mercoledì 20 febbraio 2013

Karen, la guerra segreta in Birmania


















di Fabio Polese

Combattono per l'indipendenza della loro regione. I militari li hanno quasi sterminati. Un anno di violenze.

Una candela accesa dentro la piccola capanna illumina la notte piovosa. L’umidità della giungla penetra nelle ossa, mentre la temperatura scende inesorabilmente ora dopo ora. Il soldato con il viso pulito e i denti macchiati di rosso che strimpella su una chitarra, però, sembra non accorgersene.
Si chiama Say Thoo, ha 31 anni e si è arruolato sette anni fa volontariamente nell’Esercito di liberazione Karen (Knla). La sua è una storia come molte altre: viveva a Rangoon, la capitale della Birmania ma, finite le scuole, è tornato nella terra dei suoi avi per lottare per il futuro del suo popolo. Nella guerra più lunga di sempre.
KAREN IN LOTTA PER SOPRAVVIVERE. Non ne parlano i media, tacciono gli attivisti. Si combatte nella giungla della Birmania orientale, al confine con la Thailandia, tra montagne e vallate che ancora non conoscono la modernità.
È qui che vivono i Karen - 7 milioni di persone circa su 48 milioni di popolazione - che dal 1949 lottano per la propria sopravvivenza fisica e culturale.
NEL PAESE UN CENTINAIO DI ETNIE. La Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, è infatti composta da un centinaio di etnie forzatamente inglobate durante il periodo coloniale inglese, nel XIX secolo.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, fu sancito un trattato post coloniale che avrebbe permesso al mosaico etnico birmano la costituzione di diversi Stati federali. Ma il trattato non è mai stato osservato da Rangoon. E, anzi, nel 1962 la giunta ha espressamente dichiarato l’intenzione di eliminare le «identità culturali e politiche non birmane», mettendo al bando nelle scuole l'insegnamento di lingue non nazionali. E anche quella dei Karen è sparita.
SCONTRO TRA SOLDATI E GUERRIGLIA. Da allora, il conflitto tra guerriglieri e militari si è fatto ancora più duro. Portando morte, fuga e disperazione.
«Sono sposato, ma mia moglie sta nel campo profughi thailandese di Umphiem», racconta a Lettera43.it il soldato accettando una sigaretta, senza mai smettere di sorridere. «Un giorno, quando vinceremo, potremo essere finalmente liberi di vivere insieme nel nostro Stato».

Stupro, mine e deportazione sono gli strumenti di lotta delle truppe dell’esercito. Prima dell’elezione, nel 2011, del generale Thein Sein a guida del Paese - l’uomo definito il «Gorbaciov birmano» - gli attacchi ai villaggi erano all’ordine del giorno.
«Chi rimaneva vivo, veniva preso e usato come scudo umano per i successivi attacchi o costretto ai lavori forzati», spiegano alcuni abitanti del villaggio Oo Kray Kee.
Per sfuggire alla violenza moltissimi sono scappati: almeno 500 mila sono i rifugiati interni e 130 mila persone sono finite nei campi profughi thailandesi.
DAL 1981 LA VIOLENZA SULLE DONNE. Chi è rimasto ha sofferto. Nel rapporto State of terror, realizzato dalla Karen women organisation (Kwo), vengono citate le storie di 959 donne che dal 1981 al 2006 hanno subito violenza sessuale da parte di soldati e ufficiali birmani.
Ma è solo una minima parte: secondo l’associazione Karen human right group (Khrg) sarebbero migliaia i casi sconosciuti che non si possono documentare.
IL DRAMMA DELLE MINE ANTI-UOMO. Si contano, e soprattutto si vedono, i segni delle mine antiuomo: nascosti nei sentieri della giunga migliaia di ordigni - la Birmania è uno dei Paesi più minati al mondo, secondo le Nazioni unite - hanno ucciso o mutilato almeno 3 mila persone dal 1999 a oggi.
Saw Min Naing, 30 anni appena compiuti, ha perso la vista nel settembre del 2008. Stava rientrando alla base militare dopo giorni di combattimento a fuoco con l’esercito birmano quando, vicino al villaggio di Klal Lor Sal, è scoppiata una mina. Da quel giorno non ci vede più.
Toe Doh, invece, nella sporca guerra ha perso una gamba, ma imbraccia ancora fiero il suo Ak47 per «difendere il mio popolo dagli attacchi dell’oppressore».
L'AIUTO DELLA ONLUS ITALIANA. Il ritornello è sempre lo stesso, sulla bocca della gente o nella canzone della rivoluzione che strimpella il soldato per scaldare la notte.
Risuona lungo la strada - la «strada della morte», la chiamano da queste parti - che penetra nella fitta vegetazione, tra salite e discese che costeggiano il confine tra Thailandia e Birmania, e conduce, dopo molte soste ai check point dell’esercito thailandese, all’ingresso del villaggio di Oo Kray Kee, ricostruito recentemente dalla Onlus italiana Popoli dopo che l’esercito birmano l’aveva brutalmente distrutto.
«Welcome to Kawthoolei», Benvenuti nella terra senza peccato, accoglie la scritta che campeggia all’ingresso.

La festa per il 64esimo anniversario della Rivoluzione

In questi giorni di febbraio la gente è in festa: si celebra il 64esimo anniversario della Rivoluzione Karen, l’inizio della battaglia.
I soldati in divisa luccicante e guanti bianchi, si radunano nel piazzale della base militare pronti a marciare verso il villaggio, davanti agli occhi dei Karen arrivati da altri villaggi percorrendo vie pericolosissime e accidentate o temporaneamente usciti dai campi profughi thailandesi per assistere alle celebrazioni.
LOTTA PER LO STATO INDIPENDENTE. Sul palco costruito interamente in bambù, incorniciato da un’enorme bandiera dello Stato Karen, si alternano alcuni esponenti della leadership della guerriglia.
«La libertà non è gratuita, bisogna combattere uniti per la nostra autodeterminazione», ripetono senza sosta.
Nerdah Mya, colonnello del Klna, figlio del generale Bo Mya, leggendario leader della lotta armata contro il regime birmano, spiega in cosa consiste la libertà.
«Combattiamo da più di 64 anni. Vogliamo il riconoscimento, da parte delle autorità birmane, del popolo Karen e del nostro Stato», racconta.
L'INUTILE CESSATE IL FUOCO DEL 2012. L’intesa, tuttavia, non sembra vicina. Si è parlato di uno storico «cessate il fuoco» firmato a gennaio 2012 tra l’Unione nazionale karen (Knu), espressione politica dell’etnia, e il governo centrale di Rangoon.
Ma i Karen sono scettici. «Mentre parlano di pace, riforniscono i loro avamposti e attaccano un altro gruppo etnico, i Kachin», a Nord del Paese, racconta David Thackarbaw, ex vicepresidente della Knu, ora vicepresidente dell’Unione delle nazionalità federali (Unfc).
IL DISINTERESSE INTERNAZIONALE. Il tutto nel silenzio internazionale. Dopo le elezioni del novembre del 2010 e dopo la liberazione del Premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, l’illusione di un disgelo birmano cresce, e le multinazionali fanno a gara per accaparrarsi lo sfruttamento del territorio ricco di minerali, finora esclusivamente appannaggio della Cina.
Anche la regione su cui i Karen sperano di far sorgere il proprio Stato è ricco di legname e gas. Ma per loro non è una buona notizia.
«Non vogliamo lo sfruttamento selvaggio del nostro territorio», ribadisce determinato Nerdah Mya.
Un’altra ragione per combattere.