C’è una regola, o meglio un principio a cui le società che si autoproclamano democratiche non dovrebbero mai derogare: l’accettare che idee diverse esistano e possano esprimersi. Non importa quanto assurde, odiose, infami, spregiatrici della vita. Finché non si trasformano in azioni, nessuno stato che non sia illiberale può impedire che si manifestino. Per essere sottoposte a critica, smontate con un’analisi logica, ignorate. E non si tiri fuori il ricatto della “pericolosità”, sia perché è molto più pericoloso quello che cova nel silenzio e nella clandestinità, sia perché un individuo e una società possono difendersi solo attraverso la conoscenza, mentre l’ignoranza e il mancato uso della facoltà critica rendono vulnerabili.
C’è poi un’altra regola, sulle quale, a differenza di quella di cui sopra, teoricamente tutti i democratici concordano, e che vuole che le colpe dei padri non ricadano sui figli. Persino i più tradizionalisti interpreti della Bibbia hanno alla fine riconosciuto che il famoso passo “Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” non va inteso come intenzione di Dio di punire la discendenza del peccatore, ma piuttosto come attesa e osservazione di quanto e se il cattivo esempio dei padri venga imitato dai figli. Nella pratica, però, non solo essere figlio di, ma anche essere amico, nipote, amante di comporta esecrazione e peggio, fino ad arrivare a vere e proprie sanzioni “legali”.
Bene, nel caso della giovane atleta tedesca allontanata dalle Olimpiadi perché ha un fidanzato che milita nelle fila del partito neonazista Ndp, tutte e due queste regole sono state bellamente messe da parte, di più, si è voluta presentare la decisione del Dosb, il Coni tedesco, come nobile, accettata grande senso di responsabilità da Nadja Drygalla stessa (che altro poteva fare?). Alcuni giornali e siti hanno titolato, forzando la realtà: “Sospettata di essere neonazista”. Non è così, ma anche fosse? Se Nadja pensasse (voce del verbo “pensare”) che l’immigrazione è un danno per i paesi europei e che chi ha i capelli biondi e gli occhi azzurri è geneticamente superiore a chi ce li ha marrone scuro, cosa avrebbe a che fare, questo, con la sua capacità di vogare e misurarsi con altri che lo fanno? Lo screening delle opinioni ancora non è entrato nel regolamento olimpico, e non è accettabile che qualcuno si arroghi il diritto di redigere la lista delle idee lecite e di quelle che automaticamente escluderebbero gli atleti, che qui non si misurano sulla base di quanto pensino “bene” (secondo quali criteri, poi? un seguace di Trotzky sì o no? e di Bakunin? e di Rousseau?), ma di quali prestazioni fisiche siano capaci.
Già due partecipanti ai giochi sono stati espulsi per aver pubblicato su Twitter frasi razziste. Nessuno l’ha trovato indecente. Ora su Nadja c’è lo stesso dire/non dire, si dà la notizia ma non si prende posizione se non con qualche timido accenno al fatto che non ci sia un regolamento che la ragazza, Morganella e Papachristou avrebbero infranto.
L’espulsione è una cosa grave, gravissima. Un marchio. Come il marchio sulle donne norvegesi che fecero figli con i soldati tedeschi, e a guerra finita persero la cittadinanza, vennero chiuse in campi di concentramento, furono private dei loro figli che dopo essere stati a rischio di deportazione (tutti) in Australia, finirono reietti, moltissimi negli ospedali psichiatrici. Bisognava liberarsi di chi inquinava la “purezza dell’identità nazionale”, bisognava gridare forte che donne che erano state così disgustose da accoppiarsi con tedeschi non potevano essere altro che pazze debosciate, da espellere dalla comunità come un corpo estraneo e minaccioso. Qui non ci sono lager, ma la mentalità che ha guidato la cacciata di Nadja è la stessa. Identica.