di Roberto Chiarini
Oggi nella Sala Capranichetta in piazza Montecitorio, a Roma, nell’anno del centenario della nascita di Giorgio Almirante (1914-1988) si è tenuto il convegno «Giorgio Almirante e la Cisnal». Presente Donna Assunta Almirante, sono intervenuti Gaetano Rasi; il sen. Romano Misserville; Massimo Magliaro, storico capo ufficio stampa di Almirante; il segretario generale UGL Giovanni Centrella; e il professor Roberto Chiarini (docente di Storia contemporanea e Storia dei partiti all’Università statale di Milano).
È passato circa un quarto di secolo dalla scomparsa di Giorgio Almirante. È passato un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino. È passato un quarto di secolo dal crollo della Prima Repubblica. È passato un quarto di secolo in un primo tempo dalla rifondazione, poi dalla dissoluzione della sua creatura politica: quel Msi con il quale quasi si è identificata la sua vita di leader di partito. È ragionevolmente passato abbastanza tempo, quindi, perché si possa pensare a stendere un bilancio non partigiano, non schiacciato sulla contingenza, ma inserito in una prospettiva di più lungo respiro, della sua figura e della sua opera politica.Il punto di partenza imprescindibile di una riflessione sul ruolo e sul significato della sua esperienza politica non può che essere la constatazione della originalità assoluta della sfida che la destra fu chiamata ad affrontare nel nostro dopoguerra rispetto alle altre democrazie europee. Un’originalità che affonda le sue radici nel profondo della storia nazionale, ancor prima della nascita dello stato unitario, almeno nel Risorgimento.
Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in genere in tutti i paesi anglosassoni la destra si è presentata all’appuntamento della democrazia di massa con le carte in regola. È stata sin dall’inizio un attore politico insieme pienamente legittimo e protagonista della dialettica democratica. Anche la Germania, che pure esce nel 1945 da un passato pesantemente segnato dalla compromissione con l’esperienza più pesante del ventennio totalitario entre deux guerres, ha saputo relegare il nostalgismo neonazista nel recinto dell’illegalità; il che lo ha condannato a un’emarginazione cosi netta e scontata da consentire al sistema politico tedesco di animare senza grandi sconquassi una dialettica destra/sinistra proficua per il consolidamento di una «democrazia normale». Nella stessa Francia, che pure ha conosciuto – oltre a un regime collaborazionista con l’occupante nazista – anche molteplici esperienze di destra convintamente nemica dei valori e degli istituti democratici, si è presentata all’indomani della guerra con credenziali a posto tanto da assicurare alla destra un ruolo da protagonista nella Francia della IV e della V Repubblica. Con De Gaulle, infatti, non solo la destra francese si presenta nel dopoguerra repubblicana e democratica, ma addirittura simbolo del riscatto della nazione dal collaborazionismo di Vichy e capofila/portabandiera della democrazia grazie al contributo offerto nella lotta di liberazione nazionale dai nazisti.
Tutt’altro discorso bisogna fare per la destra italiana. All’indomani della guerra e della caduta del fascismo la destra da noi non ha alle spalle nessun antecedente di destra cui riallacciarsi per costruirsi un futuro non solo di peso, adeguato cioè alla dimensione di massa imposta dal suffragio universale maschile e – per la prima volta – anche femminile, ma nemmeno dotato di legittimità nel nuovo quadro politico postbellico. Solo per fare un confronto con il paese ad essa più congeniale, come la Francia, la destra italiana non ha conosciuto nell’800 qualcosa di analogo alla destra tradizionalista, alla destra orleanista o alla destra bonapartista. La costruzione dello Stato nazionale e della stessa Nazione è avvenuta all’insegna e nel nome di un ideale liberaldemocratico che ha individuato nel blocco sociale, nei referenti ideali, nelle formazioni politiche avverse a un liberalismo laico e modernizzatore le vere forze nemiche da isolare prima e da mettere nelle condizione di non nuocere poi, decretando in tal modo nei loro confronti un vero bando di proscrizione.
Il fascismo ha fatto il resto. Assorbendo e risolvendo nella sua esperienza ventennale di dittatura orientata al totalitarismo ogni espressione di destra tradizionalista, conservatrice e modernizzante, ha definitivamente compromesso le sorti future della destra italiana, di qualsiasi destra, della stessa pronunciabilità del suo nome, non parliamo di un sostegno alla sua causa. L’ha condannata così a vivere nel ghetto, senza alleati, senza nemmeno un minimo di capacità collettiva, e senza una prospettiva di un suo rientro a pieno titolo e in tempi ragionevoli, com’è stato invece il caso di tutte le altre destre in Europa occidentale, nel gioco democratico.
Quello di destra è diventato, insomma, uno spazio politico contaminato e, per dei contaminati dalla compromissione col passato regime com’erano i nostalgici del Ventennio, quello spazio è diventato l’unico disponibile. Per un partito – il Msi – che si proponeva di offrire una casa al popolo degli esuli in patria, come è stato efficacemente chiamato, l’occupazione dello spazio della destra, e di una destra illegittima, era insieme una scelta obbligata, un dovere e una condanna.
Una scelta obbligata, perché il bando comminato non consentiva loro altra alternativa. Un dovere, perché un luogo in cui ritrovarsi e preservarsi bisognava pur trovarlo, a meno di non accettare o un ruolo di forza extraparlamentare, con proiezioni magari eversive, o un abbandono tout court di ogni ambizione politica con il conseguente riflusso nel privato. Infine una condanna, perché significava accettare il ghetto rimandando a tempi ragionevolmente lunghi il proprio rientro nella comunità democratica. Si trattava, perciò, per la destra italiana di salvaguardare e perpetuare nei tempi brevi un’identità che per la maggior parte di essi equivaleva alla possibilità di acquisire una cittadinanza politica almeno simbolica e nei tempi lunghi di approfittare di condizioni favorevoli per rompere il cordone sanitario che li relegava nell’illegittimità istituzionale e nell’irrilevanza politica.
È stato, questo, il compito che Almirante definì con lucidità: «Vivere da fascisti in una democrazia». Ovviamente cambiava molto se l’accento era posto sul «vivere da fascisti» o sul «vivere in una democrazia». Non si può negare che il Msi in generale e il Msi di Almirante in particolare abbia oscillato non poco tra i due estremi. Ora ha puntato soprattutto a difendere la sua identità neofascista, ora ha cercato di cogliere le occasioni offertegli dall’evoluzione del quadro politico per propiziare il suo rientro nel gioco democratico.
Sarebbe lungo in questa sede esaminare un cinquantennio di storia. A bocce ferme e col senno di poi, si può dire che la missione è stata compiuta. Ma solo a metà. La guida di Almirante, senza dubbio il vero leader della destra italiana della Prima Repubblica che con essa si è identificato fino a diventarne la sua stessa icona, è riuscito a guidare il suo popolo nella travagliato passaggio del Mar Rosso fino a farlo approdare (quasi) incolume alla terra promessa. Diversamente, però, da Mosè, nel momento stesso in cui il suo popolo poggiava i piedi finalmente in terra democratica, invece di poter celebrare la missione compiuta con l’annegamento politico dei suoi oppressori, doveva subire il lutto della sua dispersione e della sua diaspora.
Evidentemente il lungo esilio in patria aveva disseccato la fonte della sua creatività politica. L’aria aperta ritrovata risultava inospitale per il vecchio organismo, infragilito da una troppo lunga permanenza (e inattività) nei luoghi della convalescenza dal morbo contratto della nostalgia per un passato senza futuro. (testo anticipato da Il Giornale)