di Gianfranco De Turris (Il Borghese)
Matteo Renzi ha chiamato i suoi oppositori interni, che non accettano l’accordo con Berlusconi, «ultimi giapponesi ». La definizione è spesso usata in questo nostro disgraziato Paese per riferirsi a degli irriducibili che pur messi nell’angolo non vogliono arrendersi, un po’ sciocchi, un po’ illusi, da sfottere, da ridicolizzare.
Matteo Renzi ha chiamato i suoi oppositori interni, che non accettano l’accordo con Berlusconi, «ultimi giapponesi ». La definizione è spesso usata in questo nostro disgraziato Paese per riferirsi a degli irriducibili che pur messi nell’angolo non vogliono arrendersi, un po’ sciocchi, un po’ illusi, da sfottere, da ridicolizzare.
Noi purtroppo siano fatti così, e
peggioriamo sempre più. O meglio il sentire comune, condizionato dalla
politica, dagli intellettuali e dal giornalismo, ha questa percezione
che gli «ultimi giapponesi» siano dei poveracci che credendo a falsi
valori hanno continuato a combattere sino all’estremo. Ci pesa ancora
sopra la sindrome dell’8 settembre, dalla fuga di generali e del re,
delle truppe abbandonate a se stesse e senza ordini, del «tutti a casa»,
della divisa gettata alle ortiche. Altrove, e soprattutto nella loro
Patria, per fortuna la pensano diversamente sugli «ultimi giapponesi».
Il nostro cinismo, il nostro scetticismo, il mostro menefreghismo
riescono a svilire tutto, assieme alla tendenza innata di demitizzare
ogni cosa seria. Sempre che non intervenga una specifica interpretazione
ideologica. Gli «ultimi giapponesi» erano quei piccoli gruppi o reparti
militari del Sol Levante, soldati e ufficiali che isolati soprattutto
nelle giungle delle Filippine non seppero della resa del Giappone il 15
agosto 1945, o sapendolo non vollero crederci, e continuarono la loro
guerriglia per anni, per decenni. A loro ha dedicato un libro ormai
fuori commercio E.J.Kahn jr., Gli sbandati (Longanesi,1963). Ma
le storie narrate in quell’opera non sono state per niente le ultime,
perché l’autore non poteva raccontare la incredibile vicenda del tenente
Hiroo Onoda che combatté la sua guerra personale nelle foreste
dell’isola di Lubang sino al 1974, dunque per 29 anni, ligio al dovere e
alla consegna del suo superiore che gli aveva ordinato di condurre
«imboscate e azioni di guerriglia» contro gli americani e i traditori.
Insieme a tre commilitoni (uno catturato nel 1949, gli altri due uccisi
in scontri armati nel 1954 e nel 1972) continuò a nascondersi e
combattere, non credendo che la guerra si fosse conclusa e che
l’imperatore Hirohito avesse annunciato la resa del Giappone, una azione
per lui impossibile, addirittura impensabile. Non credette alla voce
registrata di Hirohito, non credette ai volantini lasciati piovere sulla
giungla, credette soltanto al suo vecchio superiore che, rintracciato
in Patria e portato a Lubang, lo incontrò. Gli spiegò e lo sciolse dal
suo impegno, dalla parola data. Onoda volle seguire tutte le regole che
l’onore militare gli imponeva: si presentò con la sua divisa rattoppata e
ricucita innumerevoli volte in un trentennio e che non aveva mai
gettato via, la spada da ufficiale al fianco, fece il saluto militare e
volle consegnarla all’allora presidente delle Filippine a Manila, poi
tornò in Giappone, dove venne accolto all’aeroporto da una folla
plaudente, dai familiari con le sue foto da giovane, da un picchetto
d’onore. Era tornato un vero eroe, non un mentecatto illuso, uno che era
stato nella giungla dai 22 ai 51 anni, vivendo quasi una vita
alternativa.
Vedendo tempo dopo i film di Indiana
Jones e di Robinson Crusoe diceva: «Quando si fa sul serio è un po’
diverso». Se ne andò in Brasile, dove fondò una fattoria, poi se ne
tornò in Giappone, dove insegnava corsi di sopravvivenza ai giovani
militari nipponici. Ovvio, lui era un vero esperto sul campo… La sua
guerra l’aveva raccontata in un libro di memorie subito tradotto in
italiano e in seguito non più ristampato dal significativo titolo No Surrender!, vale a dire Non mi arrendo (Mondadori,
1975) anch’esso ormai fuori commercio. È morto il 16 gennaio 2014 per
un infarto a 91 anni, sempre considerato un eroe in patria e la notizia è
stata data due giorni dopo dal TG1 delle 13,30 con un
bellissimo, inaspettato servizio di Giuseppe Solinas con immagini e
filmati dell’epoca che ci hanno fatto rivivere dal vivo quegli
avvenimenti e ci hanno commosso e dato da pensare. Si sa cosa volesse, e
in parte ancora voglia dire il senso dell’onore, e dell’onore militare
in specie, per i giapponesi. Lo spirito dei samurai, nonostante
il «lavaggio del carattere” operato dagli americani dopo il 1945 e la
pervasiva modernità di una nazione supertecnologica, serpeggia ancora
nel paese del Sol Levante dove non ci si vergogna di certi sentimenti,
dove non si prendono in giro certi fatti, dove esiste un santuario
shintoista dove sono ricordati due milioni e mezzo di militari caduti in
guerra, una guerra perduta. Sicché il confronto con noi è
inevitabile, e non oso immaginare un evento simile nel Belpaese: il
ritorno in Patria dopo anni di qualche soldato che non si fosse arreso e
avesse continuato a combattere da solo nelle nostre colonie, in Etiopia
o Eritrea, dove, peraltro Amedeo Gullet, anche lui tenente, ma di
Cavalleria, condusse la guerriglia contro gli Inglesi per lungo tempo.
Fossero esistiti questi «ultimi italiani» sarebbero stati considerati
dei poveri scemi, visti con vergogna e disprezzo. Si esagera? Purtroppo
no, se si considerano recenti vicende nostrane: quel che è stato detto
in Parlamento sui morti di Nassirya nella ricorrenza del decimo
anniversario della strage con parole di comprensione nei confronti
dell’attentatore; oppure l’atteggiamento di certa sinistra che si
scaglia contro i due fucilieri di Marina bloccati da due anni in India,
«fascisti assassini» che devono pagare per il loro delitto. Dal lato
opposto, con la svalutazione e banalizzazione del termine «eroe» e del
concetto di «eroico» si tende ad applicarli a chiunque, anche con
coraggio, fa soltanto il proprio dovere, tanto il fatto di compierlo è
diventato qualcosa di eccezionale e fuori del comune, di «eroico»
appunto…
Alle spalle di tutto c’è anche la
Dittatura del Doppiopesismo sul senso da dare a «eroismo» ed «eroe»
nella ufficialità istituzionale italiana (a livello di forze armate è
diverso). Non conta l’aver ubbidito agli ordini ricevuti sino al
sacrificio della propria vita, andando anche oltre quel che di
umanamente si chiedeva, aver sfidato la morte senza preoccuparsi di se
stesso in favore degli altri, aver sopportato l’insopportabile senza
cedere per difendere quello in cui si credeva, aver dimostrato uno
animo, uno spirito, una vocazione eroici ancorché silenziosamente,
essersi sacrificato per un ideale, essersi battuti su posizioni perdute
consapevolmente. No, da noi conta soltanto da che parte si stava, dove
si era schierati. Gli eroi sino al 1943 non vengono ricordati più a
livello istituzionale, politico, quelli caduti per guerre «di
aggressione», «colonialiste», «fasciste», «dalla parte sbagliata», «non
sentite», e si commemorano soltanto quelli caduti dalla «parte giusta»,
gli eroi della «resistenza», della «guerra di liberazione». Sono tutti
morti «eroicamente», certo, anche se non tutti (io non considero «eroe»
chi uccise Giovanni Gentile, o chi sistema bombe là dove deve passare
una colonna di soldati, ad esempio), ma alcuni lo sono meno degli altri
ed è meglio dimenticarli. Sarà paradossale, ma ad un nostro eroe come
Guillet (non caduto sul campo, ma morto nel suo letto a 103 anni) gli
inglesi che lo ebbero di fronte come nemico gli hanno dedicato una
partecipe biografia (Sebastian O’Kelly, Amedeo – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale,
Rizzoli, 2002). Noi invece tendiamo a dimenticarli, a rimuoverli come
se quella guerra perduta (perduta come quella del Giappone) non fosse
mai avvenuta. Anche se ne esiste una biografia italiana (Vittorio Dan
Segre, La guerra privata del tenente Guillet, Corbaccio,
1993) è un esempio per dire che in certi Paesi che pure furono nostri
avversari, si concepisce l’onore militare in assoluto, mentre noi lo
consideriamo soltanto in base alla parte dove si era schierati, al punto
di accogliere festosamente gli aviatori alleati che hanno distrutto le
nostre città. È accaduto anche questo… Se un popolo supera le sue
avversità, di qualunque tipo esse siano, è perché possiede dei valori di
fondo in cui ancora crede e soprattutto si riconosce, un senso
dell’unità, un orgoglio nazionale, il rispetto verso chi compie sino in
fondo il proprio dovere per tutti noi e rispetta la parola data, anche
se appartengono ad un mondo ormai scomparso. Un filo che lega il passato
al presente e al futuro, fatto di queste credenze e di questi valori in
Giappone ancora resiste, in Italia si è spezzato da tempo. È anche per
questo che i Giapponesi possono superare i loro drammi e noi non ci
riusciamo ancora. Possiamo concludere con la frase che Daniele Scalea ha
pubblicato su Huffington Post, a chiusura di un articolo, bello e
anticonformista dati i tempi, capovolgendo la disgraziata espressione
di Brecht tanto spesso citata: «Sventurata quella nazione che non ha bisogno di eroi, perché significa che ha scelto coscientemente d’avviarsi sulla strada della decadenza».