di Annalisa Terranova
Dopo avere tratteggiato i caratteri essenziali della “democrazia di sorveglianza” come risposta alla sfiducia crescente nella politica da parte dei cittadini, il politologo francese Pierre Rosanvallon in un nuovo testo da pochi giorni in libreria (La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, pp. 372, euro 25) esamina le possibili reazioni dell’Occidente democratico dinanzi all’aumento delle disuguaglianze. Un dato, quest’ultimo, confermato dalle statistiche che mostrano come, in vari paesi europei tra cui anche l’Italia, la ricchezza si concentra nelle mani di un settore sempre più esiguo della popolazione mentre si allarga il perimetro dei ceti disagiati.
Questa situazione, secondo Rosanvallon, non ha effetti solo sulla percezione dell’ingiustizia sociale ma anche sulla politica in generale perché produce un senso collettivo di impotenza. “Di qui – scrive – il sentimento, che mina il tempo presente, di trovarsi davanti a situazioni che deploriamo ma rispetto alle quali restiamo infine passivi, senza riuscire nemmeno a comprendere tale paralisi. Sentimento torbido, che nutre la ricerca di capri espiatori e il rifugio in pensieri magici…”. Il politologo francese indica proprio in questo fattore la causa principale della destabilizzazione dei partiti di sinistra, che avevano fatto dell’idea di uguaglianza la loro bandiera.
Ma le pagine più interessanti del saggio di Rosanvallon sono quelle in cui propone una nuova idea di uguaglianza, fondata sulla reciprocità, e capace di produrre equilibrio nelle relazioni sociali. Non più ricchi contro poveri e viceversa, ma impegno condiviso per la crescita della società stessa.
Questa “uguaglianza d’interazione” non mira a una semplice uguaglianza economico-aritmetica (cioè all’astratto egualitarismo) ma a un’uguale distribuzione dei diritti e dei doveri. Ne consegue un’avversione per tutto ciò che è favoritismo, per i comportamenti che tendono ad approfittare del sistema, per le norme che avvantaggiano solo poche persone. “I diritti – spiega – non sono più considerati solo come norme astratte che s’impongono a tutti” ma fanno “riferimento all’aspettativa di una reciprocità” perché non è l’uguaglianza dinanzi alla legge a costituire lo “spazio civico” ma l’uguaglianza reale nell’uso delle regole. In una simile prospettiva vanno intesi anche i doveri: non più “vincoli e limiti imposti dal potere pubblico alla libertà individuale” ma ingiunzioni che “costruiscono” il sociale.
Quando questa regola della reciprocità entra in crisi le società cadono in una rete di paradossi corrosivi e aumenta il disagio delle classi medie e delle classi povere che non si esprime solo banalmente come ostilità verso la ricchezza ma come assimilazione della politica al parassitismo tout court. Riflessioni utilissime anche per analizzare la condizione italiana e per mettere a fuoco alcuni obiettivi essenziali tra cui quello di sostituire alla retorica dei diritti lo sforzo collettivo di costruzione di una “civitas” come spazio dell’uguaglianza “plurale”, uno spazio dove la reciprocità dell’impegno fa sì che non ci siano né insopportabili privilegi né l’annullamento delle diversità nell’uguaglianza “dell’indistinzione”.