domenica 30 settembre 2012

I garantisti su misura


di Massimo Fini

Prima che il “caso Sallusti” andasse a finire a “tarallucci e vino” come sempre avviene in questo Paese quando ci sono di mezzo i potenti e i privilegiati (è pressoché certo, col clima di indignazione ipocrita che si è creato da parte di ogni genere di collitorti, politici, giornalisti, napolitani, che nelle more del periodo di sospensione della pena concesso dal Procuratore capo di Milano, il governo o il Parlamento vareranno una legge 'ad hoc' che salverà il direttore del Giornale dal carcere, ma che, fatta in tutta fretta, ingarbuglierà ulteriormente la questione della diffamazione), Giuliano Ferrara scriveva:
“Ecco la trasformazione di una posizione di offesa in una violenza della legge, una legge sbagliata, ma che ha per conseguenza un atto violento su una persona... un uomo, un professionista che lavora nell'informazione, un cittadino che perde il diritto alla libertà personale”.

È ovvio che per un professionista, che in genere abita in una bella casa e ha un certo train de vie, finire in carcere è molto più doloroso che per un ragazzo di strada che ha forzato la cassa di un supermercato. Ma il Codice non stabilisce razzisticamente le pene a seconda della tipologia del reo, ma di quella dei reati. È altrettanto ovvio che la privazione della libertà personale è una violenza sul cittadino, la massima che uno Stato di diritto può permettersi. Ma una comunità, se vuole tenersi insieme, deve darsi concordemente delle regole e se non vuole che restino lettera morta deve stabilire delle pene per chi le viola. Rinunciare alla violenza della legge significa aprire la strada alla legge della violenza. Cioè alla violenza del più forte. Che è quanto sta accadendo in Italia da molti anni. 

La “pasionaria” Daniela Santanchè ha detto che si incatenerà a non so cosa in difesa di Sallusti. Ma questa stessa Santanchè nel caso di presunti stupratori (del tutto presunti perché non erano ancora stati rinviati a giudizio) ha gridato: “In galera subito! E buttare via le chiavi”. Questi sono i garantisti a giorni alterni e a rei alterni. In realtà in Italia si sta affermando un doppio diritto penale: uno soft, fin quasi all'impunità, per i reati tipici di “lorsignori”, uno durissimo per i reati da strada che son quelli commessi dai poveracci. Ma questa è la vecchia, cara, schifosa, giustizia di classe. Io non ci sto.

Una grande, e voluta, confusione si è fatta sulla libertà d'opinione. Una cosa è se io scrivo che il giudice Caio è un incapace, questa è un'opinione, come tale, appunto, opinabile, altra se scrivo che ha ordinato un aborto a una minorenne. Questa non è un'opinione, ma l'attribuzione di un fatto determinato, che non è opinabile. Se è vero il giornalista avrà fatto bene il suo mestiere, se è falso è diffamazione (il tuo vero errore, Sandro, è stato di fidarti di un dilettante allo sbaraglio, quel Renato Farina che faceva il giornalista, soi-disant, e contemporaneamente la spia per i Servizi). Ciò che va eliminata non è la diffamazione, ma la serqua di reati liberticidi di cui il nostro Codice è zeppo e che sono indegni, essi sì, di una democrazia: vilipendio alla bandiera, vilipendio al Capo dello Stato, vilipendio alle Forze armate, vilipendio alla religione fino alla recente legge Mancino che punisce con tre anni di reclusione “l'odio razziale o etnico”. 

L'odio è un sentimento e, come tale, a differenza dell'opinione, non controllabile. Nessuno, finora, nemmeno i dittatori, si erano spinti fino a mettere le manette ai sentimenti. Io ho il diritto di odiare chi mi pare, restando chiaro che se solo tento di torcergli un capello devo andare dritto e di filato in gattabuia. Con buona pace di Giuliano Ferrara e dell'indiscriminato “diritto alla libertà personale”.

sabato 29 settembre 2012

Ciak,va in scena il "movimento" (che cosa c'è dietro la piazza?)


di Valter Delle Donne


Lo spiega bene Giampiero Mughini, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro: «La caratteristica di questo secolo è il virtuale. Assieme al virtuale, purtroppo, ci sono altre cose. Questo è il momento della penuria delle possibilità, delle occasioni. E quindi la penuria della speranza». Una piazza virtuale e senza speranza, che quando si attiva, lo fa attraverso i soliti noti. 

Come osserva il mass mediologo  Klaus Davi: «Sin dai tempi dei girotondini di Nanni Moretti possiamo dire che un target di movimentisti in Italia è fisso, è uno zoccolo duro. Cambia solo il marchio». E quando si mobilita per manifestare in buona parte lo fa come “fashion victim”: «C’è sempre una percentuale che lo fa per moda», spiega sempre Davi. Sul ritorno di “Occupy Wall Street”, la stampa americana parla unanimente di un “flop”, di una “carnevalata”, proprio mentre dall’altra parte dell’Oceano, a Madrid, gli indignados tornano in piazza. Stavolta, però, con un’inversione copernicana. 

Come osserva sempre Klaus Davi: «Non sono più gli indignados, quella che è scesa in piazza è la gente normale, sono gli spagnoli. Gli indignados sono stati solo un’avanguardia che ha fatto tendenza. Poi, il fatto che al governo ci sia il popolare Rajoy non è casuale. In Italia, secondo me, è solo questione di tempo». La novità è che la protesta sia stata contro il Parlamento spagnolo. Un riconoscimento, indiretto, all’importanza del governo nazionale, dopo aver per anni teorizzato la globalizzazione della protesta in occasione dei G8, secondo il criterio che i parlamenti nazionali non contavano nulla e che i problemi andavano affrontati a livello globale. Stavolta no e non è un caso che la protesta degli indignados stavolta sia stata compresa dalla gente normale. Ha fatto immediatamente il giro del web il video in cui alcuni negozianti difendevano i contestatori dagli attacchi della polizia spagnola. Come a dire che in questa occasione i ragazzi protestavano davvero a nome di tutti. 

Verrebbe semmai da chiedersi se e quando la “fashion victim”, come la definisce Davi, contagerà l’Italia. Di certo i movimenti godono di una formidabile cassa di risonanza mediatica, che li alimenta o li silenzia, a seconda delle circostanze (e delle convenienze?). Basterebbe ricordare i recenti leader no global nostrani. Grazie alle apparizioni televisive sono diventati parlamentari Agnoletto (a Strasburgo) e Caruso (a Montecitorio) ed è diventato un guru dell’informazione e della politica Casarin. Personaggi che si sono liquefatti (secondo la lettura della società liquida cara a Zygmunt Bauman) al primo cambio di stagione.

Una analisi nazionale sarebbe tuttavia miope. Prendete il caso della bella e fotogenica leader degli studenti cileni, Camila Vallejo. La figlia di un attore di telenovelas è diventata la Madonna pellegrina dei rivoluzionari da monitor, andando in giro come conferenziera nei quattro angoli del pianeta. Merito di un paio di slogan e di alcune copertine azzeccate, pubblicate sulla decina di testate che contano nel villaggio globale. Peccato che alle elezioni studentesche del dicembre scorso i 14mila studenti cileni gli abbiano preferito tale Gabriel Boric, infischiandosene dei giornali. A parziale consolazione dei media internazionali il nuovo leader studentesco cileno ha la barba alla Che Guevara e un sorriso accattivante. Laddove non arriva l’ideologia, nel 2012 può la fotogenia.

venerdì 28 settembre 2012

Come le bestie


tratto da Azione Tradizionale

A Nanchang, nella Provincia di Jiangxi, sud-est della Cina, in occasione della festività religiosa locale i mendicanti vengono rinchiusi in gabbie proprio come animali da zoo. Le autorità cittadine costringono gli accattoni in una cella per evitare fastidi ai numerosi visitatori che giungono in città. Non c’è che dire, mentre nei paesi occidentali si protesta contro la segregazione degli animali dentro le gabbie, in Cina sono gli uomini ad esservi costretti, senza che nessuno abbia da ridire o reclami sanzioni contro Pechino. Le due facce di una stessa – ipocrita – medaglia.

MENDICANTI IN GABBIA – A Nanchang l’accattonaggio è assai diffuso. Secondo i funzionari cittadini il numero dei mendicanti negli ultimi tempi era diventato elevato al punto che lamentele e suppliche per qualche spicciolo non risparmiavano nessuno dei turisti. Lo zoo umano è una soluzione estrema severamente condannata dagli attivisti per i diritti umani. Ma gli organizzatori della festa in occasione della quale i mendicanti sono stati rinchiusi si giustificano affermando che nessuna persona è stata obbligata a sistemarsi tra le sbarre e che nessuno ha costretto loro a chiedere l’elemosina per vivere.

VISITATORI INORRIDITI – “I mendicanti stanno bene nelle gabbie. La gente gli consegna cibo e acqua. In un certo senso per loro è meglio stare lì invece che cercare un posto in una strada trafficata”, ha detto uno degli organizzatori. “Possono andare via quando vogliono, ma non possono andare in fiera”, ha poi aggiunto. “Li trattano come animali da zoo, sono esseri umani!”, denunciano gli attivisti. “Questa – ripetono – non è altro che una umiliazione pubblica!”. I visitatori, dal canto loro, si dicono inorriditi alla vista di uomini che allungano le braccia alla disperata ricerca di un misero regalo.Le celle sono così piccole che è impossibile per gli occupanti restare in piedi.

giovedì 27 settembre 2012

Serve l'èlite. Servono uomini differenziati


tratto da Azione Tradizionale

Anche ieri a Madrid scontri in piazza e popoli in rivolta. Ma sono anni ormai che vediamo queste scene in tutta Europa. E poi in tutto il mondo. Li chiamano “indignati”, ma potrebbero tranquillamente definirsi “omologati” o “imbrigliati”, visto che fanno le stesse cose senza mai realizzare nulla. E infatti non cambia niente, anzi peggiora.
A Madrid abbiamo visto scontri, guarda caso provocati anche dalla presenza di infiltrati tra le fila dei manifestanti. utili idioti che si lanciano abbindolare da servi del sistema.
La risposta è semplice: le rivoluzioni, i ritorni alle epoche magnifiche non sono mai state opere delle masse, che seguono la pancia e quel che accade. Oggi più che mai servono le élite, schiatte di uomini differenziati, legioni di capi che “faranno la Riconquista”, citando L. Degrelle. 
Servono Uomini.

Indignados di nuovo in piazza a Madrid contro le politiche di austerity del governo, mentre proprio oggi il premier Rajoy si e’ detto pronto a chiedere un nuovo salvataggio per il paese, se i costi di finanziamento resteranno a lungo troppo alti.

La manifestazione di protesta di migliaia di indignados ieri sera nella capitale spagnola Si e’ conclusa con un bilancio di 64 feriti e 28 arresti. Migliaia di persone si erano concentrate dinanzi al Congresso dei deputati spagnoli per denunciare “il sequestro della democrazia” e i tagli decisi dalle politiche di austerity del governo.

Gli organizzatori volevano avvicinarsi alla ‘camera bassa’ del Parlamento, riunita in seduta plenaria.
Nei momenti di maggiore tensione la polizia ha caricato i manifestanti e sparato proiettili di gomma nella centralissima piazza di Nettuno. Oggi è prevista una nuova manifestazione alle 19.

Intanto Mariano Rajoy ha detto che La Spagna è pronta a chiedere un nuovo salvataggio per il paese, se i costi di finanziamento resteranno a lungo troppo alti.

Rajoy ha anche annunciato la creazione di un nuovo organismo di monitoraggio del deficit, alla luce delle nuove riforme strutturali che saranno varate questa settimana. In un’intervista al Wall Street Journal, Rajoy, sulla possibilità che Madrid richieda un salvataggio, dice: “Al momento non posso dirlo”, il governo deve valutare se le condizioni poste per il salvataggio “sono ragionevoli”.

Tuttavia Rajoy nora anche che se i tassi di interesse sul debito resteranno “troppo alti troppo a lungo vi posso assicurare al 100% che chiederò questo salvataggio”. – Domani il governo di Madrid adotta una legge di bilancio che potrebbe prevedere nuove misure di austerity e su cui incombe l’ombra del salvataggio internazionale del paese.

Il giorno dopo la finanziaria, Madrid diffonderà i risultati dell’audit da cui sapremo di quanti soldi ha bisogno la Spagna per salvare il suo sistema bancario. Dei 100 miliardi di euro stanziati da Bruxelles Madrid finora ha lasciato intendere che ne utilizzerà 60. A quel punto probabilmente si capirà meglio se Madrid intende richiedere o meno un intervento della Bce per l’acquisto di bond.

Il primo passo comunque sarà la finanziaria, che il governo si appresta a varare domani e che dovrebbe contenere circa 39 miliardi di euro tra tagli alla spesa e aumenti fiscali. Tra il 2012 e il 2014 la Spagna avrà bisogno di rastrellare sui mercati oltre 150 miliardi di euro per finanziare il suo bilancio: 61 quest’anno, 39 nel 2013 e 50 nel 2014.

Tra le misure di austerità in cantiere per il 2013 ci sono 15 miliardi di euro di aumenti fiscali, di cui 7 miliardi provenienti dalle regioni, che gestiscono la sanità e la scuola. Altri risparmi arriveranno dall’abbassamento dei sussidi di disoccupazione, dal congelamento delle assunzioni nel settore pubblico e dal taglio delle spese sociali. Sulle pensioni è in corso un duro dibattito all’interno del governo.

Il premier Mariano Rajoy, in campagna elettorale, ha promesso di non toccarle, ma sarà difficile che riesca a mantenere questo impegno. Il governo ieri ha lasciato intendere che a novembre l’aumento indicizzato delle pensioni ci sarà, ma è probabile che sarà seguito da un’accelerazione della riforma previdenziale, che prevede l’innalzamento dell’età pensionabile.

mercoledì 26 settembre 2012

Torniamo al Medioevo

di Massimo Fini

Nel Medioevo la Chiesa, attraverso le elaborazioni concettuali della Scolastica (Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Raymond de Pennafort, Enrico di Langstein, Buridano, Nicola Oresme, Duns Scoto), condusse una lunga, generosa, e per molto tempo vittoriosa, battaglia non solo contro l’usura ma anche, cosa che oggi si tende a dimenticare, contro l’interesse. E con argomenti più sottili e sofisticati di quelli di Aristotele che sosteneva che il denaro, essendo sterile, non può produrre altro denaro. Dice Duns Scoto: “Il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può perciò essere monetizzato e fatto oggetto di mercato”. Ma la questione può essere ulteriormente approfondita.

Se il tempo è di tutti, nessuno (a parte Dio, per chi ci crede) può essere padrone del nostro tempo che, come diceva Benjamin Franklin, è “il tessuto della vita”, cioè la vita stessa. In epoca preindustriale il contadino (e l’artigiano) vive sul suo e del suo, è padrone del proprio tempo, della propria vita. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: “L’artigiano della bottega preindustriale... lavorava più ore dell’operaio industriale, ma non doveva necessariamente soggiacere alla dura disciplina degli orari e dei tempi della fabbrica e per diversi settori manifatturieri aveva il piacere e l’orgoglio di far uscire dalle proprie mani un prodotto finito” (Storia economica dell’Europa preindustriale).

Noi moderni, si sia operai, impiegati, operatori del terziario, vendiamo invece ad altri più che le nostre energie, come dice un po’ rozzamente Marx, il nostro tempo, la nostra vita. A parte alcuni privilegiati siamo tutti degli ‘schiavi salariati’ come scrive Nietzsche. Ci siamo messi in condizioni tali che in molte situazioni siamo costretti a scegliere fra il lavoro, cioè la vendita ad altri del nostro tempo senza la quale non possiamo però sostenerci, e la salute (Ilva docet).

Anche da questo punto di vista, quello dell’inquinamento, della salvaguardia dell’ambiente e, in definitiva, della nostra vita, gli uomini e le donne del Medioevo si sono dimostrati più sapienti di noi.

Scrive ancora Cipolla: “Il carbon fossile fu in uso già nel Medioevo, ma la gente del Medioevo era molto sospettosa di questo tipo di combustibile vagamente, ma decisamente intuendo che il suo uso implicava conseguenze nocive per l’ambiente.

Sotto molti aspetti la gente del Medioevo, pur nella sua ignorante superstizione, fu molto più cosciente dei possibili danni dell’inquinamento che la gente dell’epoca della Rivoluzione industriale”. E J. D. Gould in ‘Economic Growth in History’ aggiunge: “L’inquinamento, la distruzione dell’ambiente, la gestione del traffico sono ovviamente il risultato dell’industrializzazione e della tecnologia moderna e non trovano corrispondenza nella società preindustriale. Più si studiano tali società, più ci si rende conto che esse riuscirono a trovare un miracoloso equilibrio con la natura, bilanciando il consumo presente e la conservazione per il futuro con un tale successo che le moderne strutture economiche non sono riuscite nemmeno a immaginare”.


Capre! Capre! Capre! (scusate, ma sono reduce da un dibattito con Vittorio Sgarbi). 

martedì 25 settembre 2012

Business is business

di Umberto Bianchi (Rinascita)

Ma la storia dell’immondizia non era finita? Macché: è sufficiente attraversare le periferie delle città campane per immergersi nel nulla di fatto. Ma come, non era questo il governo delle innovazioni tanto gradite all’euro-circo di Bruxelles? Non dovrebbe essere Monti il Professore-Presidente della Provvidenza, un autentico “Deus ex machina” calato dal cielo grazie alla graziosa intercessione del nostro Presidente Napolitano?
Evidentemente no. A ben vedere le cose non vanno affatto bene, anzi, non vanno affatto. L’altro giorno in un afflato di mistico autocompungimento, il Nostro Professore-Presidente, (ora nell’inedita versione maschile di una Santa Caterina da Siena in preda a qualche mistico tormento…) ci ha rivelato che le sue curette salva-Italia qualche riflesso negativo sul già tremolante andazzo della nostra economia l’avrebbero avuto, il tutto nelle modalità di una chemioterapia in salsa economica, in cui per curare il male che corrode un organismo, si finisce con l’ammazzare il paziente. Tassare allo sfinimento tutto e tutti, svendere i beni dello Stato, tagliare settori come cultura, sanità ed invece non toccare inutili spese militari, favorire banche, assicurazioni e comparti finanziari privati, vi sembra un modo per rilanciare l’economia di un Paese? E tanto per rimanere in Europa, gli ultimi provvedimenti della BCE, il cosiddetto Fondo salva-stati, ma specialmente la possibilità di acquistare senza limiti titoli dei Paesi più in difficoltà da parte dei più virtuosi, altro non rappresentano se non l’ennesimo provvedimento salva-banche tramite la produzione “ex nihilo” di valori cartacei e quindi totalmente slegati dall’andamento delle economie reali. Tanto per capirci: chi saranno coloro che, in primis acquisteranno i titoli del debito pubblico dei vari Paesi dell’eurozona in difficoltà? Ma le banche, naturalmente. E chi è che provvederà a distribuire tali titoli ai singoli acquirenti? Sempre le banche ed affini quali assicurazioni, finanziarie, fiduciarie, etc., naturalmente. Allora di che razza di provvedimenti salvifici si va cianciando? Bisognerebbe spiegarsi un po’ meglio e specificare che a salvarsi qui sono esclusivamente i poteri forti dell’economia e della finanza ed i loro vari strumenti ufficiali (le solite banche, finanziarie, assicurazioni, etc.). Per chi invece di lavoro ci vive (e ci muore, sic!) resta il progressivo restringimento delle proprie capacità di reddito, dovuto al continuo e sempre meno evitabile ricorso ai vari strumenti finanziari, che siano l’acquisto dei titoli di stato, che siano mutui o il ricorso a forme di pagamento elettronico quali carte di credito o bancomat, o anche la semplice detenzione di valuta, tutti egualmente gravati da costi occulti, a partire da quello rappresentato dal signoraggio. Senza parlare del cosiddetto “Fondo salva-stati”, che altri non è che una formula riattualizzata dell’infame progetto Euro.

Il Paese dell’eurozona in difficoltà si illude di poter attingere a questa riserva finanziaria costituita, in primis, dai contributi dei Paesi dalle economie più forti, dimentico dei costi che gravano sull’intera operazione, che saranno debitamente spalmati su tutte le fasce di una popolazione per una o più generazioni. Un po’ come accade con le carte di credito, i cui costi finiscono con il superare sempre i vantaggi delle varie operazioni. Euro, Fondo salva-stati e via discorrendo, altro non sono che immense operazioni “carta di credito” i cui costi vanno sempre nelle tasche delle varie banche, strangolando progressivamente le varie economie nazionali. E siccome la finanziarizzazione delle varie economie ha raggiunto un ritmo spasmodico grazie alla Globalizzazione, qualsiasi soluzione in tal direzione altro non farà che aumentare il succedersi e l’intensità delle varie crisi finanziarie globali, il tutto a vantaggio esclusivo dei grandi burattinai che stanno dietro al progetto del Nuovo Ordine Mondiale. Ma c’è anche chi crede che la soluzione a tanto problema stia semplicemente nell’aumentare spropositatamente le imposte, senza operare alcuna profonda svolta sistemica. Parliamo di gente alla Francois Hollande che, con le sue gabelle dice di togliere ai ricchi, ma in verità supporta un’impostazione geoeconomica tutta in favore della assoluta supremazia delle multinazionali francesi in Africa e, laddove tale supremazia venga messa in discussione, non si esita ad operare sanguinosi colpi di mano, perpetrati con tanto di spaventose pulizie etniche, pur di installare personaggi come l’attuale presidente della Costa D’Avorio, Ouattara, ex funzionario FMI che, di una delle poche economie floride dell’Africa, hanno fatto una dependance delle multinazionali francesi, agli ordini dei diktat del FMI. Senza contare gli altri interventi francesi in Libia, per esempio, o adesso quello di cui si sussurra in quel di Siria, tutto a supporto dei locali “barbudos”. Anche in Italia, in fin dei conti, si è verificato un colpo di mano, all’italiana però. Qui, anziché atroci operazioni di pulizia etnica, si è preferito non fare alcuna operazione di pulizia, lasciando tutta la sporcizia in appalto alla malavita, assunta a strumento di tutela degli interessi del globalismo, attraverso riciclaggio, traffico di droga, munnezza e quant’altro alla faccia della salute e dell’integrità fisica dei cittadini. Ma, come si dice “business is business” e quindi i partiti, calatisi le braghe, hanno direttamente demandato la gestione della “res publica”, ai rappresentanti in pectore dei poteri forti, bypassando direttamente il parere dei cittadini, in barba ai tanto osannati dettami della carta costituzionale. A questo punto, però, “sic stantibus rebus”, troviamo veramente un’offesa alla nostra intelligenza il parlare di “ripresa”, come fa il nostro beneamato Presidente del Consiglio, ad ogni umorale batter d’ali delle Borse o ad ogni proclama di qualche boiardo di Bruxelles.

Altresì e doppiamente offensive, le critiche, le condanne e l’intromissione negli affari di altri Paesi, come la Siria, quando noi, veramente, in fatto di violazioni di diritti, inosservanza alle varie costituzioni, impicci e malaffari non siamo secondi a nessuno. Forse, della Siria dà fastidio che, essendo ancora una repubblica laica, nazionale e socialista, riconosca tra i propri fondamenti quello del diritto al lavoro che, oramai in Italia, grazie a certe simpatiche uscitine è oramai platealmente messo in discussione, preferendosi quello più tipicamente italiota alla raccomandazione; se poi si è giovani, carine e “veline”, tanto meglio: Berlusconi docet! Per questo, sarebbe necessario cominciare a guardare a quanto sta accadendo nelle piazze di New York, Madrid, Lisbona ed in tanti altri posti dove, al posto delle solite logore vetero-formazioni politiche, sta prendendo piede una sempre più serrata critica al capitalismo ed al turbo liberismo, animata da un eterogeneo insieme di gruppi e movimenti di cittadini e studenti. L’Italia, in questo, è rimasta indietro. Alla grande varietà di analisi ideologiche non si accompagna, però, la volontà di addivenire alla creazione di un Fronte Antagonista, operativo sul piano della politica ed in grado di fornire delle indicazioni reali al diffuso senso di disagio collettivo, a causa del campanilistico tribalismo da cui la politica nostrana (anche ai suoi piani più nobili) è affetta.

Di fronte a questo stato di cose, le armi della continua denuncia, la critica serrata, le proposte, la veicolazione in rete di certe istanze, potranno rappresentare un primo importante passo, in direzione della formazione di un comune sentire, senza però dimenticare d’altra parte che, non si può certo rimproverare questo esecutivo di poca coerenza o di non parlar chiaro, anzi. Il “culo in faccia” di certi signori, a questo punto, è quasi degno di ammirazione, perché lancia un guanto di sfida a tutti coloro che hanno una testa per pensare, non lasciando più molti dubbi sulla natura della posta in gioco e del conflitto in atto.

lunedì 24 settembre 2012

INAUGURA CASAGGI' VALDICHIANA!



Casaggì Valdichiana, nata in seno al progetto del "centro sociale di destra" Casaggì Firenze, attivo dal 2005 nel capoluogo toscano, è una Comunità militante libera e identitaria, che si pone l'obiettivo di creare, sul territorio, un avamposto culturale e politico che possa produrre manifestazioni, cortei, dibattiti, eventi, volontariato, corsi di sport e gruppi di studio con autonomia e trasversa
lità rispetto alle strutture di partito. Nella nostra Comunità, oltre a respirare l'aria pulita del cameratismo e dell'impegno disinteressato, potrai trovare uno spazio quotidiano di approfondimento e di attivismo volto alla formazione di una coscienza critica e pensante. 

Casaggì Valdichiana ha lo scopo di creare una rete di individualità unite secondo norma e gerarchica e pratica organica che collaborino e si completino al fine di realizzare un progetto fatto di metapolitica, partecipazione sociale e cultura che utilizzi il partito di riferimento come uno strumento utile all'azione sul territorio, senza cadere in squallidi personalismi. Un progetto concreto e impegnato che non si rinchiuda nei labirinti dell'immobilismo e dell'autoreferenzialità, ma che sia saldo nelle radici e aperto negli obiettivi, fermo al centro e flessibile nella circonferenza. 

Casaggì Valdichiana si batte per il primato della politica sull'economia, dell'uomo sull'automa, dello spirito sulla materia, della natura sull'artificio, della vita sulla morte, della libertà sull'oppressione, della giustizia sociale sulle oligarchie, della Comunità sull'agglomerato collettivo, della gerarchia sull'assenza di regole, della disciplina sulla superficialità, della fedeltà sul tradimento, della solidarietà sul menefreghismo, del diritto alla proprietà della casa e al lavoro garantito sulla speculazione edilizia e l'usura bancaria, del donarsi sul richiedere, dell'etica sul profitto, della Patria sull'internazionalismo, dell'Identità sulla massificazione, dell'anticonformismo sul pensiero unico, dell'autodeterminazione sull'imperialismo culturale, dello spirito critico sui modelli imposti al gregge, del coraggio sulla viltà, della militanza di strada sul marketing, della Tradizione sul modernismo, dell'Europa dei popoli e delle Patrie sulla Comunità Europea delle banche e dei dazi, dello Stato e della Polis sul mercato, dell'esempio sull'apparenza, del cuore sul portafogli, dell'essere sul sembrare, della lotta sul disimpegno.

INAUGURAZIONE SABATO 13 OTTOBRE
INTERVENTI, BUFFET, FESTA E MUSICA
DALLE 17 IN POI
VIA DEL POGGIOLO 3
MONTEPULCIANO (SIENA)

sabato 22 settembre 2012

Goldman Sachs vota Pd


di Antonio Satta

La banca d'affari aspetta che una maggioranza di centrosinistra segua la linea Monti
Tra gli scenari del report anche il ricorso del premier al fondo Efsm-Esm prima del voto per legare le mani al suo successore.

Le polemiche saranno inevitabili. Per le prossime elezioni Goldman Sachs scommette sul Pd. Il colosso finanziario americano, a sette mesi dalle elezioni politiche italiane, ha pubblicato un report che farà rumore, nel quale si sostengono le chance di una maggioranza di centro sinistra incentrata sul Pd. E questa maggioranza molto probabilmente manterrebbe la linea Monti, anche se non è chiaro se riconfermerebbe Mario Monti a capo del governo. In ogni caso, secondo il report, difficilmente il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, porterà il Paese alle elezioni prima di aver risolto la questione della riforma elettorale. Goldman Sachs ritiene «probabile che vengano introdotte modifiche alla legge con l’idea di garantire una coalizione centrista a favore di una conferma di Monti». 

Ora non si può dire che a Goldman Sachs non conoscano la politica e gli effetti che una dichiarazione del genere può scatenare. Se c’è una banca d’affari che con la politica e i governi, in patria e all’estero, ha avuto relazioni strettissime è proprio GS. In America hanno tirato in ballo le revolving doors (le porte girevoli) per definire il fenomeno tipico in Goldman di un dirigente di primo piano che lascia Lloyd Blankfein il suo incarico per passare al governo, e magari, finito il mandato, torna tranquillamente alla casa madre. Per limitarci all’Italia, Mario Draghi è stato vicepresidente di Goldman Sachs per l’Europa dal 2002 al 2005, ma tra i consulenti della banca d’affari ci sono stati anche Gianni Letta, Romano Prodi e Mario Monti.

Ebbene, ora gli analisti di Goldman Sachs, peraltro molto attiva nella vendita di Btp nei momenti in cui lo spread era salito alle stelle e grande sostenitrice di un governo Monti post-Berlusconi nelle fasi calde del novembre scorso, scrivono che il tempo del governo tecnico del loro autorevole ex collega, «sta per finire» e «l’Italia potrebbe risentire dell’incertezza politica collegata alle future elezioni politiche in agenda ad aprile 2013». 

Il maggior rischio per il Paese, secondo la banca d’affari, verrebbe da una vittoria delle forze euroscettiche e tra queste colloca il Pdl di Silvio Berlusconi e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Del resto, scrivono gli analisti, «le riforme impopolari del governo Monti, ad esempio l’Imu dal valore di 20 miliardi di euro all’anno, hanno favorito campagne politiche anti-europee e anti-euro di vari partiti». Non va nemmeno sottovalutato l’appeal politico di Grillo, perché «ha buone opportunità di guadagnare un gran numero di seggi in Parlamento, riflettendo la disaffezione degli italiani all’esistente establishment politico.» 

GS rimane cauta, ma comunque «costruttiva», sulle dinamiche di mercato dei titoli di Stato italiani che potrebbero soffrire se la credibilità del nuovo programma di acquisto della Bce fosse messa in discussione, soprattutto inconsiderazione del debole scenario macroeconomico. Ma pesa anche l’incertezza sugli esiti delle prossime elezioni, tanto che gli analisti arrivano a delineare tre possibili scenari che potrebbero portare l’Italia a ricorrere al programma di aiuti Efsf/Esm, così ribattezzati: il vincolato, il tattico e il mani-legate». Nel primo scenario («il meno probabile») l’Italia potrebbe essere obbligata a ricorrere ai fondi per il riemergere «delle tensioni sull’obbligazionario» che potrebbero rendere «illiquido il mercato dei Btp»; un’ipotesi possibile con «una vittoria dei partiti anti-europei». Nel secondo scenario, il governo italiano potrebbe «tatticamente» vincolarsi al Fondo salva Stati prima delle elezioni, «senza in realtà averne bisogno», annullando il rischio contagio dalla Spagna. 

Il terzo e ultimo scenario prevede che la richiesta di sostegno possa essere avanzata da Monti stesso, prima delle elezioni, per «legare le mani al suo successore».

venerdì 21 settembre 2012

La famiglia,questa maledetta


di Marco Cedolin

I dati contenuti all'interno del nuovo rapporto del Censis rappresentano lo spunto, come già accaduto in passato, affinché tanta buona stampa possa trastullarsi nel denigrare gli italiani "bamboccioni", troppo legati alla famiglia, non sufficientemente globalisti e ancora scarsamente appiattiti sul modello americano che,a detta loro, rappresenterebbe il perfetto esempio di una società matura, efficiente ed impermeabile a qualsiasi tipo di sentimentalismo.
Stando alle cifre fornite dal Censis un terzo degli italiani abita con mamma e papà, oltre il 40% vive all'interno di un raggio di mezz'ora di camminata dalla casa dei genitori, raggio all'interno del quale il 54% degli italiani ha anche i propri parenti stretti. E questo non vale solamente per i giovanissimi, bensì anche per gli adulti. Come se non bastasse oltre 7 milioni di italiani portano al lavoro il pranzo preparato in casa. Passano mediamente circa un'ora al giorno davanti ai fornelli, facendo si che la preparazione dei pasti assorba mediamente per una donna 21 giorni "lavorativi" l'anno. Circa 21 milioni d'italiani preparano in casa alimenti come yogurt, pane, gelato o conserve e di questi la metà lo fa regolarmente.....

Circa l'85% degli italiani continua a fare la spesa alimentare sotto casa, nei piccoli antieconomici negozi di quartiere e la maggior parte delle persone fanno i propri acquisti all'interno di un'area di una ventina di minuti di camminata dalla propria abitazione. Le mamme che lasciano il lavoro a causa della nascita di un figlio sono aumentate dal 2% all'8,7% e circa il 36% delle donne in età feconda si dedica alla propria famiglia risultando perciò inattiva.

In pratica gli italiani stentano ad uniformarsi al modello della globalizzazione che pretende l'eutanasia di ogni identità, famiglia, comunità, nazione e faticano non poco a rompere tutti i legami con le tradizioni, diventando parte integrante di una società che li vorrebbe sempre più individui atomizzati senza lacci o lacciuoli di sorta. Anzi in alcuni casi, invece di procedere sulla strada del "nirvana", sembrano perfino tornare sui propri passi, mostrando nostalgia di quel passato che nel modello progressista equivale ad una iattura dalla quale allontanarsi al più presto.

Molti degli atteggiamenti stigmatizzati attraverso le cifre offerte dal Censis possono venire direttamente ricondotti alla crisi economica che strangola il paese e perfino i giornalacci mainstream non possono evitare di metterlo in evidenza. Dal momento che la maggior parte dei giovani è senza lavoro o lavora percependo salari ridicoli (buoni forse per l'aperitivo e le sigarette) sarebbe impensabile che costoro carezzassero l'idea di lasciare la famiglia e costruirsi una vita indipendente. Se la maggior parte delle famiglie non riesce ad arrivare a fine mese pur lavorando è naturale che l'imperativo sia quello vivere nelle vicinanze dei genitori/nonni che molto spesso rappresentano l'unica ancora di salvezza per la gestione della prole. Se il conto in banca è perennemente in rosso non può stupire il fatto che una persona si porti al lavoro il cibo cucinato in casa, anziché spendere una ventina di euro per pranzare al baretto accanto all'ufficio e così via discorrendo.

Molti altri invece sembrano essere rappresentativi di una certa idiosincrasia degli italiani nei confronti dell'appiattimento su una cultura di derivazione a stelle e strisce che di fatto non appartiene loro e della scarsa propensione a tagliare ogni radice culturale che fa parte del proprio dna.

Ma leggendo il tenore delle riflessioni portate dagli imbrattacarte sui fogli del mainstream non si può evitare di porsi una domanda. Crisi economica a parte sono davvero così drammatici e deprecabili gli atteggiamenti stigmatizzati attraverso i dati del Censis? Davvero la "non famiglia" per costruire la quale stanno lavorando da decenni i mentori del progresso, con tutti i familiari che vivono a centinaia di km l'uno dall'altro e magari si ritrovano una volta l'anno davanti al tacchino del ringraziamento, con 10 soli minuti al giorno passati davanti al forno microonde, con le alette di pollo mangiate in ufficio dentro al cartoncino (ma non portate da casa), con la spesa fatta ogni due settimane (magari con l'ausilio dei coupons) nell'ipermercato a 2 ore di auto da casa e con le mamme che mai si sognerebbero di "sprecare" ore di lavoro per stare insieme ai propri figli, sarebbe una famiglia migliore?

giovedì 20 settembre 2012

Questa situazione l'abbiamo prodotta noi


di Massimo Fini

‘'Questa situazione l'abbiamo prodotta noi" ha detto il politologo americano Michael Walzer riferendosi ai fatti di Bengasi. Per anni le democrazie occidentali avevano fornicato con Gheddafi, poi, improvvisamente, hanno scoperto che era un dittatore impresentabile e andava quindi eliminato. Agenti provocatori inglesi e francesi sono stati mandati in Cirenaica dove certo il malcontento e la frustrazione, dopo 42 anni di dittatura, non mancavano. Gheddafi però non è stato eliminato da una rivoluzione popolare, ma dai bombardieri della Nato.

Caduto Gheddafi la Libia è precipitata nel caos. Solo un dittatore poteva tenere insieme un Paese dalle mille realtà tribali, etniche e religiose. E nel caos hanno buon gioco a inserirsi i gruppi radicali ed estremisti come quello che ha condotto l'azione di Bengasi (al Qaeda, tirata puntualmente in ballo, non c'entra, è un'invenzione occidentale). Inoltre chi è bombardato e ha visto distrutta la sua casa, uccisi i figli, i genitori, la moglie, è difficile che conservi sentimenti amichevoli verso i ‘liberatori'.

Quand'è che capiremo che le ingerenze e la proterva pretesa di portare, con la forza delle armi, i nostri valori, le nostre istituzioni, la democrazia, a popoli "altri", da noi diversissimi, oltre a provocare massacri inenarrabili (sono circa 750mila le vittime civili causate, direttamente o indirettamente, dalle aggressioni americane in Afghanistan e in Iraq) si risolvono regolarmente in un boomerang? Prendiamo l'Iraq. È una cervellotica invenzione degli inglesi che nel 1930 misero insieme tre comunità che non avevano niente a che vedere fra di loro: curdi, sunniti, sciiti.

Solo un dittatore poteva tenere insieme una simile Babele. Questo dittatore, particolarmente sanguinario, Saddam Hussein, noi occidentali, americani in testa, per anni lo abbiamo foraggiato fornendogli anche le famose "armi di distruzione di massa", in funzione anticurda e soprattutto antisciita e antiiraniana. Poi un giorno abbiamo deciso che anche Saddam era diventato impresentabile ed è stata la seconda guerra del Golfo.

Giustiziato Saddam abbiamo instaurato in Iraq una pseudo democrazia, ma poiché gli sciiti sono la stragrande maggioranza, il 62%, abbiamo di fatto consegnato questo Paese all'Iran sciita che di quello iracheno è confratello. Così dopo un quarto di secolo di politica antiiraniana, gli americani sono riusciti nell'impresa di offrire su un piatto d'argento agli ayatollah quello che gli avevano impedito di prendere con le armi quando nel 1985 stavano per conquistare Bassora.

Afghanistan.
Dopo undici anni di occupazione, a furia di bombardare le aree tribali afghano-pachistane alla caccia del Mullah Omar e degli altri leader della guerriglia abbiamo svegliato il talebanismo pachistano che è molto più pericoloso di quello afghano.

Perché i talebani afghani si interessano solo del proprio Paese, quelli pachistani, inseriti all'interno di una potenza regionale, hanno una visione più internazionale e mire più ambiziose (ed è molto probabile che nel commando che ha agito a Bengasi ci fossero elementi pachistani, della rete-Haqquani che è in contrasto col Mullah Omar perché mentre questi, dopo undici anni di resistenza, vorrebbe arrivare a un accordo e a una pacificazione nazionale, gli Haqquani vogliono radicalizzare ulteriormente la lotta anche con azioni efferate sui civili da sempre proibite da Omar).

Il secondo motivo è ancora più inquietante. Se anche il Mullah Omar riconquistasse il potere, l'Afghanistan armato com'è in modo antidiluviano, non costituirebbe un pericolo per nessuno. Se i talebani pachistani prendessero Islamabad sarebbero cazzi acidi. Per tutti. Perché il Pakistan, oltre a essere armato in modo moderno, ha l'Atomica. Così per inseguire un pericolo immaginario ne abbiamo creato uno terribilmente reale.

PENSIERI E MEMORIE DI UN LUPO AZZURRO. PRESENTAZIONE A CASAGGì...



Memorie e pensieri di un lupo azzurro è la raccolta delle idee e dei ricordi attraverso cui Giangualberto Pepi ripensa alla propria vita e alla società attuale. "Lo scopo che chi ha scritto queste pagine si è prefisso è quello di dimostrare che ancora esiste qualcuno che si stacca dal coro uniforme e globale del mondo moderno. In un mondo massificato e ugualitario rivolto verso il basso anziché rivolto all'alto principio solare divino, in un mondo in cui tutti sono uguali quantomeno a parole, in un mondo in cui il modo di vivere è identico e in cui tutti ricercano gli stessi fini e gli stessi bisogni, in un mondo efFImero in cui l'umanità cerca solo il denaro e il successo, in un mondo in cui la materia prevale sullo spirito, in un mondo in cui il concetto di meritocrazia e di elevazione verso l'alto non esiste più, in un mondo in cui le identità nazionali con i loro mores maiorum vanno definitivamente sparendo, in un mondo in cui il concetto di Patria e di stirpe viene demonizzato, l'Autore ha sentito l'impellente necessità di scrivere questa sintesi di pensieri e memorie per dimostrare che nel mondo vi sono ancora persone che non portano il cervello all'ammasso e sono capaci di seguire una strada del tutto diversa da quella percorsa dall'umanità globalizzata. 

Ne parliamo con l'autore, il fiorentino Giangualberto Pepi, a Casaggì.
GIOVEDì 4 OTTOBRE ORE 21.30
VIA FRUSA 37 - FIRENZE STADIO

mercoledì 19 settembre 2012

Roma: distrutta la lapide in onore di Paolo di Nella


Riportiamo una notizia che non è certamente passata inosservata. L'antifascismo militante, ancora una volta, ha dimostrato di saper raggiungere vette di subumanità altrimenti inesplorate. Prendere a martellate la targa commemorativa in memoria di ragazzo ucciso mentre affiggeva un manifesto è l'apoteosi della vigliaccheria e del degrado umano, segno evidente dell'assenza totale di una coscienza.
Alcuni vandali hanno rotto con una martellata la targa commemorativa di Paolo Di Nella, giovane militante di Fronte della Gioventù morto nel 1983 dopo una settimana di coma in seguito ad un colpo di spranga. Il gesto è stato denunciato dal presidente della Giovine Italia di Roma Cesare Giardina. “Per l’ennesima volta la nostra città ha dovuto subire ad un atto di violenza gravissimo la notte scorsa nel Parco di Villa Chigi – ha dichiarato Giardina -. Paolo era un ragazzo come noi che ogni giorno donava la sua giovinezza all’impegno politico e al servizio dell’altro. E’ stato ucciso mentre attaccava dei manifesti per la riqualificazione di Villa Chigi”.

“Ieri una scritta ingiuriosa e offensiva contro i morti di Acca Larentia, oggi la targa commemorativa di Paolo di Nella spezzata a martellate – ha commentato il Sindaco Gianni Alemanno - la nostra città non si merita questi brutti segnali di odio politico e intolleranza, resi ancora più detestabili dal fatto che si rivolgono contro la memoria dei morti, per i quali, al di là di ogni credo politico, deve essere sempre portato rispetto. Nella veste di primo cittadino desidero inviare la mia solidarietà alla famiglia di Paolo di Nella, vittima di una stagione di violenza politica che non deve più tornare. L’armonia sociale e la corretta dialettica politica si formano anche attraverso il ricordo e il riconoscimento degli errori del passato”.

martedì 18 settembre 2012

Sulla storia a senso unico hanno innalzato un muro invalicabile



Rassegnatevi, una memoria condivisa è «impossibile». Lo dice Luca Telese, autore di “Cuori neri”, libro che ha tentato di ricostruire (seppure parzialmente) la storia dei ragazzi della destra morti negli anni di piombo. Rassegnatevi. E se non ci credete, provate a leggere quel che dice Giampaolo Pansa. Passato da mostro sacro del giornalismo a reietto (o peggio venduto) dell’informazione italiana dopo “Il sangue dei vinti”, un milione di copie, primo sasso nello stagno della storiografia degli ultimi vent’anni. Un revisionista, al pari o peggio di Renzo De Felice, del quale ospitiamo un ricordo personale di Luciano Garibaldi. Fu lui il primo bersaglio del mondo accademico antifascista. Quel De Felice che di destra non era mai stato, ma che aveva semplicemente tentato di fare il suo mestiere, quello di storico, magari raccontando il fascismo e Benito Mussolini in maniera asettica, scevra da condizionamenti ideologici. Un illuso, perché in Italia, come spiega lo stesso Pansa, «è inconcepibile l’idea di una storia che dia una qualche legittimità ai vinti».

Un muro dell’informazione e della storia a senso unico che non può essere buttato giù in tempi brevi. Al massimo si può tentare di graffiarlo, di scalfirlo appena. Basti pensare a un bilancio provvisorio degli ultimi quindici anni in cui la destra, sebbene a intermittenza, è stata al governo. Il risultato? A livello di produzioni di impatto sul grande pubblico, un paio di fiction (“Il cuore nel pozzo” e appunto “Il sangue dei vinti”) che hanno fatto quasi gridare all’operazione di regime gli antifascisti militanti. Opere decisamente minori, sia a livello artistico che a livello storiografico. Che hanno avuto l’effetto di scontentare tutti. Incluse le associazioni degli esuli, secondo i quali la fiction sulle foibe era risultata addirittura insultante nei confronti delle vittime. E i partigiani titini, ve li ricordate? Non venivano mai chiamati comunisti. Piccoli particolari.

Rassegnatevi. Lo dice a modo suo anche Pietrangelo Buttafuoco, autore del best seller “Le uova del drago”. Con i premi e le recensioni entusiastiche come ricorderete incassò pure la patente di scrittore filo-nazista. Almeno la narrativa, ha spiegato Buttafuoco «è zona franca». Un ragionamento che verte su un curioso paradosso: il libro politicamente scorretto ha un accoglienza migliore di un libro che ha pretese di correttezza storica. L’esempio in tal senso è incarnato da Nicola Rao, il quale sugli anni di piombo e la destra ha realizzato per Sperling & Kupfer delle documentate ricostruzioni giornalistiche e storiche (su tutte “Il piombo e la celtica” e “La fiamma e la celtica”). 

Come è stata liquidata la sua rigorosa operazione storiografica? Anche su quotidiani “indipendenti”, l’autore è stata etichettato come «giornalista di note simpatie di destra». Come liquidare una seria operazione giornalistica di un professionista in due parole. Provate a cercare in libreria qualche libro che parla di quegli anni scritto da un ex redattore dell’“Unità” o del “manifesto”. Non troverete mai una recensione sul “Corriere della Sera” o su “La Stampa” che lo liquida come un «giornalista di note simpatie di sinistra». 

Forse perché quello stesso recensore di via Solferino o del giornale della Fiat ha iniziato lavorando nel quotidiano del Pci o nella redazione di via Tomacelli. Insomma, la logica è la stessa che inquadrava le Brigate rosse come risposta alla strage di Piazza Fontana. Che dipingeva i brigatisti «compagni che sbagliano». E le foibe «una risposta alle stragi fasciste».

Rassegnatevi. Una storia condivisa, almeno nell’anno 2012, è ancora lontana.


di Valter Delle Donne (Secolo d'Italia)

lunedì 17 settembre 2012

Un tè alla menta a casa di Evola


Pubblichiamo un articolo di Ugo Franzolin, scomparso una settimana fa, tratto dal libro “Gli articoli di Evola sul Secolo d’Italia. 1953-1964”, edito dalla Fondazione Evola e curato da Gianfranco Lami.

di Ugo Franzolin (articolo tratto da IL SECOLO D'ITALIA)

Con il congresso di Pescara nel Movimento Sociale Italiano del giugno 1965 vi furono i cambiamenti al vertice. Vinse il congresso Arturo Michelini, uno dei fondatori di quel partito, nato alla fine del 1946. In precedenza Michelini aveva comprato il quotidiano fiancheggiantore del movimento, Il Secolo d’Italia, proprietà del senatore Franz Turchi, suo fondatore.

Ne era il direttore dal 1964, ma fu chiamato a dirigerlo politicamente Nino Tripodi, un altro dei primissimi del Movimento Sociale, un intellettuale che si era segnalato tra i giovani più promettenti negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, avvocato e – negli anni Cinquanta – parlamentare. Chi però confezionava materialmente il giornale e aveva quindi stretto rapporto con la redazione, era Cesare Pozzo, giornalista professionista, qualche anno dopo, senatore.

Un giorno Michelini mi chiama. Ero stato assunto al Secolo nel momento in cui il Meridiano d’Italia dove lavoravo aveva sospeso le pubblicazioni per trasferirsi da Milano a Roma. Mi avevano affidato la terza pagina che curai fino al 1967 quando passai al quotidiano La Luna. Una pagina tradizionale, in più, una o due volte la settimana, una pagina monografica, letteratura, pittura, musica e storia.

“Ho qui un articolo di Evola”, mi dice Michelini, “scriverà per noi”. “Acquisto eccellente“, gli dico io, “un pensatore affascinante”, butto lì. Guardo Michelini, che mi guarda di sottecchi. “Sì, certo”, commenta, “ma io leggo i gialli, quando vado a letto la sera, prima di dormire e ho la testa piena delle cose che domattina dovrò fare, come, ad esempio, mandare i soldi alle federazioni, soldi che non ho e devo rifilare qualche balla per tirare avanti”.

Di Julius Evola, a dire la verità, non è che ne sapessi molto. Anzi, diffidavo un po’, come tutti quelli per i quali il fascismo, come nel mio caso, è stato prima un fatto di provincia – le realizzazioni – poi un fatto di guerra, “il sangue contro l’oro”, un semplificare che farebbe trasalire un intellettuale. 

Dopo quattro o cinque articoli pubblicati come elzeviro, Evola mi invitò a casa sua per un tè. Abitava a Corso Vittorio.
Molto cordiale. Aveva un grave disturbo alla spina dorsale. Stava sempre seduto in poltrona. Gli feci visita quattro o cinque volte. Non so se gli interessassi. Forse sì, ma perché non avevo quasi niente delle sue letture, perché la mia testa, dopo cinque anni di guerra sui fronti e un anno di galera a San Vittore, era piena di immagini più che di speculazioni sottili.
Il tè era squisito. Glielo dissi. “Aggiungo foglioline fresche di mentuccia”, commentò, “e qualche fiore essiccato di ibisco, addolcendolo, come vede, con zucchero di canna, un dono che amici mi mandano dalla Germania”.

Mentre si sorseggiava il tè, Evola parlava, parlava. Aveva una voce bassa, musicale, due occhi che indagavano. Mi sembrò di capire che avesse studi esoterici, un’altra novità per me, sempre tenutomi lontano da esplorazioni misteriose, più amante dell’uomo che fa, spacca tutto, magari, ma che non sta lì a interrogare l’arcano, o vola in spazi siderali.

Un giorno, mentre Evola mi parlava della Parigi delle avanguardie nella quale viveva, qualcuno citofonò. Una signora che si occupava delle cose domestiche, venne a dire che un ragazzo chiedeva di salutare. Disse il nome, Adriano.

Entrò un giovane, poco più che ragazzo. Aveva una sua composta eleganza, un tratto signorile. Alla presentazione seppi che era il figlio di Pino Romualdi, che mi onorava della sua amicizia, conosciuto a Milano, vicesegretario del Partito Fascista Repubbicano. Conversammo un po’, ma dopo una decina di minuti dovetti salutare e andarmene perché mi aspettava il solito lavoro al giornale.

Prima di congedarmi invitai Adriano a collaborare alla mia pagina. Volevo ospitare dei giovani, voci nuove. Così fu, infatti. Diventammo amici. Io do del tu volentieri ai ragazzi, mi è più facile parlargli, e se loro fanno altrettanto, la cosa mi fa piacere. Eppure con Adriano ci fu sempre di mezzo il lei, anche se il rapporto era cordiale, affettuoso da parte mia e, oso credere, anche da parte sua.

Era preparatissimo, riflessivo, sempre disposto a riesaminare un concetto, ma con dei punti fermi, che erano ormai miei. Gli chiesi di Evola. “Sa”, gli dissi introducendo il discorso, “mi sembra un mago”. Adriano si mise a ridere. “Un po’ lo è”, rispose, “nel senso che sa sublimare intuizioni rare, al limite della visione onirica, il percorso misterioso della vita”.

Ricordo con rimpianto quel tempo. Evola è morto, Adriano, ancora giovanissimo, ci ha lasciati in situazioni tragiche, sul ciglio di una strada, dopo un incidente. Perché rimpianto? Ma perché allora, anche se da posizioni intellettuali diverse, per un proprio carattere, una propria storia personale era bello vivere, essere in attesa di un evento. Utopisti? Forse, ma la nostra utopia non era la carta di credito, o il telefonino, o la curva sud. Eravamo in attesa, ecco, ripeto. In attesa? Sì, certo, che i sentimenti tornassero.

Un giorno Evola mi disse: “Sa, la strada è lunga, interminabile”...

domenica 16 settembre 2012

Se il popolo non ha pane...


di Gabriele Marconi

Gli americani, almeno, fanno finta di santificarla, la volontà popolare. E lo fanno con tutti i crismi hollywoodiani del metodo Stanislavskij: «approfondimento psicologico del personaggio da interpretare, ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore, esternazione delle emozioni interiori attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo». Quando parla al popolo, un presidente Usa fa così. Poi, vabbè, si farà pure gli stracavoli che gli pare ai danni di mezzo mondo (e a volte gli si ritorce contro, come l’altro giorno a Bengasi), ma lo dice bene. Tanto bene che quasi quasi ti viene voglia di abbracciarlo. Vuoi mettere?

Noi del Vecchio continente invece siamo più arretrati, e i nostri leader sono ancora… come dire… un po’ rustici. Prendete Monti, che davanti al dilagare delle proteste dichiara che è stupito e triste per “l‘ingerenza dei popoli” nelle scelte che lui e suoi algidi colleghi europei stanno mettendo in opera per affrontare la crisi economica. Come a dire: ma di che s’impiccia questa gente? Di che si lamenta? Roba da “se il popolo non ha pane, che mangi le brioches”. Cose così.

Obama, o chi per lui, farebbe la faccia addolorata, si toglierebbe la giacca e, facendo la fila a una mensa della Caritas, direbbe che le sofferenze del popolo americano sono le sue sofferenze e che farà di tutto per alleviarle… direbbe che “tutti insieme ne usciremo fuori, più belli e più forti che prima”. E lo direbbe benissimo. Tanto bene che quasi quasi ti verrebbe voglia di dare a lui la tua scodella di minestra.

Monti no, ma bisogna capirlo… provate a mettervi nei suoi panni, poveraccio. Quando Napolitano gli ha detto “fai tu”, l’aveva forse avvertito che ci sarebbe stato da render conto a qualcuno? Che diamine, Monti non è come un volgare eletto, è uno sobrio, abituato a lavorare in pace. Se alla Goldman Sachs t’affidano un incarico mica ti ritrovi l’ufficio invaso da operai e minatori che sporcano la moquette! Non oso pensare a cosa potrebbe patire, misero, se qualcuno arrivasse a stropicciargli il loden.

Qualche giorno fa il mio amico Ferdinando, parlando dell’arrivo dei tecnocrati, ricordava che in altri tempi ci fu chi s’immolò nel fuoco per denunciare al mondo un’altra occupazione. Un’occupazione violenta, con i carri armati che schiacciavano i manifestanti. Oggi a schiacciare sono gli ingranaggi del Mercato e l’occupazione non è quella sovietica ma quella della finanza internazionale. L’indifferenza verso la sofferenza dei popoli, però, è lo stessa. Uguale è l’insofferenza per chi si ostina a non accettare i metodi degli occupanti. Mi ricorda la maglietta che indossava un ragazzo inglese, tanti anni fa: c’era il disegno di due individui, uno al posto della testa aveva la falce-e-martello, l’altro il simbolo del dollaro… la scritta diceva “The deadly twins”, i gemelli mortali.

Oggi i gemelli hanno figliato, e il frutto di tanto incesto è immensamente più subdolo e potente dei genitori. E il suo più grande alleato è la disillusione.

sabato 15 settembre 2012

Quando il capitalismo fagocita se stesso


Tratto da Azione Tradizionale

Il capitalismo non è nient’altro che l’individualismo fattosi sistema economico e filosofia di vita. E, come tale, è ingordo e ottuso come solo un perfetto individualista può essere. Così, diventa una cosa perfettamente normale che l’Arabia Saudita - uno dei primi produttori al mondo di petrolio - abbia una popolazione che consuma quantità eccessive di petrolio, finendo così costretta ad importarlo. Un pò come se gli eschimesi finissero costretti ad importare il ghiaccio!
Lo studio di Citigroup Troppo capitalismo (.’Arabia sarà costretta a importare petrolio È il primo Paese esportatore di greggio ma ogni saudita ne brucia il doppio di un americano e il triplo di un italiano. Dal 2030 l’Arabia Saudita sarà costretta a importare petrolio: lo afferma un rapporto di Citigroup da ben 150 pagine. Non sarebbe la prima volta che un grande esportatore di greggio si trova davanti a una tale evoluzione. Gli stessi Stati Uniti, ad esempio, dopo aver tolto attorno al 1920 alla Russia il ruolo di primo produttore mondiale lo persero dopo la Seconda Guerra Mondiale a favore del Medio Oriente, e dal 1952 perse anche quell’autosufficienza energetica che tenta ora affannosamente di recuperare a colpi di nuove tecnologie su bioetanolo, gas di scisto, piattaforme off-shore e rinnovabili. La Romania, col cui carburante marciarono le divisioni corazzate tedesche nella Seconda Guerra Mondiale, raggiunse il picco di produzione nel 1976 e divenne importatore dal 1979, L’Indonesia, che per ragioni analoghe nella stessa Seconda Guerra Mondiale fu un obiettivo strategico del Giappone, divenne importatrice nel 2008, decidendo dunque di uscire dall’Opec. Nel caso di Indonesia e Romania, però, si è trattato di esaurimento, anche se c’è la speranza che anche lì le nuove tecnologie possano ora favorire la scoperta di nuovi giacimenti. In quello degli Stati Uniti, è stata una crescita demografica e economica particolarmente consumatrice di energia a rendere insufficiente una produzione che di per sé rimane comunque abbondante. L’Arabia Saudita, invece, con i suoi 28.376.355 abitanti, ha appena lo 0,5% della popolazione mondiale, mentre i 260 miliardi di barili delle sue riserve provate corrispondono al 20% di tutto il greggio oggi conosciuto nel pianeta. La produzione di 11 milioni di barili al giorno rappresenta il 16% del totale mondiale, e gli 8,9 milioni esportati ne fanno il primo esportatore mondiale. Dal petrolio in Arabia Saudita dipende i145% del Pil, 1175% delle entrate dello Stato, i190% dell’export. Abbiamo ricordato che le nuove tecnologie stanno rivoluzionando il panorama della produzione mondiale, ma ora come ora il quadro è tale che se davvero l’Arabia Saudita dovesse importare petrolio, non ci sarebbe più a chi chiederlo. Come sarebbe possibile una catastrofe del genere? In effetti non si tratta di una previsione apodittica ma di una semplice proiezione: se continuerà l’andazzo attuale, dice il rapporto, entro 18 anni all’Arabia Saudita non basterà più la sua produzione. Ciò non per particolari boom demografici o economici, come è accaduto negli Usa, ma semplicemente perché i sauditi stanno sprecando l’energia a un ritmo che rischia di non essere sostenibile. Con 2.817,5 milioni di barili consumati ogni giorno nel 2011, l’Arabia Saudita è già oggi il sesto consumatore di petrolio al mondo: dietro a colossi demografici come Stati Uniti, Cina, Giappone, India e Russia, e davanti a Brasile, Germania, Canada, Corea del Sud, Messico, Francia, Iran, Regno Unito e Italia. In termini pro capite, significa che ogni saudita consuma 40 barili di petrolio all’anno: contro i 24,6 di un canadese, i 21,8 di uno statunitense, i 16,8 di un sud-coreano, i 12,8 di un giapponese, i 10,7 di un tedesco, i 10,5 di un francese, i 9,5 di un inglese e gli 8,9 di un italiano. Come si arriva a un tale sproposito, malgrado una base industriale minima? Ad esempio, pompando petrolio a tutto volume per far funzionare gli impianti di aria condizionata. Rappresentano i due terzi di un consumo domestico di elettricità, che sta crescendo a ritmi dall’8% all’anno, e che assorbe i150% della domanda. Spettacolare è anche il consumo di acqua, che con 250 litri per capite all’anno è il terzo del mondo. Come gli italiani col miracolo economico ingrassarono senza ritegno per saziare una fame secolare, anche i discendenti dei beduini stanno evidentemente esorcizzando ataviche penurie trasformandosi in idrovore umane, grazie agli impianti di desalazione del mare che a loro volta assorbono greggio in quantità. Su tutto, spiega molto anche il prezzo della benzina al distributore: 15 centesimi di euro al litro. Già nel 2009 d’altronde il canadese Jeff Rubin nel suo libro tradotto in italiano col titolo Che fine ha fatto il petrolio? aveva avvertito che una mina vagante dell’economia mondiale era appunto il grande spreco di greggio a prezzi politici nei Paesi produttori. *** • 16% della produzione mondiale di petrolio • 11 milioni di barili al giorno • 8,9 milioni barili esportati • 260 miliardi di barili di riserva • 0,5% quota popolazione saudita rispetto a quella mondiale • 8% crescita annua domanda elettricità (quindicesimo al mondo) • 50% quota di uso residenziale della domanda • 250 litri di acqua consumati all’anno per persona (terzi al mondo) • 15 centesimi, prezzo benzina al distributore ReAbdallah.

La benzina in Arabia Saudita costa appena 15 centesimi al litro, un pieno costa 5 euro. Ma c’è da credere che in futuro, con i ritmi attuali, le cose cambieranno.

venerdì 14 settembre 2012

E dopo Monti…Monti! Perché Monti resterà al potere



 


di Marcello Foa (Il Giornale)

Trovo abbastanza stucchevole il dibattito sulla possibile permanenza di Monti al governo e ridicole le affermazioni di molti leader partitici (di sinistra e di destra) sulla necessità di rispettare la sovranità popolare. Il Monti-bis è scritto nelle stelle.

Analizziamo con calma la situazione: se si andasse a votare oggi non ci sarebbe una chiara maggioranza. Il Pd-Sel arriverebbe probabilmente primo ma con un marginerisicato che non gli permetterebbe di ottenere la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il Pdl arriverebbe secondo ma a poca distanza, poi quel che resta del Movimento 5 stelle di Grillo (l’opera di demolizione è iniziata qualche settimana fa, condotta sia dalla destra che dalla sinistra e costerà a Grillo e al suo guru Casaleggio alcuni punti percentuali), e a seguire Casini, quel che resta della Lega, probabilmente Di Pietro. Ne risulterebbe un Parlamento frastagliato e deludente agli occhi dei cittadini, perché composto da partiti di cui gli italiani diffidano o da movimenti di protesta, come quelli di Di Pietro, della Lega, di Grillo, della Sel che però, almeno in parte, hanno perso credibilità e appeal.

A quel punto il PdL potrebbe tentare una sorta di nuovo Ulivo allargato a Di Pietro e a Casini ma dall’equilibrio molto instabile, in alternativa allearsi o con Casini o con Di Pietro ma ad alto rischio di conflittualità e, verosimilmente, con una maggioranza risicata. Il terzo scenario è il più plausibile.

Vedo già il film: polemiche feroci tra i partiti, disgusto dell’opinione pubblica, spread alle stelle, Borsa giù, giornali che alimentano il panico, appelli accorati dell’Europa, di quel gentiluomo di Draghi e di una Merkel sempre più ottusa. E allora riecco il Salvatore della Patria, San Mario Monti tornare con tutti gli onori a Palazzo Chigi. Per restarci 5 anni e completare un’agenda che non ha mai davvero svelato all’opinione pubblica, ma che è graditissima a un certo establishment internazionale.

A meno che… nelle poche settimane che restano Pd e Pdl riescano ad approvare una riforma elettorale convincente, tale da garantire una maggioranza stabile, mentre, con un colpo di scena, le vecchie guardie capiscono di dover fare un passo indietro per lasciar spazio a candidati giovani, credibili, ottimisti; usciti dalla società civile o perlomeno non compromessi con la vecchia politica. Leader dalla faccia pulita, capaci di risollevare speranze ed entusiasmi e dunque rispondere alla domanda di cambiamento condivisa, con impeto e sdegno, dalla maggior parte degli italiani moderati. Come nel ’91. 

Ma nessuno oggi, contrariamente a quegli anni, riesce a interpretare questo sentimento. I partiti sono ciechi, sordi, immersi nel loro mondo, non si rendono conto che si stanno distruggendo da soli. E così fanno il gioco di Mario Monti.
Gli italiani non li ringrazieranno…

giovedì 13 settembre 2012

Il sonno dell'Occidente genera mostri



di Marco Valle (Secolo d'Italia)

Il capolavoro di George Orwell, “1984”, non è solo un libro — riprendendo il giudizio di Emilio Cecchi — di una tristezza disperata, ossessiva, oppure la definitiva condanna d’ogni forma di totalitarismo e il rifiuto d’ogni utopia “buonista”, progressiva e progressista. “1984” è anche e soprattutto un allarme e un monito. Un avvertimento. Purtroppo, dai più, ignorato oppure rimosso. Come un pensiero fastidioso, un brutto sogno, un cattivo presagio.
Eppure non mancano analogie tra questa “società liquida”, senza forma e senso, e la tetra Londra orwelliana. Certo, non vi è un “Grande fratello” ad indirizzare ogni istante della vita degli individui ma — come ci avverte Roger Scruton — ogni giorno siamo afflitti dalle direttive di un informale quanto pedante “Ministero della Verità”. Un organismo potente che ad ogni violazione dei dogmi del “nuovo ordine morale” scatena immediatamente le sue “settimane dell’odio”…
Non è quindi un caso che solo poche coraggiose voci si siano levate — sia in Francia sia nel resto di quest’Occidente disperato — a contestare l’ultima campagna di “pulizia” della sezione parigina della “psicopolizia” mondiale. Si tratta de “l’affaire Richard Millet”, un linciaggio mediatico contro uno scrittore affermato, membro del glorioso comitato editoriale di Gallimard, vincitore di un premio all’Académie Française e, sino a ieri, influente protagonista del “Goncourt”, il massimo concorso letterario francese. La sua colpa? Scrivere cose sgradite ai custodi del pensiero “politicamente corretto” e avere successo. Due fattori imperdonabili — intrecciate tra loro l’ottusità e l’invidia possono devastanti…— per i guardiani del multiculturalismo e le vestali dell’antirazzismo.
Ma andiamo per ordine. All’inizio dell’estate Millet presenta il suo nuovo saggio “Langue fantome”; in coda al libro un piccolo saggio, una ventina di paginette intitolate “Eloge littéraire d’Anders Breivik”, una lettura provocatoria sulle motivazioni che armarono il pazzo omicida norvegese. L’autore non simpatizza, non scusa, non cerca attenuanti al mostro, ma offre una visione inquietante, terribile della mattanza di Utoya. Accanto a Breivik e le sue follie — un impasto confuso di suprematismo nordico, neonazismo da operetta, cazzate massoniche e cattive letture bibliche — sul banco dell’accusa Millet inchioda anche l’intera società europea, le sue manie, le sue debolezze. Utoya dunque come simbolo tragico e sconveniente del “tramonto dell’Occidente” e della prossima vittoria dell’Islamismo; Utoya come capolinea di un complesso sociale decadente, nihilista, vinto; Utoya segno finale di una tradizione inaridita e di una religione — almeno nella sua versione protestante — spenta e ormai degradata a mero filantropismo.
Troppo per il piccolo mileau della “Rive gauche”. Troppo per Bernard Henry Levy e per i suoi petulanti seguaci. Ecco allora l’appello — o l’ultimatum? — firmato dal solito torpedone d’intellettuali ad Antoine Gallimard, il patron della casa editrice, in cui si richiede la cacciata del reprobo dalla Maison. Come può, si chiedono le “sentinelle dell’umanità”, un “islamofobico” dirigere la casa editrice di Proust e Gide, di Camus e Genet? Via, via subito, immediatamente. Nessuna pietà anche perché, aggiunge BHL, il sulfureo pamphlet è solo l’ultima goccia: Millet non ha mai nascosto la sua militanza giovanile nella “Falange libanese”, le sue perplessità sull’immigrazione, la sua passione per Céline (e, purtroppo, per la Fallaci…) e il suo fastidio verso “la gauche caviar”. E poi, come perdonare il suo sodalizio con un editore “non allineato” come Pierre Guillaume de Roux, il figlio di Dominique de Roux, il grande scrittore di destra, autore di un capolavoro come “Le Cinquiéme empire”, un’elegia del miglior colonialismo? Come il padre, scomparso nel 1977 dopo aver fondato “Les Cahier de l’Herne” e le edizioni “L’Age d’Homme”, Pierre Guillaume non ama (ricambiato) gli ambienti conformisti e preferisce editare in piena libertà. La mela, insomma, non è caduta lontana dall’albero.
Per fortuna Monsieur Gallimard è un uomo solido e non si fa intimidire. Agli inquisitori che chiedevano la testa del suo “editor” ha risposto che «Millet è un professionista di qualità e le sue convinzioni personali non hanno mai inficiato il lavoro». Come previsto il diniego ha rilanciato con ancor maggior astio il dibattito al punto che persino il paludato “Le Monde” si è interrogato su quali diritti possa vantare un “razzista” come Millet. Insomma, in nome dell’antirazzismo si può, impunemente, discriminare, silenziare, colpire. Magari uccidere.
Tuttavia qualcuno ha trovato la voglia e il coraggio di reagire. In primis, Bruno de Cessole, prima penna de “Le Figaro” si è schierato a difesa di Millet. «Ciò che colpisce in questo caso», ha sottolineato il critico, «è notare come nessuno dei suoi critici stalinisti abbia veramente affrontato il testo incriminato. Per esempio, in che misura il massacro di Breivik è la conseguenza della politica migratoria norvegese? Ricordiamo, con Levi Strauss, che in tutte le società esiste una soglia di tolleranza, un limite estremo da non valicare, pena reazioni aggressive. Millet, insisto, condanna il gesto dell’assassino e lo considera il sintomo estremo della decadenza e del lassismo occidentale ma ha usato termini e formule oggi imperdonabili».
Sul settimanale “Valeurs Actuelles” è intervenuto François Bousquet. Con durezza. «Il comunismo è morto a Est, ma è stato sostituito all’Ovest dall’antirazzismo che Alain Filkielkraut a definito “il comunismo del XXI secolo”. Per il filosofo si tratta di una filiazione del trotzkismo, il sogno di costruire una società senza discriminazioni né frontiere, un mondo d’agnelli. Una vera fiaba. Altri ne hanno fatto, come ricorda Léon Poliakov, una religione: “l’antirazzismo dogmatico”». Più rude e scanzonato Gabriel Matzneff che in un’intervista a “Il Foglio” — con il solito coraggio Giuliano Ferrara non ha avuto esitazioni nello schierarsi con Millet — liquida la questione come «una stronzata megagalattica. È un’altra forma di vigliaccheria dell’intellighenzia francese, sempre in ginocchio di fronte alla moda e di fronte al prossimo vincitore della battaglia che è sotto i nostri occhi».