martedì 12 febbraio 2013

Come uscire dalla solitudine



















di Claudio Risè

La sofferenza più diffusa oggi? La solitudine. Un disagio che ne crea molti altri, anche gravi. Spesso comincia presto, anche prima di nascere, dalla faticosa ricerca di uno scambio armonico tra madre e figlio.

Oggi i bambini affetti da disturbi della comunicazione (dalle dislessie all’autismo), sono sempre più numerosi. Sono, o si sono sentiti, soli. Sono bimbi sensibili, e il loro disturbo è la metafora della malattia del tempo: solitudine e difficoltà a comunicare ciò che si sente.
Le cronache lo ricordano in continuazione: dalle vite difficili di molte star, a quella perdute delle cronache quotidiane di giovani o vecchi trovati abbandonati in fondo a un cortile, o in un appartamento chiuso. O il professionista famoso che si tira un colpo nel suo super studio, in pieno centro.

La solitudine è la grande sfida con la quale si deve confrontare l’uomo oggi. Da dove nasce? Il fatto è che l’uomo è un essere sociale, vive e si sviluppa comunicando con gli altri. Per comunicare, però, ha bisogno di appartenere a qualcosa in cui si possa riconoscere. Un territorio, una comunità, un gruppo. E una famiglia. Nel giro di pochi decenni molte di queste cose si sono squagliate, o quasi. I territori sono esplosi sotto sviluppi enormi, o si sono svuotati per l’abbandono dei loro tradizionali abitanti.

Questi cambiamenti hanno poi stravolto e per solito dissolto le comunità tradizionali. Anche i gruppi nei quali le persone si identificavano, a cominciare dalle classi sociali, con le loro specifiche e diverse culture, si sono liquefatti e confusi.

Qualcosa del genere sta anche accadendo nel campo della famiglia, creando confusioni, difficoltà, e spesso traumi a cominciare dal fondamentale e delicatissimo rapporto madre-figlio. Senza relazioni autentiche, senza vere identificazioni, l’uomo è solo.

E’ una situazione difficile, ma dalla quale si può uscire. E’ necessario però evitare che cada nel suo polo oscuro, e diventi isolamento.

Il bambino è solitario (oltre che, spesso, per una naturale introversione) per difendersi da stimoli, rumori provocazioni, che disturbano il suo sviluppo affettivo e cognitivo. Per un periodo preferisce rinunciare ad avere comunicazione e relazioni più intense con gli altri. Deve però trovare dei ponti che riaprano la comunicazione con l’esterno: familiari, compagni, amici.
Lo stesso deve accadere all’adulto che, per ragioni diverse, è caduto (o ha momentaneamente scelto) la solitudine. Occorre evitare che si isoli, e venga isolato, dal resto del mondo.
Non si tratta solo di un problema psicologico, o di cura. E’ un problema sociale. Le statistiche dei disturbi psichiatrici, in continua crescita, ci parlano anche di questo. Occorre trovare delle soluzioni perché la crescente solitudine delle persone non diventi isolamento. Come fare?

Qualcosa si comincia a vedere dalle modifiche del tessuto sociale delle città. I quartieri, spesso proprio quelli più in difficoltà (come Sanità o Stella a Napoli) cercano autonomamente di darsi luoghi di incontro, blog, momenti di discussione, di elaborazione culturale, di mutua assistenza. Avranno le loro fatiche e contraddizioni, ma è da lì che bisogna partire: dai nuclei elementari di convivenza.

Caseggiati, quartieri, piccole e grandi comunità. E naturalmente famiglie. Occorre ricostituire reti di comunicazioni personali, autentiche, ora annegate nella società apparentemente “liquida”, ma in realtà dura e impersonale degli ultimi decenni. Situazioni con le quali i giovani possano identificarsi non per una sera di sballo, ma per un’appartenenza reale, quotidiana. Per costruire una vita.