di Massimo Fini
Prima che il “caso Sallusti” andasse a finire a “tarallucci e vino” come sempre avviene in questo Paese quando ci sono di mezzo i potenti e i privilegiati (è pressoché certo, col clima di indignazione ipocrita che si è creato da parte di ogni genere di collitorti, politici, giornalisti, napolitani, che nelle more del periodo di sospensione della pena concesso dal Procuratore capo di Milano, il governo o il Parlamento vareranno una legge 'ad hoc' che salverà il direttore del Giornale dal carcere, ma che, fatta in tutta fretta, ingarbuglierà ulteriormente la questione della diffamazione), Giuliano Ferrara scriveva:
“Ecco la trasformazione di una posizione di offesa in una violenza della legge, una legge sbagliata, ma che ha per conseguenza un atto violento su una persona... un uomo, un professionista che lavora nell'informazione, un cittadino che perde il diritto alla libertà personale”.
È ovvio che per un professionista, che in genere abita in una bella casa e ha un certo train de vie, finire in carcere è molto più doloroso che per un ragazzo di strada che ha forzato la cassa di un supermercato. Ma il Codice non stabilisce razzisticamente le pene a seconda della tipologia del reo, ma di quella dei reati. È altrettanto ovvio che la privazione della libertà personale è una violenza sul cittadino, la massima che uno Stato di diritto può permettersi. Ma una comunità, se vuole tenersi insieme, deve darsi concordemente delle regole e se non vuole che restino lettera morta deve stabilire delle pene per chi le viola. Rinunciare alla violenza della legge significa aprire la strada alla legge della violenza. Cioè alla violenza del più forte. Che è quanto sta accadendo in Italia da molti anni.
La “pasionaria” Daniela Santanchè ha detto che si incatenerà a non so cosa in difesa di Sallusti. Ma questa stessa Santanchè nel caso di presunti stupratori (del tutto presunti perché non erano ancora stati rinviati a giudizio) ha gridato: “In galera subito! E buttare via le chiavi”. Questi sono i garantisti a giorni alterni e a rei alterni. In realtà in Italia si sta affermando un doppio diritto penale: uno soft, fin quasi all'impunità, per i reati tipici di “lorsignori”, uno durissimo per i reati da strada che son quelli commessi dai poveracci. Ma questa è la vecchia, cara, schifosa, giustizia di classe. Io non ci sto.
Una grande, e voluta, confusione si è fatta sulla libertà d'opinione. Una cosa è se io scrivo che il giudice Caio è un incapace, questa è un'opinione, come tale, appunto, opinabile, altra se scrivo che ha ordinato un aborto a una minorenne. Questa non è un'opinione, ma l'attribuzione di un fatto determinato, che non è opinabile. Se è vero il giornalista avrà fatto bene il suo mestiere, se è falso è diffamazione (il tuo vero errore, Sandro, è stato di fidarti di un dilettante allo sbaraglio, quel Renato Farina che faceva il giornalista, soi-disant, e contemporaneamente la spia per i Servizi). Ciò che va eliminata non è la diffamazione, ma la serqua di reati liberticidi di cui il nostro Codice è zeppo e che sono indegni, essi sì, di una democrazia: vilipendio alla bandiera, vilipendio al Capo dello Stato, vilipendio alle Forze armate, vilipendio alla religione fino alla recente legge Mancino che punisce con tre anni di reclusione “l'odio razziale o etnico”.
L'odio è un sentimento e, come tale, a differenza dell'opinione, non controllabile. Nessuno, finora, nemmeno i dittatori, si erano spinti fino a mettere le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, restando chiaro che se solo tento di torcergli un capello devo andare dritto e di filato in gattabuia. Con buona pace di Giuliano Ferrara e dell'indiscriminato “diritto alla libertà personale”.