martedì 28 maggio 2013

L’Ilva e il destino dell’Italia in un mondo industriale globalizzato...



di Leonardo Petrocelli (barbadillo.it)


Ultimamente, le dichiarazioni sul caso Ilva si assomigliano un po’ tutte.Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sulla base di quello che succederà si giocherà il futuro del manifatturiero pesante che connota l’Italia come paese industrializzato avanzato”. Claudio Gemme, presidente dell’ANIE: “La ricchezza e il benessere italiani si sono sempre basati sul manifatturiero. Tutti si impegnino per salvarlo”. Guglielmo Epifani, neosegretario del Pd: “Non c’è motivo per cui il nostro paese, che è ancora il secondo esportatore di manifatturiero, non debba difendere la sua siderurgia”.
In realtà, un motivo c’è e non è nemmeno così misterioso: la globalizzazione ha in serbo per l’Italia un destino diverso. Lo spiegarono benissimo Giuliano Amato e Carlo De Benedetti in un lungo scritto a quattro mani, comparso su “Repubblica” nel settembre del 2004, chiarendo quale sia la più grande possibilità strategica per l’Italia: “È la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare una enorme chance per il nostro Paese”.

Proviamo a tradurre. Il mercato internazionale impone ai suoi attori di impegnarsi nei settori dove essi possiedono un “vantaggio competitivo”, cioè dove realizzano qualcosa che può essere prodotta solo lì o lì meglio che altrove. La logica del “tutti fanno tutto” è bandita. Ognuno fa il suo e, per il resto, si commercia in modo da integrare domanda e offerta, nella certezza che l’infinita intelligenza del mercato aggiusterà tutto: flussi, quantità, prezzi. Dunque, l’Italia farebbe bene a dismettere quel che resta del suo settore manifatturiero, eccellente ma costoso, e lasciare che esso emigri verso altri paesi dove si può fare lo stesso pagando gli operai un pugno di riso e dove nessuno protesta per la diossina e le morti di cancro (l’intelligenza del mercato…). Poco male, perché tanto noi abbiamo il “sole, mare e la buona cucina”, il rosso della Ferrari e di Valentino, il design e le gallerie. E se i francesi ci restituissero la Gioconda saremmo a posto per sempre. La Regione Puglia si è già portata avanti col lavoro, regalandoci uno videospot del tarantino con panorami caraibici e l’Ilva allegramente rimossa dalla cartolina. Ilva? Ma quale Ilva? Qui c’è il paradiso, venghino siori, venghino.

Invece l’Ilva c’è ancora insieme a quel poco che resta delle Pmi e delle grandi imprese nazionali come la Finmeccanica, sopravvissute alla svendita privatizzatrice di Prodi&c e assediate dalla magistratura. Si dovrebbe ripartire da qui, ma il piano della globalizzazione – che non è per nulla una entità astratta ma un fenomeno “agito” e pianificato – è quello di un paese “leggero”, tutto basato sull’estetica e i servizi, e completamente dipendente dall’estero per ogni altra necessità. Un paese eternamente con il cappello in mano, terrorizzato da crisi economiche e diplomatiche, svuotato di ogni capacità autarchica di resistenza. Perché senza capi firmati si può vivere, senza acciaio o prodotti alimentari (compriamoli dall’estero, costano meno!), nella modernità, si muore. O, meglio, si diventa dipendenti da tutto e da tutti, in primis dalla globalizzazione, che si è costretti a difendere perché altrimenti siamo spacciati: chi ci venderà ciò che prima ci facevamo da soli e, ora, fanno gli altri per noi?

Ed è ridicolo sentire parlare ora di nazionalizzazione, pianificazione, divieto di vendita dell’Ilva alla Cina da coloro che, fino a ieri, incensavano l’intelligenza del mercato globale e le virtù del nuovo corso. Questo è il mondo che avete voluto. Siatene fieri se ci riuscite.