in una città’. E lo esorta: ‘Difendi i paletti di gelso o di ontano,/ in nome degli Dei, greci o cinesi./ muori d’amore per le vigne./ Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi./ Per il capo tosato dei tuoi compagni./ Difendi i campi tra il paese/ e la campagna, con le loro pannocchie/ abbandonate. Difendi ii prato/ tra l’ultima casa del paese e la roggia./ I casali assomigliano a Chiese:/ godi di questa idea, tienla nel cuore./ La confidenza col sole e con la pioggia,/ lo sai, è sapienza santa./ Difendi, conserva, prega!’. 

Non si tratta di proporre un Pasolini e di ciò che veramente ha amato. Si abbandoni lo stupido gioco di mettere agli uni la camicia rossa, ad altri la camicia nera. Lasciamo a ciascuno di noi ciò in cui abbiamo creduto, errori e ambiguità comprese. Penso a quella straordinaria intervista televisiva che egli realizzò ad Ezra Pound, offrendosi attento rispettoso discepolo, quasi come un figlio con il padre ritrovato. ‘Abbiamo una linfa e una radice in comune/ stabiliamo un patto fra noi’… Irrisolta e irrisolvibile risposta di quella notte quando mi urlò dietro quel ‘al ladro!’… mentre avrebbe atteso la vigilia della sua morte per aggiungere, rivolgendosi ad uno sconosciuto giovane fascista, ‘…dì/ di non essere borghese…’ e ancora: ‘Destra (e lo scrive con la maiuscola) divina/ che è dentro di noi…’.

lunedì 22 luglio 2013

TIBET LIBERO!



"Il Tibet, come paese misterioso e indipendente, era finito; ora veniva colonizzato, distrutto e rifatto alla cinese. Ma il mito sopravvisse. Anzi, divenne il simbolo della civiltà dello spirito martoriata dal materialismo comunista."


Fmi brûlé. Ricetta in salsa magiara




di Ugo Gaudenzi (Rinascita)


L’Ungheria di Viktor Orban non è affatto un’animale domestico.
Non soltanto ha rivendicato i suoi diritti nazionali di dotarsi di una Costituzione senza briglie a Bruxelles o altrove, non soltanto ha più volte sollevato un netto rifiuto ad assoggettarsi alle politiche di rigore imposte dalla Troika urbi et orbi, non soltanto ha reimposto una sorta di “nazionalizzazione” della propria Banca centrale... ma ora ha anche deciso sia di pagare al più presto, nove mesi prima della scadenza, il suo prestito usuraio contratto con il “mecenate” Fmi, e sia di annunciare la chiusura degli uffici di rappresentanza del Fondo Monetario insediati a Budapest.
Messa all’indice dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue) subito dopo l’assunzione del potere da parte del partito di Orban dichiarato “populista” nonché soggetto alle influenze “negative” della forte destra radicale degli Jobbik, l’Ungheria aveva già “risposto” alle critiche dei padroni-soloni facendo fronte al problema del debito (contratto con l’usura internazionale dal precedente governo), portando detto indebitamento al di sotto del 3% sul suo Pil già a fine 2011.
Con metodi subito ritenuti “non ortodossi” dalla grande finanza internazionale e dai suoi portaparola.
E cosa aveva mai deciso il governo Orban (sostenuto da una larghissima maggioranza parlamentare)?
Di abbattere il debito con una serie di misure temporanee, una tantum, capaci di aumentare ex abrupto le entrate. Quali? Naturalmente quelle più ostiche alle centrali finanziarie.
Le elenchiamo: 1) tassa sui profitti bancari; 2) nazionalizzazione dei “fondi pensione” e assicurativi; 3) imposte sulle multinazionali operanti in territorio magiaro.
E così, con una lettera inviata questo 15 luglio a Christine Lagarde, direttore generale del Fmi, György Matolcsy, il governatore della Banca Centrale ungherese, ha annunciato che Budapest sarà pronta ad estinguere anticipatamente il debito contratto nel 2008 (20 miliardi di euro) nel bel mezzo dell’inizio della crisi esportata in Europa dal Lord Protettore dell’Ue, gli Stati Uniti d’America. E questo grazie all’avvenuta graduale riassunzione della propria sovranità nazionale, monetaria, fiscale, finanziaria.
Interessante è ricordare che nel 2011, a febbraio, il governo Orban - dopo aver traccheggiato sulle pressanti richieste della Troika di rinegoziare il debito (con un ulteriore debito: il “metodo” usuraio principe al quale, per esempio, la nostra stessa Italia si è graziosamente assoggettata) - riusciva a piazzare senza alcuna intermediazione internazionale le proprie obbligazioni di Stato, dimostrando che quando si è sovrani e quindi affidabili i problemi si risolvono normalmente.
Ma torniamo a questa metà di luglio.
Nella sua lettera alla Lagarde, György Matolcsy, ha annunciato il pagamento anticipato delle prossime ultime tre rate trimestrali, per un totale di 2 miliardi e 125 milioni di euro, sottolineando - non si sa quanto ironicamente o sinceramente - che tale risultato è un effetto, sì, della buona crescita ungherese, ma anche “degli sforzi personali (della Lagarde) di promozione dello sviluppo economico”.
Non male, non male.
Peccato che l’esempio magiaro sia per l’Italia-colonia dei Letta e dei Saccomanni (e dei loro mentori, Prodi e Draghi) quanto di più siderale mai si possa pensare. Oggi. Domani è però un altro giorno.

Bruce Lee, a quarant'anni dalla morte...



di Guido Liberati


Il 20 luglio di quarant’anni fa veniva stroncato da un edema cerebrale Bruce Lee. L’eroe cinematografico vitalista e ribelle, divenne leggenda a 33 anni, fedele al motto che muore giovane chi è caro agli dei. Era nato a San Francisco nel 1940 durante una tournée negli Stati Uniti della compagnia della quale facevano parte i suoi genitori. Gran parte dell’adolescenza la trascorse fra Hong Kong e gli Stati Uniti dove studiò al Washington State College. 

Laureato in filosofia aveva insegnato le arti marziali della lotta ad attori e registi. Ai suoi funerali parteciparono venticinquemila persone: James Coburn e Steve McQueen che erano stati suoi allievi ne portarono la bara al cimitero di Seattle dove venne sepolto. Morì all’apice del successo in circostanze mai del tutto chiarite, dopo che era riuscito a girare a Hollywood, I tre dell’operazione Drago: sino ad allora aveva interpretato a Hong Kong i suoi pochi film diretti da Lo Wei, Il furore della Cina colpisce ancora,Dalla Cina con furore, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. Dopo la sua morte, altri film vennero messi insieme montando materiali televisivi. 

Se fu stroncato in vita dai critici cinematografici, gli stessi che oggi osannano i film di Quentin Tarantino, incarnò nei suoi personaggi l’archetipo dell’eroe che rifugge dalla violenza, ma che è costretto a percorrerla come unica strada. Per uno strano destino, suo figlio Brandon, interprete di un film sulla vita del padre, è morto tragicamente sul set di un film, anche lui giovanissimo.

Bruce Lee resta un’icona intramontabile dell’immaginario giovanile (ancora oggi seconda solo a Che Guevara nella “top list” delle magliette più vendute) attraversando ideologie e culture agli antipodi. Non a caso la prima statua gli è stata dedicata nella ex Jugoslavia, a Mostar, mentre proprio oggi ne è stata inaugurata una nuova a Los Angeles dove è stata scoperta una torreggiante statua dell’attore posta “a guardia” della Chinatown cinese che per l’occasione celebra i suoi 7 anni di autonomia amministrativa. 

Quella più famosa è a Hong Kong, dove oggi si tiene una giornata celebrativa con decine di migliaia di partecipanti. Dalla Cina agli Stati Uniti: con amore più che con furore.

venerdì 19 luglio 2013

CASAGGì RICORDA PAOLO BORSELLINO...



 
 
Come ogni anno, nell'anniversario della strage di via d'Amelio, Casaggì ricorda Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Per un'Italia senza mafia, per un futuro degno della nostra storia.

giovedì 18 luglio 2013

SPEGNI LA TV,VIVI LE STRADE.



Le idee a destra restano ma vanno perseguite con altri mezzi...

Surrender_of_Japan
di Mario vattani per barbadillo.it

Dopo l’armistizio firmato a bordo della USS Missouri il 2 settembre del 1945, il comando delle forze di occupazione americane, che aveva fatto i conti con gli ultimi mesi di disperata difesa giapponese da isola a isola, da scoglio a scoglio, si accorse con meraviglia – e immaginiamo con un certo sollievo – che non era stata organizzata nessuna resistenza contro l’invasore, nessuna guerra a oltranza, nessuna “insurgency”.

Il Giappone aveva voltato pagina. La guerra era persa, e soprattutto era finita. Punto.

In Italia è stato molto diverso: la sconfitta completa della resistenza alle forze di occupazione, degli “insorgenti” più o meno organizzati, degli ex-combattenti ormai ultraottantenni e dei loro nipoti e pronipoti – compresi i pronipoti associati per simpatia se non per storia familiare – è avvenuta solo il 25 febbraio 2013.

Quel giorno si è compreso che l’elettorato, anche per motivi anagrafici, aveva definitivamente perso interesse per ogni rivendicazione storica. Non solo per ignoranza o disattenzione, semplicemente per la palese inutilità del dibattito. Soprattutto però, l’elettorato aveva perso interesse e fiducia in una comunità che umanamente o idealmente proveniva direttamente dalla guerra civile ’43-45. Una comunità più che un corpo politico, che lentamente si era andata assottigliando, e aveva progressivamente perso – oppure rinunciato a – riferimenti, simboli, idee, visione d’insieme. Voti.

Per carità, ci dicono sempre che le idee rimangono, ed è vero. Rimane certamente anche la rivendicazione storica, e quella lasciamola ai professionisti. Ma la forma-partito prevede la mobilitazione numerica, e quella, lo abbiamo visto, non c’è. La mobilitazione numerica ha bisogno di idee trainanti, e quelle che ci sono non trainano. A meno che qualcuno non creda seriamente che, con una storia politica e culturale come la nostra, si debba scendere nel fango e accapigliarsi su matrimonio omosessuale o altri temi cosiddetti etici. Certo si può fare. Potrei farlo anche io, ma prima dovrei ubriacarmi.

Intanto, in questo periodo di momentanea sospensione, mentre aleggia ancora il pulviscolo di un mondo esploso,vediamo in tutta Italia, in molti appuntamenti, quella comunità umana rincontrarsi, riparlarsi. Sono appuntamenti quasi furtivi. Non se ne legge notizia, ma è per assenza di interesse del pubblico. Incontri praticamente invisibili: senza stampa, per mancanza di numeri, di peso politico, di novità.

Già perché nessuna colonna motorizzata di occupanti si è mai fermata per un gruppo di reduci, stanchi e non più giovanissimi, riuniti in un vecchio salone a discutere di come sono andate le cose. Naturalmente parlo a titolo personale, ma di fronte a questo palcoscenico, un’alternativa c’è.

Arrendersi. Dichiarare la resa. Aspettare il proprio turno, in silenzio, sul ponte della USS Missouri. Perché c’è qualcosa di purificatorio nella resa. Arrendersi significa ammettere una sconfitta pratica, tecnica, numerica. E basta.

Attenzione: la resa non implica la rinuncia alle proprie idee. Anzi, forse in quel modo le idee diventano addirittura più pure, sublimi. Forse la resa è l’unico modo per proteggere il nucleo duro della propria identità. Perché chi si arrende non rinuncia alla sua anima, e nemmeno ai propri sogni. La regola è semplice: l’importante è arrendersi solo quando si è perso veramente. Che non si pensi mai che si poteva ancora resistere.

Poche immagini teatrali sono deprimenti quanto quella del vecchio soldato stremato, che cerca lo scontro con un nemico che lo ignora. L’idea della resistenza a oltranza la conosciamo. Ma conosciamo anche la parola composta che unisce il tragico al comico. Molti italiani sembrano apprezzare quella parola e quell’immagine, e la trovano addirittura commovente. Per me invece è uno dei lati dell’Italia che non riconosco e non apprezzo, nello stesso modo in cui non credo di aver mai pronunciato l’esclamazione “mammamia” o detto “buono buono” col dito infilato nella guancia.

Le idee rimangono, sono splendide, e vanno portate avanti con altri mezzi, nella cultura, nell’arte. E’ lì che le regole sono completamente diverse, è lì che le forze di occupazione del pensiero unico e del “politically correct” sono più deboli, dove i cingoli dell’omologazione scivolano perché trovano la vera, lucida, libertà. E’ lì che le commissioni di epurazione inciampano da sole nel loro stesso vocabolario. E’ lì che si sposta il conflitto. Lì c’è ancora un arsenale. Lì si riparte da capo.

“Ci rivediamo alla prossima”.

martedì 16 luglio 2013

Rifiutare il Debito è possibile. Islanda chiama Italia.


di Daniel Tarozzi (ilcambiamento.it)

Dall’8 luglio è possibile acquistare “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, inchiesta di Andrea Degl’Innocenti sulla rivoluzione islandese, primo libro in italiano sull’argomento, edito da Ludica S.n.c.Andrea Degl'Innocenti è andato in Islanda per indagare in modo approfondito il 'caso islandese'...
Il Cambiamento è nato quasi tre anni fa. Da allora ha cercato di portare avanti un'informazione davvero indipendente e fuori dalle logiche che guidano i mass media. Per farlo si è poggiato sulla collaborazione di decine di giornalisti giovani e preparati che hanno ricambiato la fiducia riposta in loro in modo egregio. Tra questi spicca Andrea Degl'Innocenti che da subito ha saputo volgere il suo occhio attento verso le vene pulsanti del nostro Paese, del nostro mondo, indagando e mostrando ciò che troppo spesso veniva nascosto.Tra le sue tante indagini, la più "famosa" è stata quella sul caso islandese: un Paese che ha "rifiutato" di pagare il debito, innescando un processo democratico senza precedenti, in cui il popolo ha saputo davvero scegliere una parte importante del proprio futuro, scavalcando poteri politici e finanziari.I suoi articoli sul tema sono stati letti da decine di migliaia di persone. Andrea ha quindi deciso di andare (a sue spese) in Islanda per indagare in modo più approfondito la questione ed ha preparato un testo che da ieri è disponibile in versione elettronico (pdf e epub). Sto parlando del suo “Islanda chiama Italia – Storia del paese che rifiutò il debito”, edito da Ludica.Il libro comprende una prefazione di Loretta Napoleoni economista di fama internazionale, e si avvale dei contributi di Serge Latouche, teorico della decrescita, Pierluigi Paoletti , fondatore di Arcipelago SCEC, Marco Bersani, del Forum dei movimenti per l’acqua. Andrea ci racconta l’ascesa e la caduta del sogno islandese , dalla nascita della società neoliberale fino alle vicende più recenti, che hanno visto gli abitanti dell’isola ribellarsi contro i propri governanti corrotti, contro i banchieri senza scrupoli responsabili del collasso del paese, contro l’intera comunità internazionale che pretendeva il pagamento di un debito ingiusto, contratto da banche private.Infine, Andrea trae spunto dalle vicende islandesi per offrire una panoramica di alcune delle realtà più significative che anche in Italia si adoperano per cambiare la società. Ne emerge un mosaico della “società del cambiamento”, in cui le realtà in lotta sono tasselli ideali di un grande movimento. Un’opera di riappropriazione collettiva del diritto di decidere sul modo e sul mondo in cui vogliamo vivere.

lunedì 15 luglio 2013

Islanda senza Big Mac: chiudono i negozi McDonald's.




Quattro euro e 25 centesimi per un BigMac? Troppo caro, meglio chiudere che alzare i prezzi. McDonald's sparisce così dall'Islanda,dove la crisi economica ha fatto raddoppiare i costi in un anno.Lunedì i tre ristoranti fast-food dell'isola, gestiti in franchising dalla Lyst, non alzeranno quindi le saracinesche, e saranno al più presto riconvertiti per servire piatti locali. «I nostri concorrenti usano tutti carne e lattuga islandese - ha spiegato Magnus Ogmundsson, amministratore delegato della Lyst - mentre noi dobbiamo portar qui tutto in volo, dalla Germania». Il crollo della corona, che è scivolata dell'80% sull'euro nel 2008 scorso e dell'8,1% quest'anno - malgrado i controlli sui capitali - ha eroso dunque tutti i margini. «Per recuperarlo avremmo dovuto aumentare i nostri prezzi del 20%», ha aggiunto Magnus. Il BigMac di Reykjavik è già oggi tra i più cari al mondo: 3,50 euro, come in Italia, un po' meno dei 3,80 euro di Svizzera e Norvegia (e gli 1,10 euro del Sud Africa). Portarlo a 4,25 euro, nel pieno di una crisi molto acuta, sarebbe stato impensabile. Gli islandesi dovranno ora fare a meno della "M" gialla su campo rosso. Bloomberg ha sentito alcuni di loro: «Sono contento», ha detto Pall Vilhjalmsson, che ha descritto McDonald's come «un simbolo del colonialismo americano» che ha «terrorizzato la cultura alimentare in tutto il mondo»;mentre a Hreinn Omar Smarason, la catena di fast-food mancherà molto. Riaprirà, un giorno? Magnus non ha lasciato spazio a equivoci: «È molto improbabile», ha ammesso.

domenica 14 luglio 2013

Famiglia e società



di Alain de Benoist - Fiorenza Licitra

Fino al X secolo non occorreva un sacerdote per sancire il patto tra gli sposi; la Chiesa, che ai legami di sangue favoriva la comunità di fede, non aveva ancora elaborato il predominio giuridico sulla famiglia. E’ giusto dire che nel tempo il matrimonio si è rivelato uno “strumento clericale” per fare adepti?

La Chiesa cattolica non si è mai disinteressata del matrimonio, ma di questo ne ha fatto un sacramento abbastanza tardi, nel XII° secolo. Controllare il matrimonio era per essa un modo di intervenire nelle alleanze tra le famiglie e le discendenze. Ma la Chiesa ha anche ereditato una diffidenza verso il corpo e il sesso, sconfinata, nei primi secoli della nostra epoca, agli eccessi delle sette encratiste. San Paolo vedeva nel matrimonio un ripiego, un «rimedio contro la lussuria»: sposatevi, diceva lui in sostanza, se non siete capaci di fare altrimenti, cioè di restare vergini. Ciò spiega, nonostante tutto quello che si possa dire in favore del matrimonio, il modo in cui la Chiesa ha sempre considerato la verginità uno stato perfetto. Non direi che il matrimonio è diventato oggi uno “strumento clericale” : la gente si sposa sempre meno e la pratica religiosa è in crisi. A differenza dell’Italia, in Francia vi è inoltre un fenomeno particolarmente accentuato: al momento attuale, un bambino su due nasce fuori dal matrimonio, proporzione che passa a due bambini su tre nelle grandi città.

Qual era l’atteggiamento originario della Chiesa rispetto all’aborto?

Nel Medioevo, la Chiesa si rifarà soprattutto all’insegnamento di San Tommaso D’Aquino, il quale a sua volta aveva adottato il pensiero di Aristotele rispetto al concepimento e alla gravidanza. Per Aristotele, il feto non era «animato», cioè realmente dotato di un’anima fin dalla fecondazione, ma solo dopo qualche settimana. La Chiesa, quindi, distingueva tra aborto precoce e aborto tardivo, sanzionato molto più severamente del primo. Quello che la Chiesa ha elaborato sull’anima, non è che la conseguenza di ciò che l’ha indotta a condannare senza sfumature tutte le forme d’aborto.

Nonostante la liberalizzazione dei costumi e la disfatta delle consuetudini, “la medesima origine sociale” resta ancora saldo collante per la coppia…

Tutti i sociologi sanno che le relazioni che legano due individui non si basano sull’azzardo. La probabilità di cercare e di trovare un partner nell’ambiente sociale al quale si appartiene è maggiore che trovarlo altrove, semplicemente perché non si frequentano altri ambienti. I club di incontri che si trovano su Internet favoriscono le relazioni sessuali tra gente di differente appartenenza, ma si tratta di relazioni difficilmente durevoli. Ben inteso, ci sono sempre le eccezioni. Quando degli individui di livelli sociali diversi decidono di formare una coppia, solitamente è l’uomo ad appartenere al ceto superiore: statisticamente, gli uomini danno meno importanza alla condizione sociale per la scelta della compagna, perché, prima di tutto, sono sensibili all’apparenza fisica. Al contrario, tutti i sondaggi rivelano che lo stato sociale per la donna conta molto, apparendole come una garanzia di sicurezza. Ma queste osservazioni devono ancora essere ricollocate in un contesto più esteso. Gli studi generali dei quali si dispone dimostrano che le coppie più “longeve” sono quelle che si somigliano maggiormente. E’ l’origine del proverbio: «Chi si assomiglia, si piglia».

Il Concilio Vaticano II alla procreazione farà prevalere l’unione tra uomo e donna, quindi il diritto alla felicità. Si può parlare di “processo di individualizzazione” perseguito dalla Chiesa stessa?

Nel Medioevo, la Chiesa ha favorito una certa individualizzazione dei comportamenti, nella misura in cui essa ha privilegiato la volontà di sposare gli individui, in opposizione alle loro rispettive famiglie (un tempo si chiamava “matrimonio segreto”). Essa ha così ha favorito un’evoluzione che, a lungo termine, ha portato al “matrimonio d’amore”, il quale oggi è la principale causa di divorzio: ci si sposa quando si ama, ci si lascia quando non si ama più. Nell’Antichità, il matrimonio era prima di tutto un’istituzione riguardante le famiglie. Ecco, la conseguenza del matrimonio ridotto a contratto tra individui. La Chiesa ha sempre considerato la procreazione come la finalità profonda del matrimonio, tuttavia sa bene che certe coppie non possono avere figli, sia per sterilità, sia a causa dell’età troppo avanzata dei coniugi.

La società (femminile) ha sostituito lo Stato (maschile). Quali sono, a suo avviso, le conseguenze?

Si assiste oggi a un’incontestabile femminilizzazione della società. Bisogna vedere il risultato di due fattori differenti. In primo luogo esiste un’evoluzione dei costumi, che tende a stabilire la parità tra uomo e donna in tutti i domini, restringendo seriamente le antiche prerogative degli uomini e dei padri in rapporto all’aumento delle rivendicazioni femministe e al relativo discredito dei valori “virili”. Inoltre, abbiamo un’evoluzione della stessa struttura sociale, in particolar modo rispetto alle forme economiche e lavorative. Oggi ci sono servizi di comunicazione e vario genere (l’aiuto alle persone, le “attività relazionali”, etc.), che hanno preso sempre più piede nella struttura economica, contrariamente a una volta in cui il centro di gravità si ritrovava piuttosto nella sfera industriale. Le qualità femminili si esplicano meglio nei servizi e nei mestieri della comunicazione, a differenza delle qualità maschili, dominanti nel mondo industriale. Le conseguenze di questa femminilizzazione, oltre a un infiacchimento legale e istituzionale, sono la promozione dei valori femminili, quali la sensibilità, la cooperazione e il “dialogo”, a detrimento dei valori maschili, come l’autorità. Questo non è un male in sé, a condizione che l’equilibrio tra uomo e donna non si rompa e che la complementarità tra valori maschili e femminili non sia persa di vista.

Accordare le nozze gay equivale a dire che un domani sarà consentito, a rigor di logica, anche l’adozione di un bambino…

Il matrimonio omosessuale – in Francia “matrimonio per tutti”, locuzione d’altronde molto abusiva (il matrimonio poligamo e il matrimonio incestuoso, per citarne un paio, per legge non sono mai stati autorizzati) – testimonia che il matrimonio ormai non è più percepito come un’istituzione, ma come semplice contratto tra individui. Innalzare essenzialmente “l’amore romantico”, e non più la strategia matrimoniale, significa unire due compagni individuali, anziché consacrare l’alleanza di due famiglie in seno a un più vasto sistema di parentela, che assegnava a ciascuno un certo numero di diritti e di obblighi. In tale ottica, per unirsi, nulla sembra costringere due individui a essere di sesso differente, visto che la nozione stessa di sesso (biologicamente) è adesso contestata dall’«ideologia del genere». Ma lei ha ragione, la stessa rivendicazione di uguaglianza, che ha portato al matrimonio omosessuale, si estenderà anche all’adozione da parte degli omosessuali; idem per il riconoscimento delle “madri in affitto” e per la procreazione assistita. Tali rivendicazioni d’altronde si esprimano già.

Relativizzare la famiglia comporta anche il relativizzarsi della responsabilità?

Nel principio, lei non ha torto, ma bisogna comprendere che ciò che si chiama “famiglia” è un concetto notevolmente trasformabile. La famiglia tradizionale è oggi divenuta un fattore marginale. Le relazioni delle coppie si sono evolute e le relazioni tra le generazioni sono mutate. Assistiamo al moltiplicarsi delle “famiglie ricomposte”, cioè di coppie di genitori che hanno già avuto dei figli da una precedente unione. Questo fenomeno in Francia tocca più di una famiglia su dieci. Si devono aggiungere, inoltre, i casi di coabitazione intermittente (o semi-separazioni) di coppie sposate, cosicché le famiglie monoparentali, più numerose in Italia, in Francia rappresentano attualmente più del 20% e riguardano tre milioni di bambini. Queste famiglie monoparentali, nella stragrande maggioranza, sono costituite da donne che vivono sole con i figli. La famiglia non è più il luogo naturale della responsabilità; d’altronde, l’autorità del capo famiglia oggi è caduta in un certo discredito. La responsabilità resta un valore, ma si esercita nei domini più vari. Piuttosto, sono l’individualismo e l’egoismo edonistico a rappresentare per essa la principale minaccia.

Cos’è che influenza più la trasformazione della famiglia, la società o la famiglia stessa?

Chi è nato prima, l’uovo o la gallina? Stesso approccio per la famiglia e la società: esse vanno di pari passo. L’evoluzione della famiglia riflette l’evoluzione della società, in continuo progresso, e l’evoluzione della società riflette quella della famiglia. Questa è la ragione per cui è abbastanza diffusa l’idea secondo la quale una “buona famiglia” può rappresentare una struttura resistente, un rifugio, un contrappeso. In rapporto a quello che c’è di più negativo o di più contestabile nella società attuale, mi sembra però che in parte sia un’illusione. Quando i bambini raggiungono una certa età, è estremamente difficile per i genitori opporsi all’influenza del mondo esterno. Ci sono le eccezioni, ma in generale la famiglia non costituisce che una linea di resistenza abbastanza minima.

Lei scrive che nelle civiltà indoeuropee la discendenza, l’autorità del capo di famiglia, il valore dei consanguinei non sono realtà biologiche, ma entità di ordine spirituale. Al contrario di oggi, che venendo a mancare tutto questo, la famiglia è inscritta in una temporalità non più verticale, ma orizzontale?

A questo riguardo, la famiglia non fa eccezione. L’intera società ha sovvertito la verticalità con l’orizzontalità. Nel dominio dei valori, il bene e il male non sono più i sinonimi dell’alto e del basso. Nella vita quotidiana, il «presentismo» consacra il crollo della dimensioni della profondità, costituente fino a poco tempo fa la chiara coscienza del modo in cui il passato si congiunge all’avvenire. Più generalmente ancora, tutto quello che è stato stabile, solido, duraturo tende a divenire transitorio, passeggero, effimero. Si potrebbe dire, utilizzando le categorie proposte dal sociologo Zygmunt Baumann, che il «liquido» ha rimpiazzato il «solido». La logica dei territori, che è una logica politica e tellurica, ha ceduto il posto a quella del flusso e del rifiuto, logica commerciale e marittima. Ciò che scompare è prima di tutto la nozione di durata. La vita familiare ne è direttamente affetta, giacché la durata media non cessa di abbassarsi. L’instabilità delle relazioni di coppia si è accentuata parallelamente alla “flessibilità” delle carriere professionali, come alla volubilità dei comportamenti elettorali e dei reclutamenti politici. Nello stesso momento in cui si entra nell’azienda per «fare carriera», non ci si sposa più «per la vita». Nelle relazioni sentimentali o sessuali, lo «zapping» prevale allo stesso modo che nei comportamenti elettorali o nei modi di fare dei consumatori contemporanei. Siamo di fronte a un movimento generale, peculiare del momento storico nel quale viviamo.

Come sarà possibile la posterità senza una memoria ancestrale?

In effetti, è bene domandarselo. Io sono di quelli che pensano che il presente non sia vivibile e, soprattutto, che non può essere dotato di senso se non alla condizione d’essere sostenuto dalla doppia coscienza del passato e dell’avvenire. La memoria va di pari passo con la capacità di sapersi progettare nel futuro. Chi vuole avere passato, si condanna a non avere futuro.

sabato 13 luglio 2013

Sputi sul portone di Casaggì: lama a piede libero nel borgo di Montepulciano!

Pare che da un pò di tempo a questa parte un lama si aggiri a piede libero per il nostro paese.Non se ne conosce lo zoo od il circo di provenienza,dato che nessuno ne ha denunciato la scomparsa,ma con estrema probabilità ha bisogno di cure urgenti.La povera bestiola,infatti, pare che soffra particolarmente gli scherzi del caldo che imperversa in questo periodo e sputi a destra e a manca,cercando di dare un senso alle proprie giornate.Ciò è probabilmente dovuto,oltre che al caldo,al lungo periodo vissuto in cattività che ne ha snaturato le abitudini.
Se avremo modo di trovarlo noi,saremo ben lieti di prestargli le dovute cure; in caso contrario la cittadinanza è invitata a comunicare il suo avvistamento alle autorità competenti.




P.S. probabilmente dal vivo è meno bello che in fotografia.

Cinema. In arrivo “Space Pirate” il nuovo film su Captain Harlock


di Michele Chicco (Barbadillo)


Tenetevi forte e allacciate le cinture: l’astronave di Capitan Harlock sta per approdare nei cinema di tutto il mondo. Issato il vessillo dei pirati sulla sua Arcadia, il protagonista del manga fantascientifico, ideato da Leiji Matsumoto nel 1976, ritorna a difendere l’ultimo brandello di umanità con le sue scorribande nelle galassie infinite. I primi a poter rivedere il Capitano all’opera saranno i fan del Giappone (dove il film d’animazione sarà distribuito dal 7 settembre), poi la pellicola prenderà il volo verso gli altri paesi ed arriverà in Italia entro l’inverno grazie alla Lucky Red.

“Space Pirate – Captain Harlock” – giurano i produttori della Toei – è fedele adattamento cinematografico del fumetto manga, diventato, sul finire degli anni ’70, fortunato cartone animato nonché icona ribelle dei giovani di destra. Il regista è Shinji Aramaki e la sceneggiatura è stata affidata a Harutoshi Fukui e Kiyoto Takeuchi: la squadra, composta da campioni dell’animazione giapponese, è garanzia di successo per un film che non potrà tradire le attese. Sono milioni, infatti, i fan che hanno aspettato a lungo il ritorno del Capitano per poter godere, ancora una volta, delle gesta del “pirata tutto nero”.


La nuova avventura del Capitano partirà, come sempre, “tanto tempo fa, nel lontano 2977”. Harlock, a bordo del suo incrociatore Arcadia, cercherà di riconquistare la Terra, controllata dalla corrotta Coalizione Gaia, dalla quale gli esseri umani sono stati cacciati secoli prima. Capitan Harlock e i membri del suo equipaggio rappresentano l’ultima speranza dell’umanità, ma portare a termine il lavoro non sarà facile perché i nemici di sempre – Ezra e Logan – hanno tutta l’intenzione di impedire il loro pacifico ritorno sulla Terra.

Negli anni, Capitan Harlock è stato il simbolo, per milioni di adolescenti, dell’eroe libero, capace di impegnarsi per difendere la sua causa, considerata la sola giusta: la benda sull’occhio e la lunga cicatrice sul volto sono le medaglie conquistate sul campo, durante la sua estenuante lotta contro chi avrebbe voluto imporre un nuovo ordine sociale. Il pirata delle galassie, insomma, ha raccolto in sé tutta la ribellione di quella generazione che, sul finire degli anni ’70, ha visto in lui il simbolo della lotta contro l’appiattimento sociale e culturale. La strada ribelle, tracciata dal suo mantello nero, ha segnato il futuro di molti ragazzi e chissà che, con l’approdo al cinema, gli antichi disegni di Leiji Matsumoto non possano, trent’anni dopo, risvegliare gli stessi – nobili – sentimenti.