di Antonio Pannullo
La storia del maggiore pilota Adriano Visconti, morto il 29 aprile del 1945, è strettamente intrecciata con quella del suo aiutante, il sottotenente Valerio Stefanini, e con quella del generale Adriano Mantelli, pioniere del volo a vela in Italia nonché asso dell’aviazione.
Tutti e tre aderirono dopo l’8 settembre 1943 alla Repubblica sociale italiana, entrando nell’Aeronautica nazionale repubblicana. Va subito precisato però che i tre non condussero mai rastrellamenti né azioni offensive contro altri italiani, ma si limitarono, eroicamente, a contrastare i bombardamenti su obiettivi civili che gli alleati anglo-americano effettuavano sulle nostre città del nord. Non a caso, Visconti è titolare di quattro medaglie d’argento e due di bronzo al valor militare.
È una pagina molto brutta della nostra storia patria, tanto brutta quanto dimenticata. La ricordiamo in sintesi. Visconti era del 1915, e nel 1936 conseguì il brevetto di pilota da caccia nell’Aeronautica regia. Allo scoppio della guerra fu mandato sul fronte dell’Africa settentrionale, a Tobruk e poi a Malta, distinguendosi per valore. Dopo l’armistizio, come detto, aderì alla Rsi partecipando attivamente alla creazione dell’Aeronautica repubblicana e comandando il celebre gruppo caccia “Asso di bastoni”. A bordo dei suoi Macchi Mc 202, 205 e del Messerschmitt Bf 109 G-10 volò per tutta l’Italia settentrionale, insieme con gli altri piloti della Rsi, per difendere la popolazione civile dalle tonnellate di bombe sganciate dagli anglo-americani.
Il 23 aprile la base dove si trovavano gli aviatori, a Cascina Costa, a sud di Gallarate, fu circondata dai partigiani che intimarono la resa. Il comandante Mantelli dapprima rifiutò ma in seguito, il 28, poiché il Cln aveva promesso salva la vita a tutti gli aviatori, accettò. La richiesta, tra l’altro, venne inoltrata a Mantelli proprio da Visconti. Così, il giorno dopo, il 29 aprile, proprio il maggiore Visconti firmò la resa controfirmata dal Cln Alta Italia, dal Cln, da quattro capi partigiani “garibaldini” tra cui Aldo Aniasi, il “comandante “Iso”, successivamente deputato del Psi e sindaco di Milano per lo stesso partito, che a quel tempo comandava la brigata partigiana Redi.
L’accordo garantiva libertà e incolumità per avieri e sottufficiali, e l’incolumità e l’obbligo di consegnarsi alle autorità italiane o alleate, per gli ufficiali. A quel punto i 60 ufficiali repubblicani e le due ausiliarie vennero condotti nella caserma del Savoia cavalleria in mano ai garibaldini. Ma Visconti e il suo aiutante Stefanini vennero allontanati con il pretesto di volerli interrogare.
Mentre si allontanavo con i partigiani, i due vennero falciati da due raffiche di mitra alla schiena: il sottotenente Stefanini istintivamente tentò di coprire Visconti col suo corpo, ottenendo solo di farlo ferire gravemente. Il maggiore fu poi finito con due colpi di pistola alla testa. A sparare fu il guardiaspalle di Aniasi, un partigiano russo, e il ruolo del futuro sindaco di Milano non fu mai chiarito, perché il duplice assassinio fu considerato “legittimo atto di guerra”, in quanto accaduto prima dell’8 maggio 1945, fine ufficiale delle ostilità in Europa.
Visconti e Stefanini furono dapprima sepolti frettolosamente nella stessa caserma, ma già pochi giorni dopo furono traslati al cimitero di Musocco a Milano, dove ancora riposano, uno vicino all’altro.