venerdì 6 luglio 2012

Di fronte al baratro


Imagedi Daniela Salvini (giornaledelribelle)
Di fronte al baratro è giusto porsi la domanda “Che fare?”. C'è chi dice chenon possiamo far altro che sederci sulla sponda e guardare. C'è chi invece prova, anche solo ad immaginare, una via d'uscita.

Alain De Benoist è tra questi. Immagina un diverso paradigma perché, prima o dopo la catastrofe, occorre qualcuno che sappia cosa volere e da che parte andare. A questo proposito ci sono già posizioni diverse. Una prima posizione (via riformista) è quella di chi ritiene che i problemi posti dal capitalismo finanziario saranno avviati a soluzione quando emergerà un nuovo antagonista in grado di abbassargli la cresta. Si tratta di costringere il capitalismo ad un nuovo compromesso. Si tratta in realtà di un orizzonte neoriformista e la rabbia degli iindignados sembra non oltrepassarlo. Una seconda posizione (via altermondialista) è quella di chi vede nelle odierne tendenze capitalistiche, pur criticate fortemente, un fenomeno sostanzialmente positivo, che farebbe piazza pulita di ciò che rimane del vecchio mondo preesistente alla globalizzazione, conterrebbe cioè nuove possibilità di liberazione e favorirebbe l'avvento di una moltitudine, ovvero di una nuova “soggettività”, capace di legare “la singolarità al comune”.

De Benoist fa parte di un terzo gruppo di persone che ritiene che solo costruendo un nuovo paradigma che ponga al centro il concetto di limite e di bene comune, sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa. Egli sostieneche è il capitalismo stesso, la Forma-Capitale, che va combattuto. Nella sua storia il capitalismo ha attraversato diverse fasi. Il primo capitalismo si sforzava di comprimere il più possibile i salari, rischiando spesso di vedere lacrescita rallentata o interrotta per crisi di sovrapproduzione. Il compromesso fordista ha permesso poi, ai capitalisti, di capire che il profitto poteva aumentare con l'avvento del consumo di massa e il riformismo. Dalla crisi del '29 alla seconda guerra mondiale e poi alla guerra fredda, si è realizzato questo compromesso e lo sviluppo del capitalismo è rimasto sostanzialmenteinserito entro spazi nazionali, con Stati assistenziali, keynesiani e sociali. Ora questa situazione si è completamente sfaldata per il fatto che negli anni Ottanta si è inaugurata la terza fase, quella del “turbocapitalismo”, caratterizzato dalla “autonomizzazione” del capitale finanziario e dall'accresciuto potere dei detentori del capitale, soprattutto degli azionisti. Inun certo senso si tratta di un ritorno al primo capitalismo, quello delle origini, avvenuto nel sistema globalizzato attraverso la messa in concorrenza deilavoratori e la completa mobilità dei capitali.. Oggi i margini di manovra, iscritti principalmente in quadri nazionali, sono quasi impotenti. La pauperizzazione delle classi popolari e del ceto medio si espande. Secondo Alain De Benoist “è impossibile ridurre il sistema capitalistico a una semplice forma economica e considerare la Forma-Capitale nel suo solo aspetto finanziario. Esistono un'antropologia del capitalismo, un tipo d'uomo capitalista, un immaginario capitalista, una civiltà capitalista, un modo di vivere capitalista e, fino a quando non si romperà con il capitalismo in quanto “fatto sociale totale” e non si rimetterà in discussione “l'insieme dei modi di vivere alienati, strutturalmente legati all'immaginario capitalistico della crescita e del consumo illimitato” (Jean-Claude Michéa), sarà vano pretendere di lottare contro il capitale. Il motore del capitalismo è il profitto mentre gli uomini vengono considerati interscambiabili, merce fra le altre merci. Il capitalismo aspira ad un immenso mercato omogeneo, considera superfluo tutto ciò che non silascia ridurre a calcolo, vuole produrre un uomo unidimensionale, senza vitainteriore né immaginario, che aspiri alla “felicità” attraverso l'avere.Il disoccupato “inutile al mondo” è in qualche modo affetto da indegnità nazionale.

De Benoist conclude Il suo libro “Sull'orlo del baratro” con un richiamo al popolo, senza idealizzarlo come naturalmente buono, ma ritenendolo il depositario privilegiato della “comune decenza”, tipica delle persone comuni, fatta di senso dell'onore, lealtà, onestà, benevolenza, generosità, propensione all'aiuto reciproco, fiducia, senso del bene comune, adesione alla logica del dono e del controdono.