martedì 18 marzo 2014

L’ultimo eroe (giapponese)



di Gianfranco De Turris (Il Borghese)

Matteo Renzi ha chiamato i suoi oppositori interni, che non accettano l’accordo con Berlusconi, «ultimi giapponesi ». La definizione è spesso usata in questo nostro disgraziato Paese per riferirsi a degli irriducibili che pur messi nell’angolo non vogliono arrendersi, un po’ sciocchi, un po’ illusi, da sfottere, da ridicolizzare.
Noi purtroppo siano fatti così, e peggioriamo sempre più. O meglio il sentire comune, condizionato dalla politica, dagli intellettuali e dal giornalismo, ha questa percezione che gli «ultimi giapponesi» siano dei poveracci che credendo a falsi valori hanno continuato a combattere sino all’estremo. Ci pesa ancora sopra la sindrome dell’8 settembre, dalla fuga di generali e del re, delle truppe abbandonate a se stesse e senza ordini, del «tutti a casa», della divisa gettata alle ortiche. Altrove, e soprattutto nella loro Patria, per fortuna la pensano diversamente sugli «ultimi giapponesi». Il nostro cinismo, il nostro scetticismo, il mostro menefreghismo riescono a svilire tutto, assieme alla tendenza innata di demitizzare ogni cosa seria. Sempre che non intervenga una specifica interpretazione ideologica. Gli «ultimi giapponesi» erano quei piccoli gruppi o reparti militari del Sol Levante, soldati e ufficiali che isolati soprattutto nelle giungle delle Filippine non seppero della resa del Giappone il 15 agosto 1945, o sapendolo non vollero crederci, e continuarono la loro guerriglia per anni, per decenni. A loro ha dedicato un libro ormai fuori commercio E.J.Kahn jr., Gli sbandati (Longanesi,1963). Ma le storie narrate in quell’opera non sono state per niente le ultime, perché l’autore non poteva raccontare la incredibile vicenda del tenente Hiroo Onoda che combatté la sua guerra personale nelle foreste dell’isola di Lubang sino al 1974, dunque per 29 anni, ligio al dovere e alla consegna del suo superiore che gli aveva ordinato di condurre «imboscate e azioni di guerriglia» contro gli americani e i traditori. Insieme a tre commilitoni (uno catturato nel 1949, gli altri due uccisi in scontri armati nel 1954 e nel 1972) continuò a nascondersi e combattere, non credendo che la guerra si fosse conclusa e che l’imperatore Hirohito avesse annunciato la resa del Giappone, una azione per lui impossibile, addirittura impensabile. Non credette alla voce registrata di Hirohito, non credette ai volantini lasciati piovere sulla giungla, credette soltanto al suo vecchio superiore che, rintracciato in Patria e portato a Lubang, lo incontrò. Gli spiegò e lo sciolse dal suo impegno, dalla parola data. Onoda volle seguire tutte le regole che l’onore militare gli imponeva: si presentò con la sua divisa rattoppata e ricucita innumerevoli volte in un trentennio e che non aveva mai gettato via, la spada da ufficiale al fianco, fece il saluto militare e volle consegnarla all’allora presidente delle Filippine a Manila, poi tornò in Giappone, dove venne accolto all’aeroporto da una folla plaudente, dai familiari con le sue foto da giovane, da un picchetto d’onore. Era tornato un vero eroe, non un mentecatto illuso, uno che era stato nella giungla dai 22 ai 51 anni, vivendo quasi una vita alternativa.
Vedendo tempo dopo i film di Indiana Jones e di Robinson Crusoe diceva: «Quando si fa sul serio è un po’ diverso». Se ne andò in Brasile, dove fondò una fattoria, poi se ne tornò in Giappone, dove insegnava corsi di sopravvivenza ai giovani militari nipponici. Ovvio, lui era un vero esperto sul campo… La sua guerra l’aveva raccontata in un libro di memorie subito tradotto in italiano e in seguito non più ristampato dal significativo titolo No Surrender!, vale a dire Non mi arrendo (Mondadori, 1975) anch’esso ormai fuori commercio. È morto il 16 gennaio 2014 per un infarto a 91 anni, sempre considerato un eroe in patria e la notizia è stata data due giorni dopo dal TG1 delle 13,30 con un bellissimo, inaspettato servizio di Giuseppe Solinas con immagini e filmati dell’epoca che ci hanno fatto rivivere dal vivo quegli avvenimenti e ci hanno commosso e dato da pensare. Si sa cosa volesse, e in parte ancora voglia dire il senso dell’onore, e dell’onore militare in specie, per i giapponesi. Lo spirito dei samurai, nonostante il «lavaggio del carattere” operato dagli americani dopo il 1945 e la pervasiva modernità di una nazione supertecnologica, serpeggia ancora nel paese del Sol Levante dove non ci si vergogna di certi sentimenti, dove non si prendono in giro certi fatti, dove esiste un santuario shintoista dove sono ricordati due milioni e mezzo di militari caduti in guerra, una guerra perduta. Sicché il confronto con noi è inevitabile, e non oso immaginare un evento simile nel Belpaese: il ritorno in Patria dopo anni di qualche soldato che non si fosse arreso e avesse continuato a combattere da solo nelle nostre colonie, in Etiopia o Eritrea, dove, peraltro Amedeo Gullet, anche lui tenente, ma di Cavalleria, condusse la guerriglia contro gli Inglesi per lungo tempo. Fossero esistiti questi «ultimi italiani» sarebbero stati considerati dei poveri scemi, visti con vergogna e disprezzo. Si esagera? Purtroppo no, se si considerano recenti vicende nostrane: quel che è stato detto in Parlamento sui morti di Nassirya nella ricorrenza del decimo anniversario della strage con parole di comprensione nei confronti dell’attentatore; oppure l’atteggiamento di certa sinistra che si scaglia contro i due fucilieri di Marina bloccati da due anni in India, «fascisti assassini» che devono pagare per il loro delitto. Dal lato opposto, con la svalutazione e banalizzazione del termine «eroe» e del concetto di «eroico» si tende ad applicarli a chiunque, anche con coraggio, fa soltanto il proprio dovere, tanto il fatto di compierlo è diventato qualcosa di eccezionale e fuori del comune, di «eroico» appunto…
Alle spalle di tutto c’è anche la Dittatura del Doppiopesismo sul senso da dare a «eroismo» ed «eroe» nella ufficialità istituzionale italiana (a livello di forze armate è diverso). Non conta l’aver ubbidito agli ordini ricevuti sino al sacrificio della propria vita, andando anche oltre quel che di umanamente si chiedeva, aver sfidato la morte senza preoccuparsi di se stesso in favore degli altri, aver sopportato l’insopportabile senza cedere per difendere quello in cui si credeva, aver dimostrato uno animo, uno spirito, una vocazione eroici ancorché silenziosamente, essersi sacrificato per un ideale, essersi battuti su posizioni perdute consapevolmente. No, da noi conta soltanto da che parte si stava, dove si era schierati. Gli eroi sino al 1943 non vengono ricordati più a livello istituzionale, politico, quelli caduti per guerre «di aggressione», «colonialiste», «fasciste», «dalla parte sbagliata», «non sentite», e si commemorano soltanto quelli caduti dalla «parte giusta», gli eroi della «resistenza», della «guerra di liberazione». Sono tutti morti «eroicamente», certo, anche se non tutti (io non considero «eroe» chi uccise Giovanni Gentile, o chi sistema bombe là dove deve passare una colonna di soldati, ad esempio), ma alcuni lo sono meno degli altri ed è meglio dimenticarli. Sarà paradossale, ma ad un nostro eroe come Guillet (non caduto sul campo, ma morto nel suo letto a 103 anni) gli inglesi che lo ebbero di fronte come nemico gli hanno dedicato una partecipe biografia (Sebastian O’Kelly, Amedeo – Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet, un eroe italiano in Africa Orientale, Rizzoli, 2002). Noi invece tendiamo a dimenticarli, a rimuoverli come se quella guerra perduta (perduta come quella del Giappone) non fosse mai avvenuta. Anche se ne esiste una biografia italiana (Vittorio Dan Segre, La guerra privata del tenente Guillet, Corbaccio, 1993) è un esempio per dire che in certi Paesi che pure furono nostri avversari, si concepisce l’onore militare in assoluto, mentre noi lo consideriamo soltanto in base alla parte dove si era schierati, al punto di accogliere festosamente gli aviatori alleati che hanno distrutto le nostre città. È accaduto anche questo… Se un popolo supera le sue avversità, di qualunque tipo esse siano, è perché possiede dei valori di fondo in cui ancora crede e soprattutto si riconosce, un senso dell’unità, un orgoglio nazionale, il rispetto verso chi compie sino in fondo il proprio dovere per tutti noi e rispetta la parola data, anche se appartengono ad un mondo ormai scomparso. Un filo che lega il passato al presente e al futuro, fatto di queste credenze e di questi valori in Giappone ancora resiste, in Italia si è spezzato da tempo. È anche per questo che i Giapponesi possono superare i loro drammi e noi non ci riusciamo ancora. Possiamo concludere con la frase che Daniele Scalea ha pubblicato su Huffington Post, a chiusura di un articolo, bello e anticonformista dati i tempi, capovolgendo la disgraziata espressione di Brecht tanto spesso citata: «Sventurata quella nazione che non ha bisogno di eroi, perché significa che ha scelto coscientemente d’avviarsi sulla strada della decadenza».