di Annalisa Terranova
Vittorio Brasile è un adolescente inquieto. Perché, per fare politica, devi avere per forza quel certo “rodimento” interiore, se no fai carriera politica, che è un’altra cosa. Vittorio Brasile è il protagonista di Fascistelli (Il Cerchio editore), in uscita proprio oggi, opera prima di Stefano Angelucci Marino, autore teatrale e direttore del Teatro del Sangro a Chieti, che ha voluto raccontare, con un taglio chiaramente autobiografico, l’esperienza di un ragazzo che bussa alle porte del Msi nel 1993 in un piccolo paese della provincia abruzzese.
Vittorio Brasile parte dallo stesso punto esistenziali di tanti: “Sentivo di essere nato in un’epoca che non era la mia”. Si sogna eroe senza macchia, si inorgoglisce di essere paladino della rivolta che spazzerà via la stagnazione democristiana, si autorappresenta come Capitan Harlock solo (o meglio con altri due camerati del liceo) contro tutti. Questo furore di sottofondo lo farà diventare invece soltanto un “fascistello”: tanta passione, tanta ingenuità e un partito ancora appeso tra nostalgie anacronistiche e voglia di sedersi nel palazzo, tra gite a Predappio e tentazione di entrare nel circuito della politica che conta.
In quel polveroso sottoscala che è la sezione del Msi Vittorio Brasile incontra un campionario di varia umanità: il reduce, l’evoliano, i perdigiorno che s’inventano mitiche gesta con le donne e con i compagni, e l’unico consigliere missino che è anche il segretario e che lo accoglie con entusiasmo: “Ma tu vide che bella sorpresa! Lu fije de donna maria… d’altronde, da una famiglia onesta e lavoratrice, non poteva mica uscire nu ricchione, o nu comunista… che poi è uguale!“. Un mondo, appunto, che poteva cementarsi ed esaltarsi col motto “molti nemici molto onore” in anni in cui effettivamente il partito di Almirante doveva lottare per la sopravvivenza ma che, dopo la caduta del Muro, trasmetteva solo un senso rugoso di disfacimento. Vittorio Brasile però non scappa e rimane (anche qui, destino comune con tanti…) perché ci sono i libri, gli autori, le canzoni controcorrente della Compagnia dell’Anello, in pratica “i nostri sogni scassati di fascisti immaginari”.
E però, quando il divario tra immaginazione e realtà diventa troppo forte, il filo si spezza, il finale poco consolatorio è in agguato: “Vi ho amato. Siete ancora gli ultimi, quelli isolati, senza una lira in tasca, ignoranti, casi umani, le carogne del Msi. Vi ho amato. Ho cercato di studiare, di agire, di fare e di pensare pure per voi. Ho cullato per mesi l’illusione di portare il nostro amor di patria da Civitella verso l’Europa. Ho cercato nel mio piccolo di liberarvi dai vecchi schemi. Niente, una battaglia persa“. Il merito di questo romanzo breve non sta solo nella sincerità, che si accompagna alla memoria di un passato non del tutto rinnegato, ma anche e soprattutto nel suo farsi parabola esemplare del destino di tanti Vittorio che hanno bussato alle porte delle sedi del Msi. Volevano cambiare il mondo, o almeno cambiare il partito, gli è andata bene se il mondo non ha cambiato loro.