lunedì 31 marzo 2014

Il voto alle Europee strumento per togliere le catene ai popoli

Catene_spezzaredi Claudio Tedeschi (barbadillo.it)

L’Europa sarà chiamata alle urne per il rinnovo del Parlamento europeo alla fine di maggio, a cento anni dalla Prima guerra mondiale. L’attentato di Sarajevo, è storicamente l’inizio delle ostilità. In realtà, alla guerra ci si preparava da anni, specialmente la Francia e l’Inghilterra che, con la stipula della Triplice Intesa insieme alla Russia zarista, progettavano di distruggere i due grandi Imperi centrali europei, quello prussiano e quello austro-ungarico. Non dimentichiamo che l’Italia, appena nata come Stato unitario, era alleata della Germania e dell’Austria all’interno della Grande Alleanza. Salvo poi, dopo un anno fare, il salto della quaglia, nella migliore delle tradizioni.
Mentre i «mercanti» preparavano la guerra, Woodrow Wilson, 28° presidente degli Stati Uniti, durante la campagna elettorale per il suo secondo mandato, aveva sostenuto che gli Usa non sarebbero mai entrati in guerra. Eppure, nell’ultimo anno del suo primo mandato, varò un piano di potenziamento dell’Esercito e della Marina, attraverso tassazioni straordinarie. Il 2 aprile del 1917, gli Stati Uniti entrano in guerra a fianco della Triplice. Negli anni ’30 del secolo scorso, la Commissione Nye stabilì che la causa principale dell’intervento americano fu dovuta all’enorme indebitamento dei banchieri e dei fabbricanti di esplosivi nei confronti della Gran Bretagna. Dopo la guerra gli Imperi centrali crollarono , la Russia fu squassata dalla rivoluzione bolscevica, la Germania e l’Italia, e poi la Spagna, videro il nascere di regimi autoritari. Anche per loro, all’inizio, vi fu l’influenza e l’appoggio della finanza e della grande industria, che pensarono di sfruttare i movimenti come argine contro il nascente comunismo russo.
L’evolversi in forma nazionalista e sociale dei nuovi regimi, con l’introduzione di leggi e direttive contro la forte presenza di banche e industria nella gestione politica dello Stato e della economia monetaria, fu una delle cause principali che porteranno alla Seconda guerra mondiale. Hitler, dopo la presa del potere nel 1933, si oppose al cartello delle banche internazionali, stampando la propria moneta. Mussolini, con la nascita dell’Imi, dell’Iri e la Legge bancaria del 1936, salvò l’Italia e ispirò a F.D. Roosevelt il progetto del New Deal. Artefice di tutto questo fu un socialista, massone, antifascista, Alberto Beneduce.
Dopo il 1945, con la vittoria delle potenze alleate, inizia la «guerra fredda» che vedrà opposti Stati Uniti ed i loro alleati occidentali, da una parte e la Russia sovietica di Stalin dall’altra. Fino al 1989, caduta del Muro di Berlino, nel mondo si susseguiranno tante piccole guerre «locali», dalla Corea alla crisi di Suez, dalle guerre arabo-israeliane al Vietnam. Ufficialmente, per l’opinione pubblica mondiale, era lo scontro tra le forze del bene e quelle del male, dei princìpi democratici dell’occidente contro la bieca tirannia del comunismo sovietico, al quale poi si aggiungerà quello cinese, cubano, etc.
Non dimentichiamo l’Africa. La decolonizzazione dei Paesi africani, non fu voluta per la libertà dei popoli, ma per la gestione delle principali risorse energetiche sepolte sotto i loro piedi. Basti pensare quando, dopo il 1918, al momento di smembrare l’Impero turco, Americani ed Inglesi misero le mani sullo scrigno del petrolio. Quindi la «liberazione» dell’Africa fu decisa dai consigli di amministrazione delle banche occidentali: si capì che era più conveniente depositare in Svizzera le tangenti ai capi tribù locali, che sostenere le spese di una guerra. L’unico Paese fuori di questo sistema fu il Sud Africa bianco. Oro, diamanti, armi, questo permise ai sudafricani di reggere botta alle sanzioni internazionali. Finché non dovettero cedere alle spinte anglo-americane e liberare Mandela, cedendo il potere all’ANC.
Dopo il 1989, il Risiko internazionale, gestito dalle banche globalizzate, con gli Stati sovrani nel ruolo dell’esecutore, vedrà Serbia, Kossovo, Irak, Kuwait, Afghanistan, Siria, le varie Intifada, deflagrare, portando i valori della democrazia e del libero mercato, a chi non li voleva.
Nel frattempo la Russia cambia, si trasforma, vede nascere una generazione di oligarchi miliardari in grado di gestire quanto rimasto dell’Impero sovietico, portandolo nel 21°secolo. A capo di tutto questo un ex agente del Kgb, Vladimir Putin. Conscio che le radici della Russia sono «profonde e non gelano mai», ha riportato Dio e la Patria nei cuori dei russi. Questo, ha trascinato la Russia in rotta di collisione con la geopolitica anglo-americana, il cui cuore batte a Wall Street, ed il cervello risiede nella Fed. Ecco le guerre locali, Georgia, Cecenia, Azerbaigian, finanziate e sostenute dagli Americani, al fine di logorare l’Orso russo. Fino ad arrivare all’Ucraina.
In questo caso, la mano è tedesca, perché la Merkel guarda allo spazio economico ad est. Fin dai tempi della ex Jugoslavia, la Germania ha puntato a crearsi un impero economico, sotto l’ombra del marco (lo chiamano euro soltanto gli sciocchi). Dopo la mossa russa in Crimea, Berlino si è spaventata, permettendo alla UE ed alla Nato di organizzare la commedia delle sanzioni. Le armi ed i soldati sono quelli della Trojka, finanziamenti in cambio di cessione di sovranità. L’esempio della Grecia è monito a chi si ribella.
Quando voteremo a maggio, per togliere le catene dell’euro all’Europa, ricordiamoci che esistono uomini e donne che non hanno paura dei «poteri forti» e dei banchieri di Francoforte. La fregatura per noi è che non possiamo votarli, perché sono in Francia, in Inghilterra, in Norvegia, in Ungheria, in Germania.
A noi hanno lasciato gli «avanzi».

domenica 30 marzo 2014

Giorgio Almirante e la sfida di “vivere da fascisti in una democrazia”...



di Roberto Chiarini 

Oggi nella Sala Capranichetta in piazza Montecitorio, a Roma, nell’anno del centenario della nascita di Giorgio Almirante (1914-1988) si è tenuto il convegno «Giorgio Almirante e la Cisnal». Presente Donna Assunta Almirante, sono intervenuti Gaetano Rasi; il sen. Romano Misserville; Massimo Magliaro, storico capo ufficio stampa di Almirante; il segretario generale UGL Giovanni Centrella; e il professor Roberto Chiarini (docente di Storia contemporanea e Storia dei partiti all’Università statale di Milano).

È passato circa un quarto di secolo dalla scomparsa di Giorgio Almirante. È passato un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino. È passato un quarto di secolo dal crollo della Prima Repubblica. È passato un quarto di secolo in un primo tempo dalla rifondazione, poi dalla dissoluzione della sua creatura politica: quel Msi con il quale quasi si è identificata la sua vita di leader di partito. È ragionevolmente passato abbastanza tempo, quindi, perché si possa pensare a stendere un bilancio non partigiano, non schiacciato sulla contingenza, ma inserito in una prospettiva di più lungo respiro, della sua figura e della sua opera politica.Il punto di partenza imprescindibile di una riflessione sul ruolo e sul significato della sua esperienza politica non può che essere la constatazione della originalità assoluta della sfida che la destra fu chiamata ad affrontare nel nostro dopoguerra rispetto alle altre democrazie europee. Un’originalità che affonda le sue radici nel profondo della storia nazionale, ancor prima della nascita dello stato unitario, almeno nel Risorgimento.

Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in genere in tutti i paesi anglosassoni la destra si è presentata all’appuntamento della democrazia di massa con le carte in regola. È stata sin dall’inizio un attore politico insieme pienamente legittimo e protagonista della dialettica democratica. Anche la Germania, che pure esce nel 1945 da un passato pesantemente segnato dalla compromissione con l’esperienza più pesante del ventennio totalitario entre deux guerres, ha saputo relegare il nostalgismo neonazista nel recinto dell’illegalità; il che lo ha condannato a un’emarginazione cosi netta e scontata da consentire al sistema politico tedesco di animare senza grandi sconquassi una dialettica destra/sinistra proficua per il consolidamento di una «democrazia normale». Nella stessa Francia, che pure ha conosciuto – oltre a un regime collaborazionista con l’occupante nazista – anche molteplici esperienze di destra convintamente nemica dei valori e degli istituti democratici, si è presentata all’indomani della guerra con credenziali a posto tanto da assicurare alla destra un ruolo da protagonista nella Francia della IV e della V Repubblica. Con De Gaulle, infatti, non solo la destra francese si presenta nel dopoguerra repubblicana e democratica, ma addirittura simbolo del riscatto della nazione dal collaborazionismo di Vichy e capofila/portabandiera della democrazia grazie al contributo offerto nella lotta di liberazione nazionale dai nazisti.

Tutt’altro discorso bisogna fare per la destra italiana. All’indomani della guerra e della caduta del fascismo la destra da noi non ha alle spalle nessun antecedente di destra cui riallacciarsi per costruirsi un futuro non solo di peso, adeguato cioè alla dimensione di massa imposta dal suffragio universale maschile e – per la prima volta – anche femminile, ma nemmeno dotato di legittimità nel nuovo quadro politico postbellico. Solo per fare un confronto con il paese ad essa più congeniale, come la Francia, la destra italiana non ha conosciuto nell’800 qualcosa di analogo alla destra tradizionalista, alla destra orleanista o alla destra bonapartista. La costruzione dello Stato nazionale e della stessa Nazione è avvenuta all’insegna e nel nome di un ideale liberaldemocratico che ha individuato nel blocco sociale, nei referenti ideali, nelle formazioni politiche avverse a un liberalismo laico e modernizzatore le vere forze nemiche da isolare prima e da mettere nelle condizione di non nuocere poi, decretando in tal modo nei loro confronti un vero bando di proscrizione.
Il fascismo ha fatto il resto. Assorbendo e risolvendo nella sua esperienza ventennale di dittatura orientata al totalitarismo ogni espressione di destra tradizionalista, conservatrice e modernizzante, ha definitivamente compromesso le sorti future della destra italiana, di qualsiasi destra, della stessa pronunciabilità del suo nome, non parliamo di un sostegno alla sua causa. L’ha condannata così a vivere nel ghetto, senza alleati, senza nemmeno un minimo di capacità collettiva, e senza una prospettiva di un suo rientro a pieno titolo e in tempi ragionevoli, com’è stato invece il caso di tutte le altre destre in Europa occidentale, nel gioco democratico.

Quello di destra è diventato, insomma, uno spazio politico contaminato e, per dei contaminati dalla compromissione col passato regime com’erano i nostalgici del Ventennio, quello spazio è diventato l’unico disponibile. Per un partito – il Msi – che si proponeva di offrire una casa al popolo degli esuli in patria, come è stato efficacemente chiamato, l’occupazione dello spazio della destra, e di una destra illegittima, era insieme una scelta obbligata, un dovere e una condanna.

Una scelta obbligata, perché il bando comminato non consentiva loro altra alternativa. Un dovere, perché un luogo in cui ritrovarsi e preservarsi bisognava pur trovarlo, a meno di non accettare o un ruolo di forza extraparlamentare, con proiezioni magari eversive, o un abbandono tout court di ogni ambizione politica con il conseguente riflusso nel privato. Infine una condanna, perché significava accettare il ghetto rimandando a tempi ragionevolmente lunghi il proprio rientro nella comunità democratica. Si trattava, perciò, per la destra italiana di salvaguardare e perpetuare nei tempi brevi un’identità che per la maggior parte di essi equivaleva alla possibilità di acquisire una cittadinanza politica almeno simbolica e nei tempi lunghi di approfittare di condizioni favorevoli per rompere il cordone sanitario che li relegava nell’illegittimità istituzionale e nell’irrilevanza politica.
È stato, questo, il compito che Almirante definì con lucidità: «Vivere da fascisti in una democrazia». Ovviamente cambiava molto se l’accento era posto sul «vivere da fascisti» o sul «vivere in una democrazia». Non si può negare che il Msi in generale e il Msi di Almirante in particolare abbia oscillato non poco tra i due estremi. Ora ha puntato soprattutto a difendere la sua identità neofascista, ora ha cercato di cogliere le occasioni offertegli dall’evoluzione del quadro politico per propiziare il suo rientro nel gioco democratico.

Sarebbe lungo in questa sede esaminare un cinquantennio di storia. A bocce ferme e col senno di poi, si può dire che la missione è stata compiuta. Ma solo a metà. La guida di Almirante, senza dubbio il vero leader della destra italiana della Prima Repubblica che con essa si è identificato fino a diventarne la sua stessa icona, è riuscito a guidare il suo popolo nella travagliato passaggio del Mar Rosso fino a farlo approdare (quasi) incolume alla terra promessa. Diversamente, però, da Mosè, nel momento stesso in cui il suo popolo poggiava i piedi finalmente in terra democratica, invece di poter celebrare la missione compiuta con l’annegamento politico dei suoi oppressori, doveva subire il lutto della sua dispersione e della sua diaspora.

Evidentemente il lungo esilio in patria aveva disseccato la fonte della sua creatività politica. L’aria aperta ritrovata risultava inospitale per il vecchio organismo, infragilito da una troppo lunga permanenza (e inattività) nei luoghi della convalescenza dal morbo contratto della nostalgia per un passato senza futuro. (testo anticipato da Il Giornale)

sabato 29 marzo 2014

Rugby. Marcello de Angelis: “Inconcepibile discriminare un giocatore per il settarismo”...


da barbadillo.it (Michele De Feudis)

“Sei di destra, non giochi”. Il veleno delle contrapposizioni ideologiche scorre anche nello sport e nel rugby con il caso Cirimbilla a Roma: al giocatore dei Corsari non è stato permesso di giocare la partita di campionato contro gli All Reds. Ne abbiamo parlato con Marcello de Angelis, ex rugbista nonché animatore dell’associazione parlamentare amici del Rugby.

Marcello de Angelis, ex militante, ex parlamentare, ex rugbista… Si può dire ex di un rugbista?

Probabilmente no (e direi che non si può dire nemmeno di un militante…) perché è una di quelle attività che si porta dietro un etica e uno stile di vita che nessuno oserebbe intaccare. O almeno così ti direbbe un rugbista vero, anche l’ultimo dei rugbisti, anche uno che abbia solo guardato il rugby dagli spalti.

Chi deve impegnarsi per evitare la riproposizione di dinamiche di un’Italia ormai lontana? La Federazione rugby? La politica?

La vicenda di cui è stato vittima Luca Cirimbilla a Roma ci dice una sola cosa – che nel mondo del rugby capitolino a dire il vero pensavano in tanti – e cioè che questa congrega che si presenta col nome di All Reds col rugby e con i rugbisti non c’entra nulla…
Ovviamente la Federazione, che deve buttare fuori chi si è macchiato di una infamia del genere – qualora sia un iscritto – e dovrebbe anche togliere l’abilitazione al campo occupato dove, evidentemente, la scuola di odio e intolleranza prevale sulla attività sportiva. Sarebbe stato sicuramente bello leggere comunicati bipartisan sui valori dello sport che non devono essere sporcati da questo tipo di atteggiamenti, comunicati che piovono da tutti i lati per eventi di gran lunga meno gravi. Per ora non ce ne sono stati. Ma è pur vero che Cirimbilla – che è un rugbista vero e non un “piagnone” – non si è certo andato a lamentare 

Cosa ha rappresentato nella sua esperienza di militante politico, la passione per il rugby?

Il rugby per me è una cosa di famiglia. Io sono sicuramente quello tra i miei fratelli che ha dato meno lustro allo sport e sono più un amante appassionato che un giocatore. Nanni era un grande giocatore. Giorgio ha fatto di più e più a lungo, lanciando la splendida esperienza della Namau. Al suo funerale c’era tutto il rugby della provincia di Roma e anche oltre. Mancavano solo gli All Reds ma, francamente, sarebbero stati fuori luogo. Germana ha realizzato qualcosa di grandissimo portando il rugby in carcere e formando la squadra dei Bisonti che oggi è considerata anche dal Coni una delle esperienze sportive più meritevoli. Renato è una grande ala, uno sportivo di valore assoluto. Questo è il rugby per me. Forse non è un caso che tutta la mia famiglia condivida anche gli stessi valori.

Avrà giocato con avversari di sinistra, no?

Certo, moltissime volte. Con alcuni c’è grande affetto e non sono di una sinistra moderata. Anche quando ero presidente dell’associazione parlamentari amici del rugby c’erano colleghi del Pd e anche di Rifondazione. Il vicepresidente era Massimo Cialente, l’attuale sindaco di L’Aquila. Il senso dell’associazione, c’era scritto nello statuto, era di portare anche nella politica i valori indiscutibili del rugby: la lealtà, il rispetto dell’avversario che, fuori dalla contesa, può diventare e spesso diventa un fraterno amico, il senso del sacrificio e dell’onore. Tutte cose che – mi sembra evidente – quelli che hanno impedito la partita in cui doveva giocare Cirimbilla non conoscono e non condividono. Non credo siano in buona fede e quindi non sprecherei parole. Se uno fosse un rugbista vero un tale comportamento non l’avrebbe mai concepito. Mi sembra evidente che per queste persone il rugby è solo un travestimento e la loro intenzione è quella di infettare con la loro sottocultura di intolleranza vile una cosa nobile e bella. Quindi gli direi solo di cambiare sport perché questo non fa per loro.

giovedì 27 marzo 2014

Dal tramonto all'alba...


Di Mario M. Merlino
In Al di là del bene e del male Nietzsche ricorda come l’idea del suicidio aiuti a superare molte notti insonni. Non sono d’accordo, io che tendo a dormire a corrente alternata e scrivo le cose più belle (del resto tutto ciò che scrivo è circonfuso d’aurea grandezza… o quasi!), proprio mentre il ronfare pesante di Cristiano mi suscita momenti d’invidia. No, l’idea del suicidio – domanda prima ed essenziale secondo il filosofo francese Albert Camus, l’unico atto di libertà rimastoci – richiede la luce del giorno, dopo aver bevuto un caffè forte, che ci consente il possesso pieno e consapevole di come e quanto sia osceno il mondo con il suo carico d’uomini e cose… Così, spettatore e partecipe, ognuno di noi sa dire a se stesso che, nella differenza, si può e si deve fare un passo avanti un passo ancora… Se no è altra cosa – come l’argomento della mia tesi verteva intorno al ‘suicidio metafisico’ in Carlo Michelstaedter –, cioè una chiacchiera vana e sciocca. Pensare a descrivere il mondo è già di fatto renderlo diverso, rifletteva e si opponeva alla notoria citazione di Carlo Marx tra teoria (‘i filosofi fino ad oggi si sono limitati a descrivere il mondo’) e prassi (‘tocca oggi ai filosofi cambiarlo’) Giovanni Gentile. Condivido, ma il morire nella mente e il morire nel corpo non sono la medesima cosa, anzi la distanza è il più delle volte incolmabile (anche perché, in caso contrario, la terra sarebbe già da lunga data un deserto)…
Quando non mi soffermo sulla tastiera, come avviene in questo momento, o il libro rimane a mostrare copertina o dorso, dopo che ho risolto con la prostata il contenzioso anagrafico e in cucina ho miscelato del tè con aromi alla liquirizia o d’altra spezia, so che, rivolto alla finestra e, oltre ad essa, al cielo, stellato o nuvoloso poco conta, mi dedico a banali pensieri intorno all’eternità. Non pensieri sull’immortalità che sono altra cosa (Mishima Yukio a questi ultimi rivolge l’estremo messaggio ‘la vita umana è troppo breve ed io vorrei vivere per sempre’. Se, tramite il seppuku, non avesse posto termine all’esistenza e ‘la voce degli spiriti eroici’ avesse esaudito il suo estremo desiderio, forse egli avrebbe trovato altro motivo di dolersi, la noia o l’abitudine ad esempio… Ho sempre guardato alla condizione degli dei con una certa benevolenza perché, in fondo, sono destinati a pagare lo scotto, ad essere condannati ad una forma d’infelicità che all’uomo non è data – non è loro concesso, a loro l’impotenza di osservarsi allo specchio e scoprire la misura del tempo).
Ecco il prezioso dono che ci proviene – chissà – dalla Signora della notte, dalla Luna, poter solo noi pensare all’Eterno pur immersi nella pattumiera della storia, nell’immondezzaio dell’esistenza… Uomini e vermi. Mishima rende ‘in sortilegio’ (la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, Mishima o la visione del vuoto) la bella e poetica espressione di ‘raccoglitore del suolo notturno’ per indicare l’uomo che pulisce le latrine – figura di giovane che discende dalla montagna circonfuso dal sole al tramonto. E’ una visione che si apre alla notte e ai ‘sortilegi’ appunto del chiarore lunare. (Una notte d’estate, dancing Vallechiara, andato giù di brutto con gin e limonata, ho abbracciato il palo di un lampione e ho ululato alla luna la disperazione e la follia che m’usciva da dentro, non so perché).
E questa sera è una di quelle notti in cui i miei pensieri vorrebbero essere essi stessi eterei come lo vorrebbe il mio corpo, qui, seduto sulla vecchia poltrona stile napoleonico, che la mia famiglia s’è tramandata da più generazioni – ‘Che in vita sua fu tutto e non fu niente! -, avverto ‘il raggio della luna, ecco, viene a chiamarmi’… e m’accarezzo il dorso della mano. Sensazione lieve, eppure è viva sensazione. E mi chiedo se di questa natura consiste dunque, ciò che chiamiamo ‘eterno’. ‘A di là delle categorie di anima e corpo noi vediamo l’Essere’. Quando m’attardo o mi coinvolgo nella ricerca di netta lucida pulita nientità, di questa nientità, che sola potrebbe elevarmi oltre il quotidiano esperire, so dove rivolgermi a conforto.
Già, alla mie spalle, vi è uno scaffale ove vi sono gli autori francesi a me cari. Cèline, che mi ha mostrato come nelle strade ormai è dato sognare; Robert Brasillach, il mio fratello più caro, da cui ho tratto la giovinezza la fierezza e la speranza e tanto ancora; suo cognato Maurice Bardèche il cui libro Che cos’è il fascismo? è stata la premessa per riconoscere ‘la patria là dove si combatte per le nostre idee’; e tanti altri ancora. E ovviamente, se ci si vuole porre di fronte all’Assoluto senza la mediazione di dei troppo antropomorfi, Drieu la Rochelle: ‘Diventare sempre più mistico. La parola Dio inganna e ostacola lo slancio spirituale’.
Ecco: mi dico d’essere stato un uomo fortunato… Con simili ‘camerati’ – e i tanti altri che mi sorridono dai tre lati della stanza – non sono mai stato senza compagnia, anche perché te li porti nella mente e nel cuore quando vivi isolato dal resto del mondo (mi vengono a mente i mesi nella cella di isolamento dove ricostruivo a memoria riflettevo conversavo ad alta voce con loro). Essi ci hanno educato a proteggere l’identità che deve sussistere tra dottrina e azione per evitare d’essere ‘teste d’angelo senza corpo’ o ai bruti assimilati. E coloro, che ci hanno preceduto, a testimoni.
Sì, Drieu la Rochelle ha spinto se stesso – e noi con lui – là dove nessuno ancora ha osato andare (questa è la funzione dell’intellettuale) – pensare l’Eterno mentre la carne le ossa e il sangue ruggiscono inani per la bella battaglia. (Si leggaL’uomo a cavallo: ‘La sua patria è amara a chi ha sognato un impero. Che cos’è una patria se non una promessa d’impero?’ e, dunque, ‘…dietro agli Dei… dietro al sole, c’è l’indicibile’). Solo così noi, simili a vermi, facili ad essere calpestati dal destino dalla storia dalle necessità, ci ergiamo tra le macerie a sfida di un umano che già si rende (in)consapevole d’aver abbandonato la sua effimera condizione. Pensieri eterni per una notte insonne; Drieu a condurci per mano fra i sentieri di quel ‘detto-non dicibile’, sì, e all’alba l’ascia di guerra lo scudo il cavallo per tornare a combattere ancora… 
Questo è Eterno…

mercoledì 26 marzo 2014

Il risveglio dei popoli europei





 di: Mauro Indelicato (L'intellettuale dissidente)


Forse mai come quest’anno le elezioni europee sono tanto sentite dall’elettorato, o meglio dire, dagli elettorati del vecchio continente; la prima volta si svolsero nel 1979, a parte qualche test politico nazionale però, il suffragio per il parlamento di Strasburgo non ha mai scaldato le fantasie elettorali europee, forse perché lo stesso parlamento europeo mai è stato avvertito come un’istituzione di rilievo per la vita quotidiana dei cittadini.
Ma quest’anno la situazione è diversa: crisi, perdita d’identità, perdita di prestigio, fine o quasi della sovranità dei popoli, quella che si appresta ad andare a votare è un’Europa malata che, a differenza del 2009, anno delle ultime europee, sa di essere il ventre molle del sistema internazionale. Molti movimenti e partiti di ogni parte del continente, iniziano ad organizzarsi, iniziano a raccogliere quel pensiero di malcontento e disgusto che serpeggia prepotentemente nella società, che dal malandato e contorto sistema attualmente in vigore viene definito semplicemente come “populismo” o, peggio ancora, come minaccia alla pace ed alla stabilità europea.
Questo pensiero che aleggia non più tanto in sordina nell’opinione pubblica, la quale prende sempre più cognizione della realtà e mette sempre più in discussione alcuni elementi ritenuti tabù fino a qualche anno fa, in primis la moneta unica, fa molta paura ai burocrati di Bruxelles e di Francoforte; specialmente nella città tedesca sede della BCE, il timore che le svolte causate dal malcontento fra qualche mese diventino incontrollabili è palpabile e ben radicato ai vertici dell’EuroTower e si sta trasformando in autentico terrore.
Prova ne è, il fatto che delle semplici elezioni comunali francesi, hanno creato un dibattito in tutto il vecchio continente che, fino a pochi mesi fa era impensabile; dalla Polonia al Portogallo, dalla Finlandia alla moribonda Italia, in tutta Europa adesso esistono partiti o movimenti che strizzano l’occhio al vittorioso Fronte Nazionale di Jean Marie Le Pen, tutta l’opinione pubblica insomma è a conoscenza del fatto che, piaccia o no, delle alternative all’attuale sciagurato sistema europeo esistono e sono ben radicate. Ed a rigor di logica, se delle elezioni amministrative, quindi di carattere in teoria esclusivamente locale, creano un inatteso scossone a livello continentale, cosa potrà accadere nel caso in cui le previsioni di un trionfo del fronte cosiddetto “euroscettico” alle prossime europee venissero confermate? Da qui le preoccupazioni di gran parte delle cancellerie, da qui appelli e contro appelli a “fermare la deriva populistica ed euroscettica”, da qui il disperato tentativo di aizzare i media tradizionali contro le formazioni anti Euro e chissà quali e quante altre provocazioni verranno messe in campo; anche perché, l’onda contro la moneta unica e l’attuale assetto dell’UE è sempre più dirompente e non solo in termini di numeri elettorali.
In Spagna, si rivedono per esempio gli indignados: dopo aver infiammato le piazze del paese tra il 2011 ed il 2012, a Madrid lo scorso sabato migliaia di persone hanno assediato i centri del potere della capitale spagnola; su tutti, spiccavano slogan contro l’austerity e le politiche economiche che stanno mettendo in ginocchio quello che fino al 2010 era il paese del miracolo economico. Stesse scene in Grecia dove, nel silenzio più assoluto, continuano nel paese ellenico proteste e scioperi contro la “troika” formata da UE, BCE ed FMI. In viste delle europee, annunciate imponenti manifestazioni a Lisbona ed in tutto il Portogallo, anch’esso sconvolto dalle misure d’austerità imposte da Bruxelles.
In questo scenario, gioca anche un ruolo non indifferente la crisi ucraina; infatti, nell’opinione pubblica europea in pochi hanno creduto al teatro messo in scena da UE ed USA a Kiev per sovvertire un governo legittimamente eletto pochi anni prima. Anzi, sui social network sono sorti molti gruppi che chiedono di emulare, ciascuno per il proprio paese, analoghi referendum sulla scia di quello della Crimea. Il fatto che gli oppiati popoli europei non abbiano questa volta abboccato in massa ad un collaudato marchingegno mediatico per rovesciare un esecutivo filo russo, è la dimostrazione che l’impalcatura di menzogne e scelleratezze messa in atto negli ultimi decenni inizia a scricchiolare. E chissà che, uno dei colpi di grazia, possa arrivare dalle elezioni europee e da un parlamento comunitario costituito in maggioranza da forze che esprimono il ribrezzo di molti europei nel vedere il loro continente trasformato in un feudo del peggiore liberismo a stelle e strisce.

martedì 25 marzo 2014

L’affare del secolo: fabbricare malati



di Paolo De Gregorio

Tutti noi oggi viviamo in un mondo globalizzato in cui l’aria, la terra, il mare, l’acqua, il cibo, sono gravemente inquinati, mortalmente nocivi alla nostra salute, a causa di produzioni industriali a carbone, radioattive, transgeniche, dagli inceneritori, dalle polveri sottili delle auto, che si mescolano e si riversano dappertutto, anche a migliaia di chilometri da dove vengono prodotte, rendendo impossibile qualsiasi produzione agricola veramente biologica.
I sistemi industriali che producono questo sfacelo non rispondono ad alcuna autorità, né nazionale né internazionale, e tutti i tentativi anche ai massimi livelli di limitare il disastro sono ridicolmente falliti.
E’ molto diffusa la totale rassegnazione dei cittadini rispetto ai fenomeni che distruggono la loro salute e le risorse del pianeta, in quanto ci si rende conto che sono l’economia e le banche a dettare legge e la politica che dovrebbe intervenire, con tutta la sua retorica sulla democrazia, non conta veramente nulla quando non è già a libro paga degli interessi delle multinazionali dominanti.

La dimostrazione più chiara di questa affermazione ci viene data del funzionamento del sistema sanitario-farmaceutico e di ricerca scientifica per la produzione di medicine, in mano a poche multinazionali, tutte potentissime con l’arbitrio assoluto di poter decidere in quale direzione orientare la ricerca, ossia tra cercare di guarire le malattie o mantenere le persone vive ma malate e dipendenti a vita dai farmaci. E la scelta è quest’ultima, in una logica estrema di profitto.
La salute umana, almeno quella dei poveri, è totalmente in mano a persone che hanno il cinico interesse di agganciare i malati alle proprie specialità medicinali, possibilmente a vita, senza più cercare la via della guarigione e tantomeno la causa delle malattie.

Al di fuori di queste entità multinazionali, che sono private, e quindi solo con fini di lucro, non vi è nessun contrappeso pubblico degli Stati, il cui interesse economico è esattamente l’opposto, ossia quello di ridurre la spesa sanitaria facendo prevenzione e finanziando istituti pubblici di ricerca sulle cause dei malanni dei loro cittadini.
Se ciò non avviene, anzi abbiamo anche il peso delle truffe a danno del sistema sanitario nazionale per il rapporto con le cliniche private convenzionate, significa che hanno trionfato sistemi criminali contro la salute, sistemi di ruberie di denaro pubblico, e non vi è una sola forza politica che chieda l’abolizione delle convenzioni con i privati e tantomeno la costituzione di una potente struttura di prevenzione che parta dalle scuole, sia a livello informativo, che porti al possesso di una carta individuale elettronica che riporti indagini mediche da fare almeno una volta l’anno dai 5 ai 18 anni.
Ogni euro investito in educazione sanitaria, sessuale, alimentare, controlli medici, ne farebbe risparmiare mille al nostro sistema sanitario nazionale e la responsabilità di questa mancanza è esclusivamente e totalmente di quella mala politica che se ne frega della salute dei cittadini e viene profumatamente pagata dalle lobby farmaceutiche per lasciare le cose come stanno. Non è che non sono capaci di fare prevenzione, sono pagati per non farla.
La gente come me viene spesso etichettata con il termine generico di antipolitico, come se l’attuale politica non meritasse il più grande disprezzo per la sua cialtroneria, per il suo cinismo, le sue ruberie, la sua incapacità di risolvere i problemi.
Sono fiero di essere contro la vecchia politica. Abbiamo bisogno che la politica si interessi dei problemi reali dei cittadini, di cui la salute è al primo posto, che non diventi mestiere, che si rinnovi continuamente e che la base degli iscritti sia chiamata a decidere e votare per ogni cosa importante. E’ questa la buona politica, la sola di cui i cittadini onesti possono avere fiducia.

lunedì 24 marzo 2014

Francia. L’onda Blue Marine del Fronte Nazionale: in sette città è il primo partito


a cura di Bardamu

«Lo sfondamento dell’FN»: così alcuni commentatori definiscono il risultato delle elezioni comunali francesi,ancora in fase di spoglio. Più il tempo passa, più si rafforzano due dati: il presidente Hollande ha subito una batosta elettorale e il Fronte Nazionale ha conseguito un risultato storico, riconosciuto anche dal quotidiano della sinistra Liberation, che titola «L’FN al centro del gioco», riferendosi al peso che avrà il partito al secondo turno.

L’analisi dei numeri può aiutare a inquadrare le dimensioni del successo. Il partito di Marine Le Pen ha presentato le liste in 600 comuni su più di 36000, raccogliendo però il 7% a livello nazionale. Questo vuol dire che dove si è presentato ha letteralmente fatto il pieno. Per fare qualche esempio, a Henin-Beaumont, il candidato lepenista ha vinto al primo turno con il 50,3% dei voti, mentre a Béziers va al ballottaggio con il 45%. In totale sono 7 le città importanti dove il Fronte arriva primo.

Carte totalmente sparigliate, con il “fronte repubblicano” ancora una volta incapace di reagire e anzi completamente disarticolato. Il Partito Socialista (uscito pesantemente ridimensionato) ha infatti dichiarato che farà di tutto per non far eleggere ai ballottaggi i candidati dell’FN. Cosa farà invece l’UMP? Il partito di centrodestra, da parte sua, è avanti a Parigi con Nathalie Kosciusko-Morizet, contro la favorita socialista Anne Hidalgo.

Ma a gongolare visibilmente è Marine Le Pen, che dichiara «i francesi si sono ripresi la loro libertà», mentre il vice presidente del partito, Florian Philippot, si appresta ad affrontare il secondo turno a Forbach, dove era candidato sindaco ed è per ora arrivato primo.

I candidati del partito di Marine Le Pen sono i più votati a Beziers (45% per Robert Ménard ), Avignone (29,4 % per Philippe Lottiaux), Digne – les – Bains ( 27.69 % per Marie – Anne- Maurel Baudouï ) e Frejus ( 40,2 % per David Rachline ), Perpignan (34,4% Louis Alliot ). A Forbach i risultati finali registrano in testa il vice presidente del FN Florian Philippot, in vantaggio con 35,75 % dei voti .

Marine Le Pen su Le Figaro ha spiegato che i risultati riflettono “la fine della polarizzazione della politica francese. Il Fronte Nazionale si presenta come una forza in gran parte autonoma, una grande forza politica, non solo a livello nazionale , ma anche a livello locale. Il partito si radica come nelle nostre previsioni”.

sabato 22 marzo 2014

Torna “Viaggio nella vertigine”, il libro che rivelò all’Occidente gli orrori dei gulag staliniani...


di Renato Berio (Secolo d'Italia)


Torna un classico della letteratura anti-gulag, pagine pionieristiche sugli orrori della dittatura comunista in Urss. Si tratta di Viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg (edito da Baldini & Castoldi) che racconta il processo subito dall’autrice nel 1937 e la condanna a diciotto anni di carcere duro e lavori forzati nel lager di Kolyma. Un processo di soli sette minuti per consegnare una presunta controrivoluzionaria ai suoi carcerieri, un uomo e una donna che uccidono “senza ragione”, semplicemente perché non consideravano gli internati “persone umane”. E che sorvegliano un’umanità bestiale o che deve imbestialirsi. L’autrice troverà rifugio nella fede ma ciò che racconta fa del suo Viaggio un itinerario infernale negli abissi dello spirito e uno dei libri più belli scritti nel Novecento.

Quando nel 1961 il XXII congresso del partito lancia la destalinizzazione la Ginzburg, che ha terminato le 400 pagine della prima stesura del romanzo, si trasferisce a Mosca con la speranza di vederlo pubblicato. Una speranza vana perché, anche se Stalin è caduto, l’argomento gulag resta tabù. Nonostante tutto, l’opera della Ginzburg inizia a diffondersi nel samizdat e appena giunge nelle redazioni batte i record di tiratura della letteratura clandestina.

Nel 1967 il primo volume di Viaggio nella vertigine viene pubblicato a Milano da Mondadori: il manoscritto aveva oltrepassato i confini dell’Urss dopo essere stato registrato su nastro all’insaputa della Ginzburg. Presto il libro uscì anche a Londra, Monaco, Parigi, New York e Stoccolma e alcuni capitoli vennero letti alla Bbc. Le memorie della Ginzburg hanno ispirato il film di Marleen Gorris del 2010. Alcune sequenze sottolineano la disumanità della repressione che colpisce la protagonista: i minuti (meno di 5) che i giudici impiegano per emettere una scontata sentenza di condanna. C’è poi la scena del treno che conduce le deportate al campo di prigionia. Una di loro si ostina a cantare una canzone che glorifica Stalin “perché Lui è all’oscuro di quanto sta avvenendo e quando saprà farà giustizia”. In quel momento si percepisce il potere di accecamento delle menti più deboli esercitato dai regimi totalitari, e il livello di fanatismo che essi producono.

venerdì 21 marzo 2014

Il lato oscuro di Wikipedia e la sfida della trasparenza

wikipediadi Alberto Abruzzese (barbadillo.it)

Nelle pagine dell’ultimo numero di Technology Rewiew edizione italiana diretta da Gian Piero Jacobelli si legge un lungo e argomentato resoconto su Wikipedia a firma di Tom Simonite, caporedattore per l’informatica della edisione americana del MIT Technology Rewiew. Tra i tanti dettagli di rilievo, mi pare emergano due punti di criticità. La vertigionosa crescita di questa enciclopedia unica nel mondo continua quanto a numero di voci ma si arresta ed anzi regredisce quanto a numero di collaboratori volontari.
Le ragioni sembrano essere dovute ad una pesante serie di procedure burocratiche di controllo (contro vandalismi e cattiva qualità dei contributi) che hanno l’effetto di scoraggiare la libera partecipazione. Si tratta insomma di milioni di voci che, nonostante la complessa macchina di chi tenta di governarla democraticamente, stentano a essere ordinate a misura dell’utopia con cui Wikipedia è nata. Ma quanto a questo, anche nel suo mondo presumibilmente altruista e disinteressato sembra che i dispositivi della democrazia mostrino tutti i loro difetti.
Si potrebbe dire tuttavia che la burocrazia di Wikipedia sia partecipata (un paradosso da cui altre burocrazie potrebbero trarre qualche indicazione?) e dunque non manchino tentativi di riparare agli errori (anche se con deliberazioni che vengono più dall’alto che dal basso). Da quanto scrive Simonite mi pare però che emerga ed anzi si aggravi qualche meccanismo per così dire “automatico” che riproduce dentro i contenuti delle singole voci gli stessi squilibri di potere del sistema/mondo (ideologie, costumi, abitudini, pregiudizi, mistificazioni). Ad esempio, l’ingombro e la tracotanza del punto di vista maschile/maschilista sul sapere e sulla vita di tutti. E molte altre resistenze al mutamento antimoderno. Infine, altre questioni problematiche vengono indicate in merito alla maggiore qualità e precisione delle voci tecno-scientifiche rispetto a quelle umanistiche.
Calibrare bene il rapporto tra scienze naturali e scienze umane sarà sempre più importante: una questione di sopravvivenza. Obiettivo che non pare essere nell’agenda delle istituzioni e dei partiti a meno che non si voglia continuare a credere alle loro forme di propaganda ideologica. Ad una crisi finanziaria fuori misura come quella presente corrispondono strategie di governo economiche e amministrative sempre più affidate alla violenza dei rapporti di potere locali e globali; sempre più dominate dal pensiero strumentale della tradizione moderna. La vitalità delle scienze umane e dei suoi apparati di formazione si è congelata e, costretta a ritirarsi in se stessa, si è dispersa, spenta. Ma per sapere dirigere un processo e governarlo il tecnico o lo scienziato o l’economista ha bisogno di cultura e non soltanto della propria specializzazione disciplinare, ha bisogno di una vocazione e non solo di una professione, deve interpretare il mondo prima di riprodurlo. Ed invece l’unica dimensione culturale in grado di alimentare ceti sociali dotati di capacità politiche adeguate alla drammaticità di tale crisi è stata emarginata e al contempo si è emarginata. Ho più volte insistito sulla crisi dell’Università. Così il sapere umanistico non serve più a soddisfare i vecchi regimi di senso e tanto meno a sintonizzarsi sui nuovi. Dunque stiamo attraversando una congiuntura unica nella storia della civiltà occidentale: l’umanesimo non serve più alle scienze umane e al suo posto andrebbero negoziati i valori di un sapere in grado di liquidare i miti del progresso, dell’uomo e della civilizzazione. E di liberarsi della falsa coscienza del soggetto moderno.
Cosa c’entra Wikipedia? C’entra e come! Infatti se è vero che essa costituisce un serbatoio di informazioni su ogni disciplina e evento della storia, e se è vero che questo suo immane serbatoio di dati è alimentato da contenuti incapaci di riequilibrare i campi della scienza e della cultura nel senso di cui ho detto sopra, e infine se è vero che gli effetti della sua macchina sapienziale sono e saranno ben difficilmente rintracciabili e valutabili, allora Wikipedia porta in se stessa un rischio epocale fuori controllo, grande quanto gigantesca è la sua quotidiana presenza in un numero sempre più vasto di persone e di contatti. Wikipedia, pur concepita come enciclopedia viva e cioè sempre modificabile e perfettibile, resta comunque all’interno della tradizionale idea di enciclopedia, di un testo universale all’autorità del quale dovere attingere per sapere. Un testo non più chiuso ma aperto, certo (almeno nelle intenzioni), ma in quanto questa sua apertura serve per conservare reputazione in tempi di deregolamentazione come quelli della società post-moderna.
Possiamo allora sostenere che proprio le pratiche online più o meno individuali o relazionali, quelle ultimamente dai più individuate come territori invasi dai grandi poteri economici e politici globali – da Google e Facebook e ad ogni altra diavoleria personalissima seppure autodiretta o eterodiretta – funzionino al di là del bene e del male del sapere tradizionale e lo facciano con una qualche maggiore trasparenza rispetto a Wikipedia? E qualche maggiore possibilità di dare luogo a forme culturali più sensibili alla catastrofe di valori del presente? (dal blog personale del sociologo Alberto Abruzzese)

giovedì 20 marzo 2014

Femminismo e femminilità



di Alain Soral  (L'intellettuale dissidente)

Bisogna distinguere il femminismo e la femminilità. Il femminismo è un movimento politico che pretende che le storia sia lotta dei sessi, basandosi sullo stesso modello di Marx e della lotta di classe. L’obiettivo è liberare le donne dall’oppressione degli uomini. Secondo me, è un comunitarismo vittimistico. Le rivendicazioni femministe sono manipolate per metterle al servizio della società del mercato e del salariato, formula lapalissiana poiché per comprare serve uno stipendio. Le rivendicazioni di emancipazione sono state utilizzate per far lavorare e consumare le donne. Tutto ciò è iniziato negli Stati Uniti con la toria della nuova donna che consiste nel far uscire la donna da casa, in cui il suo ruolo non è quello del mercato, senza potere d’acquisto diretto, e nel forzare la sua coscienza affinché pensi che essere una casalinga, madre, sposa sia un’alienazione e una sofferenza. Passa dalla sfera d’influenza di suo marito a quella del suo datore di lavoro.Alla fine, grazie alla lotta femminista, la donna subisce una doppia alienazione, sia del marito che del datore di lavoro, cioè una doppia giornata, madre di famiglia e lavoratrice. Nelle classi popolari, la sua situazione si è più spesso aggravata che migliorata.

Il femminismo non trascende i rapporti di classe perché, in realtà, l’interesse dell’emancipazione femminista è spesso stato l’interesse delle donne della borghesia, le quali rappresentano la maggior parte delle femministe. Queste borghesi cercano di emanciparsi dal loro ruolo di madre per integrarsi nella società civile cosa che le permeterebbe di esercitare mestieri più interessanti, mentre le donne delle classi popolari devono fare sia il lavoro a casa che quello in fabbrica. Per le classi popolari, l’emancipazione delle donne si concentra nel fuggire dall’imperativo di produzione e nel restare a casa, lusso ed aspirazione per le donne delle classi popolari. Invece, la borghese cerca di uscire dalla nioa al fine di accedere ad una vita sociale più interessante. Quindi c’è una contraddizione raramente identificata dal femminismo. Dimentichiamo spesso che la borghese ha delle domestiche, per fare le pulizie o occuparsi dei bambini ad esempio, tali persone sono altre donne che subiscono quindi la doppia alienazione.

Oggi, il diritto al lavoro è una truffa perché in realtà è un obbligo. Quasi nessuna coppia può vivere con solo uno stipendio. Le femministe ci presentano come un affare il diritto al lavoro mentre è un obbligo e il desiderio del sistema mercantile. Infatti, quest’ultimo vuole estendere il mercato ed il consumo e deve quindi estendere il salariato ed il potere d’acquisto. È la ragione principale per la quale le femministe sono sempre state lusingate dai media ed dal potere, contrariamente alle vere lotte sociali « unisesse ». Le femministe appaiono come le idiote utili della società mercantile, del consumo e del salariato generalizzato. Ovunque il femminismo cresce, la coscienza della lotta di classe regredisce.

mercoledì 19 marzo 2014

Vietato studiare gli autori di destra




di Dino Messina (Corriere della Sera)

Quanto conta il fattore ideologico nella valutazione del curriculum di un professore universitario? La risposta dovrebbe essere «zero», altrimenti si ritornerebbe all’incubo degli anni Settanta, quando in alcuni atenei e in alcune materie difficilmente riuscivi ad andare in cattedra se non professavi la fede nel «metodo marxista». Il pregiudizio ideologico nei concorsi universitari in realtà non è scomparso né è valsa ad eliminarlo la riforma Gelmini che ha istituito liste nazionali di abilitazioni.
Le cronache dei concorsi recenti parlano di candidati bocciati insoddisfatti, cosa del tutto normale. Ma anche di scandalo tra i colleghi a leggere certe motivazioni negative. A Simonetta Bartolini, biografa di Ardengo Soffici, come rilevava ieri Renato Besana su «Libero», è capitato di essere bocciata al concorso di abilitazione a professore associato perché, come si legge nella valutazione di uno dei commissari, Mario Sechi, omonimo del giornalista, «presenta un profilo marcatamente militante», essendosi occupata di «autori rivendicati dalla destra politica come fondativi di una tradizione alternativa a quella “vincente” ed egemonicamente canonizzata: da Soffici a Barna Occhini, di cui ha pubblicato il carteggio, a Papini e Guareschi...». Insomma, va bene tutto, ma guai a occuparsi di autori di destra.

Un po’ lo stesso criterio con cui è stata negata l’abilitazione a professore ordinario a uno studioso più noto, come Alessandro Campi, autore di saggi su Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt, Giovanni Gentile e Gianfranco Miglio. Commentando i diciotto titoli presentati per ottenere l’abilitazione da ordinario in storia delle dottrine politiche, l’esaminatore Angelo d’Orsi ha commentato: «Buona parte di tali lavori affronta il fascismo e i movimenti politici reazionari. Suscita perplessità il carattere fortemente ideologico di tanta parte della sua produzione...». Un giudizio duro per uno storico affermato, non condiviso dalla comunità accademica. Tanto che un’autorità della sinistra come il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha invitato Campi nel comitato scientifico di Biennale democrazia che si svolge a Torino. I casi di valutazione ideologica sono diversi e sembra siano già partiti molti ricorsi.

martedì 18 marzo 2014

L’ultimo eroe (giapponese)



di Gianfranco De Turris (Il Borghese)

Matteo Renzi ha chiamato i suoi oppositori interni, che non accettano l’accordo con Berlusconi, «ultimi giapponesi ». La definizione è spesso usata in questo nostro disgraziato Paese per riferirsi a degli irriducibili che pur messi nell’angolo non vogliono arrendersi, un po’ sciocchi, un po’ illusi, da sfottere, da ridicolizzare.
Noi purtroppo siano fatti così, e peggioriamo sempre più. O meglio il sentire comune, condizionato dalla politica, dagli intellettuali e dal giornalismo, ha questa percezione che gli «ultimi giapponesi» siano dei poveracci che credendo a falsi valori hanno continuato a combattere sino all’estremo. Ci pesa ancora sopra la sindrome dell’8 settembre, dalla fuga di generali e del re, delle truppe abbandonate a se stesse e senza ordini, del «tutti a casa», della divisa gettata alle ortiche. Altrove, e soprattutto nella loro Patria, per fortuna la pensano diversamente sugli «ultimi giapponesi». Il nostro cinismo, il nostro scetticismo, il mostro menefreghismo riescono a svilire tutto, assieme alla tendenza innata di demitizzare ogni cosa seria. Sempre che non intervenga una specifica interpretazione ideologica. Gli «ultimi giapponesi» erano quei piccoli gruppi o reparti militari del Sol Levante, soldati e ufficiali che isolati soprattutto nelle giungle delle Filippine non seppero della resa del Giappone il 15 agosto 1945, o sapendolo non vollero crederci, e continuarono la loro guerriglia per anni, per decenni. A loro ha dedicato un libro ormai fuori commercio E.J.Kahn jr., Gli sbandati (Longanesi,1963). Ma le storie narrate in quell’opera non sono state per niente le ultime, perché l’autore non poteva raccontare la incredibile vicenda del tenente Hiroo Onoda che combatté la sua guerra personale nelle foreste dell’isola di Lubang sino al 1974, dunque per 29 anni, ligio al dovere e alla consegna del suo superiore che gli aveva ordinato di condurre «imboscate e azioni di guerriglia» contro gli americani e i traditori. Insieme a tre commilitoni (uno catturato nel 1949, gli altri due uccisi in scontri armati nel 1954 e nel 1972) continuò a nascondersi e combattere, non credendo che la guerra si fosse conclusa e che l’imperatore Hirohito avesse annunciato la resa del Giappone, una azione per lui impossibile, addirittura impensabile. Non credette alla voce registrata di Hirohito, non credette ai volantini lasciati piovere sulla giungla, credette soltanto al suo vecchio superiore che, rintracciato in Patria e portato a Lubang, lo incontrò. Gli spiegò e lo sciolse dal suo impegno, dalla parola data. Onoda volle seguire tutte le regole che l’onore militare gli imponeva: si presentò con la sua divisa rattoppata e ricucita innumerevoli volte in un trentennio e che non aveva mai gettato via, la spada da ufficiale al fianco, fece il saluto militare e volle consegnarla all’allora presidente delle Filippine a Manila, poi tornò in Giappone, dove venne accolto all’aeroporto da una folla plaudente, dai familiari con le sue foto da giovane, da un picchetto d’onore. Era tornato un vero eroe, non un mentecatto illuso, uno che era stato nella giungla dai 22 ai 51 anni, vivendo quasi una vita alternativa.
Vedendo tempo dopo i film di Indiana Jones e di Robinson Crusoe diceva: «Quando si fa sul serio è un po’ diverso». Se ne andò in Brasile, dove fondò una fattoria, poi se ne tornò in Giappone, dove insegnava corsi di sopravvivenza ai giovani militari nipponici. Ovvio, lui era un vero esperto sul campo… La sua guerra l’aveva raccontata in un libro di memorie subito tradotto in italiano e in seguito non più ristampato dal significativo titolo No Surrender!, vale a dire Non mi arrendo (Mondadori, 1975) anch’esso ormai fuori commercio. È morto il 16 gennaio 2014 per un infarto a 91 anni, sempre considerato un eroe in patria e la notizia è stata data due giorni dopo dal TG1 delle 13,30 con un bellissimo, inaspettato servizio di Giuseppe Solinas con immagini e filmati dell’epoca che ci hanno fatto rivivere dal vivo quegli avvenimenti e ci hanno commosso e dato da pensare. Si sa cosa volesse, e in parte ancora voglia dire il senso dell’onore, e dell’onore militare in specie, per i giapponesi. Lo spirito dei samurai, nonostante il «lavaggio del carattere” operato dagli americani dopo il 1945 e la pervasiva modernità di una nazione supertecnologica, serpeggia ancora nel paese del Sol Levante dove non ci si vergogna di certi sentimenti, dove non si prendono in giro certi fatti, dove esiste un santuario shintoista dove sono ricordati due milioni e mezzo di militari caduti in guerra, una guerra perduta. Sicché il confronto con noi è inevitabile, e non oso immaginare un evento simile nel Belpaese: il ritorno in Patria dopo anni di qualche soldato che non si fosse arreso e avesse continuato a combattere da solo nelle nostre colonie, in Etiopia o Eritrea, dove, peraltro Amedeo Gullet, anche lui tenente, ma di Cavalleria, condusse la guerriglia contro gli Inglesi per lungo tempo. Fossero esistiti questi «ultimi italiani» sarebbero stati considerati dei poveri scemi, visti con vergogna e disprezzo. Si esagera? Purtroppo no, se si considerano recenti vicende nostrane: quel che è stato detto in Parlamento sui morti di Nassirya nella ricorrenza del decimo anniversario della strage con parole di comprensione nei confronti dell’attentatore; oppure l’atteggiamento di certa sinistra che si scaglia contro i due fucilieri di Marina bloccati da due anni in India, «fascisti assassini» che devono pagare per il loro delitto. Dal lato opposto, con la svalutazione e banalizzazione del termine «eroe» e del concetto di «eroico» si tende ad applicarli a chiunque, anche con coraggio, fa soltanto il proprio dovere, tanto il fatto di compierlo è diventato qualcosa di eccezionale e fuori del comune, di «eroico» appunto…
Alle spalle di tutto c’è anche la Dittatura del Doppiopesismo sul senso da dare a «eroismo» ed «eroe» nella ufficialità istituzionale italiana (a livello di forze armate è diverso). Non conta l’aver ubbidito agli ordini ricevuti sino al sacrificio della propria vita, andando anche oltre quel che di umanamente si chiedeva, aver sfidato la morte senza preoccuparsi di se stesso in favore degli altri, aver sopportato l’insopportabile senza cedere per difendere quello in cui si credeva, aver dimostrato uno animo, uno spirito, una vocazione eroici ancorché silenziosamente, essersi sacrificato per un ideale, essersi battuti su posizioni perdute consapevolmente. No, da noi conta soltanto da che parte si stava, dove si era schierati. Gli eroi sino al 1943 non vengono ricordati più a livello istituzionale, politico, quelli caduti per guerre «di aggressione», «colonialiste», «fasciste», «dalla parte sbagliata», «non sentite», e si commemorano soltanto quelli caduti dalla «parte giusta», gli eroi della «resistenza», della «guerra di liberazione». Sono tutti morti «eroicamente», certo, anche se non tutti (io non considero «eroe» chi uccise Giovanni Gentile, o chi sistema bombe là dove deve passare una colonna di soldati, ad esempio), ma alcuni lo sono meno degli altri ed è meglio dimenticarli. Sarà paradossale, ma ad un nostro eroe come Guillet (non caduto sul campo, ma morto nel suo letto a 103 anni) gli inglesi che lo ebbero di fronte come nemico gli hanno dedicato una partecipe biografia (Sebastian O’Kelly, Amedeo – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, 2002). Noi invece tendiamo a dimenticarli, a rimuoverli come se quella guerra perduta (perduta come quella del Giappone) non fosse mai avvenuta. Anche se ne esiste una biografia italiana (Vittorio Dan Segre, La guerra privata del tenente Guillet, Corbaccio, 1993) è un esempio per dire che in certi Paesi che pure furono nostri avversari, si concepisce l’onore militare in assoluto, mentre noi lo consideriamo soltanto in base alla parte dove si era schierati, al punto di accogliere festosamente gli aviatori alleati che hanno distrutto le nostre città. È accaduto anche questo… Se un popolo supera le sue avversità, di qualunque tipo esse siano, è perché possiede dei valori di fondo in cui ancora crede e soprattutto si riconosce, un senso dell’unità, un orgoglio nazionale, il rispetto verso chi compie sino in fondo il proprio dovere per tutti noi e rispetta la parola data, anche se appartengono ad un mondo ormai scomparso. Un filo che lega il passato al presente e al futuro, fatto di queste credenze e di questi valori in Giappone ancora resiste, in Italia si è spezzato da tempo. È anche per questo che i Giapponesi possono superare i loro drammi e noi non ci riusciamo ancora. Possiamo concludere con la frase che Daniele Scalea ha pubblicato su Huffington Post, a chiusura di un articolo, bello e anticonformista dati i tempi, capovolgendo la disgraziata espressione di Brecht tanto spesso citata: «Sventurata quella nazione che non ha bisogno di eroi, perché significa che ha scelto coscientemente d’avviarsi sulla strada della decadenza».

lunedì 17 marzo 2014

2 Cinema. “300″ e l’alba di un impero diventata il tramonto degli States

300 di Mario de Fazio (barbadillo.it)


“Lo chiamano il sogno americano, perché devi essere addormentato per crederci”, diceva il comico George Carlin. Il risveglio, però, può essere ancora più traumatico. Soprattutto se passa (anche) dal cinema. E così “300 – L’alba di un impero”, che spopola al botteghino in questi giorni nelle sale italiane, può forse raccontare il tramonto, ormai in atto, della fiducia a stelle e strisce nel ruolo attuale della maggiore potenza occidentale.
Il film è il seguito – anzi, tecnicamente, il midquel – della fortunata pellicola del 2003, tratto come il precedente, da un romanzo grafico di quel folle genio di Frank Miller. L’epopea degli spartani sul grande schermo è diventata negli anni un must che racconta l’esempio di Leonida e della sua guardia personale, ma soprattutto che illumina, a sprazzi, sull’organizzazione sociale spartana e su un modello di “democrazia” alternativo al popolo di “filosofi ed effeminati” di derivazione ateniese, cui (impropriamente) si fa risalire l’attuale declinazione della democrazia occidentale.
Non si può certo pretendere di appassionarsi al “comunismo dorico” di Sparta tramite un film. Ma 300 dà, a chi è all’asciutto, la voglia di bere. Verrà poi il momento, se quel sentir lo si percepisce comune, di leggere le “virtù di Sparta” di Plutarco o le storie di Erodoto. Non si può dire lo stesso del raffazzonato seguito che svetta in questi giorni in testa alle classifiche. Inutile disquisire di verosimiglianza con i fatti realmente accaduti. È compito degli storici.
Ma mentre 300 era, pur con i limiti del mezzo, un racconto epico, il seguito somiglia a un romanzetto individuale a metà tra l’harmony e il noir. C’è spazio persino per un amore consumato (o forse no?) tra Temistocle e Artemisia, mentre si discute delle sorti del mondo. Ma, e qui la differenza è sostanziale, non c’è il racconto collettivo di un esempio. Leonida è il re ma non avrebbe senso senza i suoi trecento. Temistocle sembra, nella migliore delle ipotesi, un Nixon con più addominali e meno scrupoli. Il primo guarda l’oplita che gli sta al fianco, il secondo alle magnifiche sorti e progressive che gli si parano avanti.
“L’alba di un impero” al massimo fa godere delle contraddizioni di una modernità in crisi che non riesce nemmeno più, pur quando vorrebbe, ad autocelebrarsi. I continui appelli alla democrazia risultano poco convinti, per non parlare del delirante uso (per tre volte), almeno nel doppiaggio italiano, del termine nazione, che avrebbe visto la luce soltanto diversi secoli dopo.
Qualcuno, all’uscita del primo lungometraggio epico ispirato alle tavole di Miller (2007) , aveva letto in filigrana – storpiando e tirando per i capelli le visioni del fumettista – il tentativo di celebrare gli Usa come potenza che combatteva la guerra santa al terrorismo. In base a questa interpretazione, gli spartani sarebbero addirittura diventati gli antenati degli americani in guerra, per difendere democrazia e libertà,  contro i talebani afgani (o i soldati iracheni di Saddam), che retrocedevano automaticamente a eredi delle barbare armate di Serse.
“L’alba di un impero” sembra invece la stanca ripetizione di una funzione che lo zio Sam non riesce più, suo malgrado, a svolgere. È così il finale è forse la parte migliore del film. O meglio, i titoli di coda, con “War pigs” dei Black Sabbath ad accompagnare le tavole originali di Miller. Se il messaggio che vuole suggerire il film è quello di celebrare, nonostante tutto, il modello di democrazia americana, l’obiettivo non solo è fallito. Ma, a giudicare dal ruolo degli States nell’attuale geopolitica – la crisi ucraina è lì a mostrarlo – risulta persino ridicolo.

domenica 16 marzo 2014

FOIBE E SOVRANITA': UN SUCCESSO IL CORTEO TRICOLORE A FIRENZE...




Ogni anno è un'emozione. Questo era il nono corteo consecutivo organizzato da Casaggì, ed è stato un successo oltre ogni aspettativa. Un successo possibile solo grazie ai sacrifici e agli sforzi militanti di tanti ragazzi che hanno donato se stessi senza tregua per la realizzazione di una giornata che ormai è diventata un pezzo di storia. Anche quest'anno centinaia di persone hanno marciato, tricolore alla mano, per colorare il grigiore di questa città. Anche quest'anno è stata data una magnifica lezione di coraggio, di compostezza e di maturità. 

Per la prima volta il corteo non ha toccato soltanto il tema del ricordo dei martiri infoibati e dell'esodo dalle terre italiane di Istria, Fiume e Dalmazia, ma è partito da quella tragedia e - connettendosi all'anniversario dell'unità d'Italia - ha affrontato il presente e immaginato il futuro. 

Dietro a Giorgia Meloni e ai tanti ospiti presenti, decine di striscioni hanno invocato un'Italia sovrana, libera dalle catene della tecnofinanza e della burocrazia europea, capace di farsi rispettare e di non lasciare i propri soldati a marcire in qualche galera straniera, forte delle proprie radici e della propria identità. Un'Italia in grado di riappropriarsi della propria moneta, lontana parente di quel paese che ha svenduto Bankitalia con un blitz parlamentare. Un'Italia in piedi, capace di recuperare quella partecipazione popolare che, solitamente, sceglie i governi nei sistemi democratici. Un'Italia in grado di uscire dalla crisi senza cadere nel tranello di delegarne le soluzioni agli artefici delle sue cause. 

Quei tricolori al vento e quell'entusiasmo sono stati la migliore risposta alle minacce, alle contromanifestazioni e alle invettive dei soliti rancorosi, quelli delle bandiere sovietiche e titine, delle scritte sui monumenti e della quotidiana demenza dettata dall'odio e dal risentimento. La nostra è una piazza diversa: senza simboli, senza personalismi, senza rancori, senza prepotenze e senza paura. Una piazza pulita, fatta di gente vera, di giovani, di cittadini che hanno a cuore il futuro della propria Nazione e del proprio Popolo. 

Una piazza per la quale vale la massima che recita così: "Nei momenti felici la gioventù di una nazione riceve gli esempi, nei momenti difficili li dà". Un grazie di cuore a chi c'era: siamo il futuro dell'Italia.

venerdì 14 marzo 2014

La crisi? Per i sindacati non c’è: quasi 1 miliardo all’anno di soldi pubblici


di Roberto Guiscardo


La vecchia proposta di Grillo di abolire i sindacati perché “inutili” e la recente dichiarazione di Renzi – “Avremo i sindacati contro? Ce ne faremo una ragione”- puntano i riflettori su quella che è una vera e propria casta. Una macchina di soldi e di consensi. Anche se in realtà rappresentano meno di un quarto dei lavoratori italiani.

Più ricchi del re Mida. E dire che ormai sono anni che si denuncia il copioso finanziamento pubblico di cui giovano i sindacati italiani ma la politica, come al solito, fa finta di nulla. Nel 2009 uscì, edito da Bompiani, un libro, “L’altra casta”, scritto da Stefano Livadiotti, giornalista de L’Espresso, li ha definiti “Una congrega sorda verso ogni forma di meritocrazia che ha finito per bloccare l’ascensore sociale, condannando i più deboli a restare tali”. “ Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali – continua Livadiotti – che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell’ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perchè le loro fonti di guadagno sono le più disparate”. Ma quali sono le loro fonti di guadagno?

I tre maggiori sindacati italiani, che ricordano il Cerbero dantesco, che “con tre gole caninamente latra”, lucrano innanzitutto sulle quote associative: 30/40 euro l’anno per ogni associato. Per i pensionati ci pensa l’Inps a pagare: nel 2006, ad esempio, a Cgil, Cisl e Uil sono andati 200 milioni di euro .

I Caf sono l’altra ingente fonte di guadagno sindacale. Per la compilazione dei redditi dei pensionati, l’Inps versa in media nelle casse dei sindacati 120 milioni l’anno. Mentre per i lavoratori attivi si parla di oltre 180 milioni di euro.

Non possono mancare i patronati, che, da quando possono anche rinnovare il permesso di soggiorno per gli immigrati, incassano quasi 350 milioni di euro.

Ai circa 20 mila dipendenti dei sindacati, si aggiungono circa 3 mila impiegatiletteralmente prestati dallo Stato, il cui stipendio, manco a dirlo, è pagato con i soldi pubblici.

Con una legge del 1977 sono stati attribuiti agli attuali sindacati, i patrimoni immobiliari deisindacati fascisti, differenti per funzioni e natura giuridica. La Cgil dichiara circa 3 mila sedi in Italia, la Cisl 5 mila. Per questi locali non pagano un euro di Imu.


Renzi il rivoluzionario? Ma allora perché Renzi attacca di petto i sindacati, principalmente interlocutori della sinistra, in modo così frontale? Per difendere il suo nome di rivoluzionario pur senza esserlo. È in atto una guerra tra Susanna Camusso eMaurizio Landini, segretario della Fiom, che va molto d’accordo con Renzi. Landini aveva addirittura chiesto alla Camusso di sospendere il congresso della Cgil per la fase di eccesso di “personalizzazione” cui sta andando incontro secondo il segretario dei metalmeccanici. “Abbiamo raggiunto il punto più basso della storia della Cgil per assenza di democrazia interna – aveva dichiarato a gennaio Papignani, segretario emiliano della Fiom – bisogna fermare la deriva autoritaria della Cgil per ripristinare una democrazia interna che oggi non c’è più”. E a Landini non pare vero che Renzi gli faccia da spalla per far fuori la Camusso.
Perché cambino i nomi e tutto resti com’è, s’intende.

giovedì 13 marzo 2014

La prossima guerra come concetto



di Alexander Dugin

La guerra contro la Russia è per ora la questione più discussa in Occidente.
E’ ancora una suggestione e una possibilità. Può trasformarsi in realtà a seconda delle decisioni adottate da tutte le parti coinvolte nel conflitto ucraino – Mosca, Washington, Kiev, Bruxelles.
Non voglio discutere qui di tutti gli aspetti e della storia di questo conflitto. Propongo invece l’analisi delle sue radici ideologiche profonde. La mia visione degli eventi principali si basa sulla Quarta Teoria Politica, i cui principi ho descritto nel mio libro pubblicato con lo stesso nome, apparso in inglese per la casa editrice Arktos qualche anno fa.
Quindi non ho intenzione di studiare la guerra dell’Occidente con la Russia valutando i suoi rischi, i pericoli, i problemi, i costi e le conseguenze, ma di concentrarmi sul suo significato ideologico su scala globale. Sto pensando al senso di questa guerra e non della guerra stessa (reale o virtuale).

Essenza del liberalismo

Nell’ Occidente moderno c’è una pregiudiziale ideologia dominante – il liberalismo. Esso ha molti tipi, versioni e forme, molte sfumature, ma l’essenza è sempre la stessa. Il liberalismo ha in sé una struttura interna che segue principi assiomatici
• individualismo antropologico (l’individuo è la misura di tutte le cose);
• progressismo (il mondo sta andando verso un futuro migliore, il passato è sempre peggiore del presente);
• tecnocrazia (lo sviluppo tecnico e una performance efficace sono considerati il più importante metro di giudizio per la natura della società);
• eurocentrismo (la società euro- americana è accettata come standard di misura per il resto dell’umanità);
• l’economia è il destino (l’economia di libero mercato è l’unica per il sistema economico-normativo – tutte le restanti tipologie sono da riformare o da distruggere);
• la democrazia è il governo delle minoranze (che si difendono contro la maggioranza da sempre incline a degenerare in totalitarismo, “populismo”);
• il ceto medio è l’unico vero attore sociale esistente e norma universale (indipendentemente dal fatto che le persone abbiano già raggiunto questo status o siano sulla strada per diventare una vera classe media, che rappresenti chi vorrebbe essere il ceto medio per un momento);
• un mondo, globalismo (gli esseri umani stanno diventando sostanzialmente tutti la stessa con una sola distinzione – individualismo – il mondo dovrebbe essere integrato nella sfera individuale, cosmopolitismo – la cittadinanza mondiale).
Questi valori fondamentali del liberalismo sono la manifestazione di una delle tre tendenze nate durante l’Illuminismo, fianco a fianco con il comunismo e il fascismo, che proposero interpretazioni alternative dello spirito della Modernità. Nel corso del XX secolo il liberalismo ha vinto i suoi rivali e dopo il 1991 è diventata l’unica ideologia dominante su scala mondiale.
L’unica libertà di scelta nel regno del liberismo globale è stata tra il liberalismo di destra, il liberaralismo di sinistra e il liberalismo radicale, includendo il liberalismo di estrema destra, di estrema sinistra e il liberalismo molto radicale.
Così il liberalismo è stato installato come sistema operativo delle società occidentali e di tutte le altre società che si trovano nella zona di influenza occidentale. Esso è da un preciso momento il comune denominatore di ogni discorso politicamente corretto, il marchio di tutto ciò che è accettato dalla politica tradizionale o rifiutato solo marginalmente. La saggezza convenzionale stessa è diventata liberale.
Il Liberalismo geopolitico è stato iscritto nel modello USA-centrico dove gli anglosassoni erano il principale gruppo etnico del partenariato atlantista Euro-americano, la NATO, e rappresentavano il nucleo strategico del sistema di sicurezza mondiale . La sicurezza mondiale è stata eguagliata con la sicurezza dell’Occidente e, in ultima istanza con la sicurezza americana. Così il liberalismo non è solo un potere ideologico , ma anche un potere politico , militare e strategico . La NATO è liberale nelle sue radici . Difende società liberali , combattendo per il liberalismo .

Il liberalismo come nichilismo

C’è un punto nell’ ideologia liberale che è responsabile della sua crisi attuale.
Il liberalismo è profondamente nichilista nel suo centro . L’insieme di valori difesi dal liberalismo è essenzialmente legato alla tesi principale: libertà-liberazione. Ma la libertà nella visione liberale è essenzialmente una categoria negativa :pretende di essere liberi da ( J.S. Mill ) ,non di essere libero di.
Questo non è secondario, è l’essenza del problema .
Il liberalismo è la lotta contro ogni forma di identità collettiva , contro tutti i tipi di valori , progetti , strategie , obiettivi , fini e tutto ciò che sia collettivista , almeno non individualista . Questo è il motivo per cui uno dei più importanti teorici del liberalismo, Karl Popper ( seguito da F. v Hayek ) nel suo importante libro ” La società aperta e i suoi nemici “ (considerato da G. Soros come la sua Bibbia personale ) ha affermato che i liberali dovrebbero combattere ogni ideologia o filosofia politica ( da Platone e Aristotele a Marx e Hegel ), che proporrà alla società umana qualche obiettivo comune , valore comune , senso comune. Così i nemici della società aperta ( per la società occidentale post 1991 e come norma globale per il resto del mondo è considerato proprio questo modello liberale di società aperta ) sono concrete . I nemici principali sono il comunismo e il fascismo ( entrambi emanati dalla stessa filosofia illuminista con i loro concetti centrali non-individualisti – la classe nel marxismo , la razza nel nazional-socialismo , lo Stato nazionale nel fascismo ). Così il senso della lotta del liberalismo contro l’alternativa moderna esistente ( il fascismo o il comunismo ) è abbastanza evidente. I liberali sostengono di liberare la società dal fascismo e dal comunismo , dalle due principali versioni moderne del (esplicitamente non- individualista ) totalitarismo . La lotta del liberalismo nel processo di liquidazione delle società non liberali è piuttosto significativa : essa acquista il suo significato dal fatto che esistono ideologie che negano esplicitamente di accettare l’individuo come valore massimo . E’ abbastanza chiaro contro cosa sia la battaglia. Dove sia mirata la Liberazione . Ma il fatto che la libertà ( come concepito dai liberali ) è essenzialmente una categoria negativa qui non è chiaramente percepito . Il nemico è qui ed è concreto . Tale circostanza dà molti contenuti concreti al liberalismo. Non c’è società aperta e la sua esistenza di fatto è sufficiente a giustificare il processo di liberazione .

Periodo unipolare : minaccia di implosione

Nel 1991 , quando l’URSS, come ultimo avversario del liberalismo occidentale è caduto, alcuni occidentali (come F. Fukuyama ) hanno proclamato la fine della storia . E’ abbastanza logico : non c’era più nessun nemico esplicito della società aperta – quindi svaniva ciò che è stato durante la Modernità: la lotta tra tre ideologie politiche ( liberalismo , comunismo e fascismo ) per l’eredità dell’Illuminismo . Questo è stato, strategicamente parlando, il momento unipolare ( cap. Krauthammer ) . Questo periodo 1991 – 2014 , con punto focale nell’attacco di Bin Laden contro il World Trade center – è stato davvero il periodo di dominazione globale del liberalismo . Gli assiomi del liberalismo sono stati accettati da parte dei principali attori geopolitici – la Cina (in economia ) e Russia ( in ideologia , economia, sistema politico ) . I Liberali erano sostanzialmente i liberali “propri” , i non ancora i liberali , i non abbastanza liberali e così via . Le eccezioni reali ed esplicite erano poche (Iran , Corea del Nord) . Così il mondo è diventato liberale attraverso un assioma ideologico.
Quello era proprio il momento più importante nella storia del liberalismo.
Ha sconfitto i suoi nemici ma allo stesso tempo li ha persi. Il liberalismo è essenzialmente la liberazione, la lotta contro ciò che non è liberale (per poco o affatto). Quindi, dai propri nemici liberalismo ha acquisito il suo vero significato, il suo contenuto. Se la scelta è la non-libertà (rappresentata in concreto dalla società totalitaria) o la libertà, molti scelgono la libertà non meditando libertà per cosa, libertà di fare cosa. Quando c’è una società non-liberale il liberalismo è positivo. Comincia a mostrare la sua essenza negativa solo dopo la vittoria.
Dopo la vittoria del 1991, liberalismo ha intensificato la sua fase implosiva. Dopo aver sconfitto il comunismo e il fascismo è rimasto solo. Con nessun nemico da combattere. E quello era il momento di cominciare una lotta interiore, la purga liberale delle società liberali cerca di uccidere gli ultimi elementi non liberali – sessismo, politicamente scorretto, disuguaglianza tra i sessi, eventuali resti di dimensioni non-individuali di istituzioni come Stato, Chiesa e così via. Dunque il liberalismo ha bisogno di un nemico da cui liberare qualcosa o qualcuno. Altrimenti esso perde il suo contenuto, il suo nichilismo implicito diventa troppo saliente. Il trionfo assoluto del liberalismo diventa la sua morte.
Questo è il significato ideologico della crisi finanziaria dei primi mesi del 2000 e del 2008. I successi e non i fallimenti della nuova economia puramente finanziaria (di turbocapitalismo secondo G. Lytwak) sono responsabili per il suo collasso. La libertà di fare quello che vuoi, ma solo su scala individuale provoca implosione della personalità. L’uomo passa al regno infra-umano, al dominio sub-individuale. E qui incontra virtualità. Come sogno sub-individuale, la libertà da qualsiasi cosa. Questa è evaporazione dell’umanità. L’impero del nulla come ultima parola della vittoria totale del liberalismo. Il Post-Modernismo prepara il terreno per quel riciclaggio post-storico autoreferenziato di non-senso.

Occidente bisognoso del nemico

Voi potreste chiedere ora: cosa ha tutto questo in comune con la prossima guerra con la Russia? Sono pronto a rispondere ora.
Il liberalismo ha avuto successo su scala globale . E’ il fatto del 1991 . E ha cominciato subito a implodere . E ‘arrivato al punto terminale e ha iniziato a liquidare se stesso . La migrazione di massa , lo scontro di culture e civiltà , la crisi finanziaria , il terrorismo virtuale , la crescita dell’etnismo, sono segni di avvicinamento al caos . Quindi questo caos mette in pericolo l’Ordine . Qualsiasi tipo di ordine, compreso ordine liberale stesso . Più liberalismo ha successo più si avvicina alla sua fine . E alla fine del mondo attuale .
Qui abbiamo a che fare con l’essenza nichilista della filosofia liberale, con il nulla come interno (me) principio ontologico della libertà da. Arnold Gehlen, antropologo tedesco, ha definito giustamente l’uomo come “essere privo”, Mangelwesen. L’uomo in se stesso non è nulla. Prende tutto quello che compone la sua identità dalla società, la storia, la gente, la politica. Quindi, se torna nella sua pura essenza si può riconoscere come non ci sia niente. L’abisso è nascosto dietro le frammentate macerie dei sentimenti, pensieri vaghi, desideri.
La virtualità delle emozioni sub-umane è un sottile velo dove dietro di esso c’è oscurità pura. Così la scoperta esplicita di questa base nichilista della natura umana è l’ultima realizzazione del liberalismo. Ma questa è la fine. Ed è la fine anche per coloro che utilizzano il liberalismo per i loro scopi, che sono beneficiari dell’espansione liberale, i maestri della globalizzazione. Qualsiasi ordine rientra in tale emergenza del nichilismo. Anche l’ordine liberale.

Quindi, al fine di salvare il ruolo dei beneficiari del liberalismo essi hanno bisogno di un certo passo indietro . Il liberalismo acquisirà il suo senso solo trattando una volta di più con la società non- liberale . Un passo indietro è l’unico modo per salvare i resti dell ‘ordine , per salvare il liberalismo da se stesso . Così la Russia di Putin appare all’orizzonte . Non antiliberale , non totalitaria , non nazionalista , non comunista. Piuttosto non ancora troppo liberale , non pienamente liberal – democratica , non sufficientemente cosmopolita , non così radicalmente ANTI-comunista. Ma sulla strada per diventare liberale. Passo dopo passo . Nel processo di adeguamento gramsciano di egemonia , trasformismo.
Ma nell’agenda globale del liberalismo (USA, NATO) vi è la necessità di un altro attore, un’altra Russia che giustifichi l’Ordine nella sfera del campo liberale, contribuendo a mobilitare l’Occidente che cade a pezzi per problemi interni, dando all’inevitabile eruzione del nichilismo interiore un certo ritardo e salvando così il liberalismo dalla sua prossima logica fine. Ecco perché hanno tanto bisogno di Putin, della Russia, della guerra. E ‘l’unica soluzione per evitare il caos ad Ovest e salvare i resti dell’Ordine. La Russia in questa commedia ideologica, giustifica l’esistenza stessa del liberalismo, perché essa è il nemico che dà il senso alla lotta della società aperta, che aiuta a consolidare e a continuare ad affermarsi a livello globale.
L’islam radicale (al-Qaeda) era l’altro candidato per questo ruolo, ma come nemico mancava la statura. E’ stato utilizzato ma su scala locale. Esso ha ‘giustificato gli interventi in Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, ha contribuito a rovesciare Gheddafi, alla guerra civile iniziata in Siria. Ma era troppo debole e ideologicamente primitivo per rappresentare la vera sfida necessaria ai liberali.
La Russia – tradizionale nemico geopolitico degli anglosassoni – è molto più serio come avversario. Si adatta bene a tutte le richieste – la memoria storica e la guerra fredda è ancora viva nella mente. L’odio per la Russia è cosa molto facile da provocare com relativamente pochi mezzi. Ecco perché penso che la guerra con la Russia sia possibile. E ‘ideologicamente necessaria come ultimo mezzo per ritardare l’implosione finale del liberalismo occidentale. Un passo indietro.

Per salvare l’Ordine liberale

Considerando diversi livelli di questo concetto di ” guerra con la Russia” suggerisco alcuni punti .
1 . La guerra con la Russia aiuta a ritardare disordini comune su scala globale . La maggior parte dei paesi sono stati coinvolti nell’economia liberale , condividono gli assiomi e le istituzioni della democrazia liberale ed essendo dipendenti o direttamente controllate da USA e NATO , consolideranno una volta di più la sponda dell’Occidente liberale nella propria ricerca contro il non- liberale Putin. Può servire come riaffermazione del liberalismo come identità positiva quando questa identità si sta dissolvendo per la sua essenza nichilista .
2 . La guerra con la Russia rafforzerebbe la NATO e soprattutto tutte le sue parti europee che saranno costrette, ancora una volt,a a considerare la superpotenza americana come qualcosa di positivo e utile , e il resto roba obsolete della guerra fredda . Nel timore che i russi cattivi tornino, gli europei si sentiranno di nuovo fedeli agli Stati Uniti d’America , il loro salvatore . Così la leadership degli USA nella NATO sarà ribadita.
3 . L’UE sta cadendo a pezzi . La minaccia comune dei russi potrebbe evitare l’eventuale scissione e mobilitazione della società rendendo le persone una volta di più desiderosi di difendere le loro libertà e i loro valori sotto la pressione dell’Impero di Putin.
4. L’ Ucraina e la giunta di Kiev hanno bisogno della guerra per giustificare e coprire tutte le malefatte compiute da Maidan a livello giuridico e costituzionale, per sospendere la democrazia (che significherebbe impedire il loro dominio nella parte sud-orientale, per lo più distretti filo-russi) e per installare la regola e l’ordine nazionalistico con mezzi supplementari.
L’unico paese che ora non vuole la guerra è la Russia. Ma Putin non può non ascoltare, a causa di un governo radicalmente anti-russo, un paese con metà della popolazione russa e molte regioni filo-russe. Se ha lasciato correre è per ciò che sarà fatto a livello internazionale e nazionale. Così a malincuore accetta la guerra. E una volta entratevi dentro non ci sarà altra soluzione per la Russia se non vincere.

Non mi piace speculare sugli aspetti strategici della guerra. Ho lasciato che altri analisti qualificati lo facessero. Vorrei formulare alcune idee sulla dimensione ideologica di questa guerra.

Analizzando Putin

Il significato di questa guerra alla Russia è l’ ultimo sforzo per salvare il liberalismo dall’ implosione . Se è così, liberali devono definire ideologicamente la Russia di Putin - ovviamente essi la identificano con il nemico della società aperta . Ma nel tesauro delle moderne ideologie ci sono solo tre versioni principali. Il liberalismo , il comunismo e il fascismo ( nazismo ) . E ‘chiaro che il liberalismo è rappresentato da tutti tranne la Russia (USA , NATO , Euromaidan , Kiev giunta ) . Così rimangono il comunismo e il fascismo . Allora Putin sarà sovietico , il comunista del KGB. Questa immagine sarà venduta per la razza più stupida del pubblico occidentale . Ma alcuni aspetti della reazione patriottica della popolazione filo-russa e anti-banderite (difesa dei monumenti di Lenin , dei ritratti di Stalin e della memoria della seconda guerra mondiale ) potrebbe confermare l’ idea. Il nazismo e il fascismo sono troppo lontani da Putin e dalla Russia moderna , ma il nazionalismo russo e l’imperialismo russo saranno evocati nella costruzione dell’immagine del Grande Male. Così Putin è nazionalista, fascista e imperialista. Putin può essere comunista e bolscevico allo stesso tempo, così sarà rappresentato come un nazional-bolscevico (ma che è un po ‘complicato da vendere per il completamente ignorante post-moderno pubblico occidentale). E ‘ovvio che nella realtà Putin non è nè comunista, né fascista, né entrambi. Egli è politicamente realista (perciò che riguarda le Relazioni Internazionali – è per questo che ama Kissinger e Kissinger lo ama a sua volta). Egli non ha alcuna ideologia di sorta. Ma egli sarà obbligato a soddisfare la cornice ideologica. Non è una sua scelta. Queste sono le regole del gioco. Nel corso della guerra alla Russia Putin sarà incorniciato e questo è l’aspetto più interessante e appassionante della situazione.

L’idea principale è che i liberali cercheranno di definire Putin ideologicamente come l’ombra del passato , come un vampiro , “a volte ritornano ” . Questa è la ragione del passo indietro per evitare che al liberalismo l’implosione finale .
Il messaggio principale è che il liberalismo è molto vivo e pieno di forza perché c’è qualcosa nel mondo da cui tutti noi dobbiamo essere liberati . La Russia diventa l’oggetto della liberazione . L’obiettivo è liberare l’ Ucraina (Europa , l’umanità ) dalla Russia , e alla fine liberare la Russia da se stessa, dalla sua identità non- liberale. Così abbiamo un nemico . Tale nemico dà al liberalismo ragione di esistere una volta di più . Così la Russia è la sfida del passato pre- liberale gettato nel presente liberale. Senza tale sfida non c’è più vita per il liberalismo , non più per l’Ordine nel mondo, tutto sta dissolvendo e implodendo. Con tale sfida la gigante caduta del globalismo acquista nuovo vigore . La Russia è qui per salvare i liberali .
Ma per fare questo la Russia dovrebbe essere ideologicamente inquadrata come qualcosa di pre- liberale. Quindi dovrebbe essere comunista, fascista o almeno una Russia nazional- bolscevica . Questa è il ruolo ideologico . Quindi nella lotta con la Russia c’è un più profondo compito – inquadrare la Russia ideologicamente . Sarà fatto dall’interno e dall’esterno . Si cercherà di costringere la Russia ad accettare il comunismo o il nazionalismo o di trattare la Russia come se fosse comunista o nazionalista. Questo è il gioco delle parti.

Russia post-liberale: la prima guerra della Quarta Teoria Politica.

Quello che propongo in conclusione è il seguente:
Abbiamo bisogno di reagire consapevolmente a qualsiasi tentazione di inquadrare la Russia come potenza pre- liberale. Abbiamo bisogno di non lasciare che i liberali si salvino, ma che si avvicinino fatalmente alla fine . Non abbiamo bisogno di ritardare la fine, noi dobbiamo accelerarla . Per farlo abbiamo bisogno di presentare la Russia non come entità pre- liberale, ma come forza rivoluzionaria post-liberale che lotta per il futuro alternativo per tutti i popoli del pianeta . Una guerra russa non sarà per gli interessi nazionali russi , masolo per il mondo multipolare , per la dignità reale e vera, una libertà positiva – non la libertà da , ma libertà di. La Russia in questa guerra diventerà l’esempio della difesa della Tradizione , dei valori biologici conservatori , vera liberazione dalla società aperta e dai suoi beneficiari – dall’oligarchia finanziaria globale . Questa guerra non è contro l’Ucraina o una parte di ucraini . Né contro l’Europa . E’ contro il (dis)ordine del mondo liberale e noi non salveremo il liberalismo, ma ci accingiamo ad ucciderlo una volta e per sempre . La modernità era essenzialmente sbagliata . Siamo al punto terminale della modernità . Per chi farà del proprio destino la modernità o lascierà che sia fatta inconsciamente, per lui significherà fine reale. Ma per coloro che sono dalla parte della verità eterna della Tradizione , della Fede, della essenza umana spirituale e immortale sarà il nuovo inizio .
La lotta più importante ora è la lotta per la Quarta Teoria Politica. E’ la nostra arma e con essa stiamo per evitare di inquadrare Putin come i liberali vogliono e riaffermare la Russia come primo potere ideologico post-liberale in lotta contro il liberalismo nichilista, per il bene di un futuro aperto, multipolare e realmente libero .