di Franca Poli (Ereticamente)
Il 28 febbraio del 1975 durante l’assalto a una sezione di partito, fu assassinato con un colpo di pistola un giovane studente greco. Quando appresi la notizia, pur trattandosi di un avvenimento successo nella capitale, rimasi molto scossa perché di quel ragazzo avevo già sentito parlare qualche anno prima a Bologna.
Mikaeli Mantakas, detto Miki, era nato nel 1952 ad Atene, era venuto in Italia per studiare e si era iscritto proprio alla facoltà di Medicina di Bologna. In città aveva uno zio che esercitava la professione di medico in una clinica privata e che gli forniva anche supporto logistico. In quegli anni in Grecia vigeva il regime dei “Colonnelli”, all’Università di Bologna invece, vigeva il regime non dichiarato, ma praticato, del comunismo stalinista, dunque quando Miki si trovò coinvolto in alcuni disordini fuori dall’Università venne tacciato di essere un provocatore, spia del regime ellenico. L’equazione era presto fatta se si trovava in Italia e non era antifascista, secondo gli spiccioli canoni della massa di studenti bolognesi di sinistra, doveva essere un fascista che sosteneva il regime greco e dunque andava punito. Miki subì una vigliacca aggressione davanti all’istituto di Biologia e fu ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi.
Oramai aveva la nomea dell’infiltrato e non c’erano tanti posti dove sentirsi al sicuro dalle nostre parti, così scelse di cambiare città e approdò a Roma. Forse all’epoca non era nemmeno certo di avere idee politiche precise, ma quella gratuita punizione e le conseguenze subite, lo portarono sicuramente a sposare la causa contraria. Arrivato a Roma, iniziò a frequentare il bar di Via Siena, vicino alla Facoltà, lì conobbe e prese confidenza con i giovani del FUAN, ragazzi come lui, che la pensavano allo stesso modo.
Entrò a far parte di una comunità affiatata, con spirito cameratesco, un po’ di goliardia, un po’ di politica, un po’ di gioco, un po’ di vita vera, quello che ci voleva per lui lontano da casa e in cerca di affetti. Miki era giovane e si era anche innamorato di una ragazza del gruppo, Sabrina Andolina, bella, di qualche anno più piccola e che lo ricambiava, forse sognò anche di sposarla e di non lasciare mai più la città dove si sentiva felice e accettato. Era un bel ragazzo biondo con gli occhi azzurri e il naso diritto come nel più classico dei profili delle statue greche. Non gli rende giustizia la foto che è divenuta poi per tutti la sua icona, dove è ritratto con i capelli corti e il ciuffo anni cinquanta oramai fuori moda. Era quella del passaporto, di quando era arrivato in Italia e vecchia ormai di cinque anni. All’epoca dei fatti Miki aveva ventitré anni, i capelli lunghi, portava la riga a sinistra con una pettinatura moderna che ricordava uno dei caschi lisci dei Beatles, aveva coltivato folti baffi e barba. Indossava camicie di jeans e pantaloni a zampa di elefante come tutti i suoi coetanei e portava un foulard al collo. Miki a detta dei suoi amici era un ragazzo posato, gentile, amante della libertà, e contrario a ogni forma di violenza. La sua Sabrina lo definiva estremamente educato e rispettoso: “un ragazzo d’oro, meraviglioso, come qualunque ragazza avrebbe voluto avere…era davvero tanto dolce e premuroso”.
“Il greco”, come lo avevano soprannominato, era sempre un po’ a corto di denaro perché viveva con la rimessa dei suoi genitori ai quali era consentito per legge, mandargli ogni mese dalla Grecia la cifra massima di 157.000 lire. Con quei soldi riusciva a pagare l’affitto di una stanza in un appartamento che divideva con altri tre ragazzi, le telefonate che regolarmente faceva alla madre in Grecia, comprava qualche libro e raramente gli restava qualcosa per uscire a divertirsi. Forse fu per gli occhi dolci di Sabrina chissà, Miki, a Roma fece anche quello che non aveva fatto a Bologna, firmando in calce, diede il suo aperto sostegno alla lista “anticomunista” per il consiglio di Facoltà di Medicina e Chirurgia alle elezioni universitarie de La Sapienza e prese la tessera del Fuan, ironia della sorte, solo pochi mesi prima di venire ucciso dai nemici giurati di quel movimento. La sua fidanzata lavorava come segretaria nella sede nazionale dell’MSI di via Quattro Fontane, 22, lui andava spesso a Palazzo del Drago a trovarla e insieme pranzavano coi buoni pasto della segreteria, commettendo anche una piccola frode. Infatti lei era la sola avente diritto, ma con l’aiuto di una fotocopiatrice, i buoni si moltiplicavano e a mangiare erano spesso in quattro o cinque, gli amici più stretti: Miki, Umberto, Stefano e Sabrina, tutti militanti. Nella trattoria scherzavano, come fanno i giovani della loro età, ma parlavano anche di progetti e di politica. Fu proprio in una di quelle occasioni, il giorno prima che Miki morisse, che Umberto Croppi lo rimproverò bonariamente di essere presente solo quando si trattava di mangiare e di defilarsi invece al momento di agire. Miki diede la sua disponibilità, come sempre e, l’indomani andarono insieme davanti al tribunale dove si stava tenendo il processo contro gli assassini dei fratelli Mattei.
In quei giorni a Roma era in atto una vera e propria guerriglia urbana fra gli studenti di sinistra e quelli di destra. L’apertura del processo “Mattei” aveva surriscaldato gli animi, quel frangente era diventato motivo di scontro tra due mondi, tra due eserciti. Imputati dell’eccidio erano Manlio Grillo, Marino Clavo, latitanti e Achille Lollo che invece era alla sbarra, tutti e tre militanti di potere operaio.
I due fratelli arsi vivi e la loro immagine apparsa su tutti i giornali per i giovani di destra era una ferita che bruciava ancora, andava placata con la presenza alle udienze e il sostegno alla famiglia. Si sentiva il bisogno di prendere possesso dell’aula del tribunale, del territorio circostante per cercare di trovare respiro da quel fumo che nel ricordo recente, ardeva e bruciava le narici e nasceva nei cuori di tanti ragazzi l’impellenza di vendicare quegli sguardi imploranti di Virgilio e Stefano in agonia.
Di contro la campagna fatta dalla stampa volutamente cieca e faziosa e da Soccorso Rosso, nelle persone di Franca Rame e Dario Fò, voleva gli imputati vittime innocenti e scaldava gli animi di chi si lasciava manipolare dalle falsità raccontate di “faide interne” all ‘MSI. Lotta Continua con veementi articoli di Adriano Sofri, inneggianti la mobilitazione, accusava addirittura Avanguardia operaia di aver abbassato la tensione e chiedeva a gran voce, di scendere in piazza per la liberazione del compagno Lollo. Il risultato fu che si era pronti a tutto, sia a destra che a sinistra.
Dopo tre giorni di processo fra scontri in piazza, molotov e sprangate, si contavano diversi feriti fra entrambi le fazioni, e qualche fermato dalle forze di Polizia. Le colluttazioni avvennero anche in tribunale, quando fu chiamata a intervenire la signora Annamaria Mattei che, subito dopo aver invocato il nome dei figli, svenne in aula colta da malore e fu portata fuori a braccia. Nonostante questo clima, Miki con i suoi camerati, continuava la vita di ogni giorno, lontano anni luce dall’odio che attanagliava e ottenebrava le menti dei suoi assassini. La sera del 27 febbraio era al cinema con alcuni universitari del FUAN a vedere “Mondo candido”, un film liberamente tratto dal Candido di Voltaire e che nonostante il successo che stava riscuotendo, veniva giudicato da molti “un guazzabuglio di luoghi comuni”. A lui invece piacque e gli amici ricordano di averlo sentito dire “ Per me è giusto morire per il proprio ideale. Almeno è coerente”. Come fosse una profezia di quello che gli sarebbe accaduto il giorno dopo.
La mattina successiva, la giornata di battaglia cominciò alle sei mezza del mattino con lanci di pietre, bulloni, e mentre la sassaiola mandava in frantumi i vetri del Palazzo di Giustizia, gli scontri iniziavano anche sulle strade, nelle piazze e in via Suore della carità venne esploso un colpo di pistola contro un dirigente del Fronte della Gioventù. Davanti al tribunale alcuni ragazzi schiacciati dalla pressante onda d’urto dei “compagni” che arrivavano da tre direzioni diverse convergendo verso le gradinate, dove loro si trovavano in attesa di entrare, vennero aggrediti e feriti.
Uno sarà ricoverato per la frattura a un braccio provocata dal lancio di un mattone, un altro invece per una ferita da arma da fuoco a un ginocchio. I tafferugli continuarono anche quando si aprirono i portoni e i giovani si ammassavano all’interno. Proprio nel vestibolo del Tribunale quella mattina due ragazzi vennero alle mani, furono fermati e identificati.
Uno era un giovane di destra proveniente da Reggio Calabria che, per aver colpito l’altro con un pugno al volto, tre anni più tardi, sempre secondo il metodo dei “due pesi e due misure” che la giustizia usava con i contendenti, fu regolarmente condannato. Il secondo era un certo Alvaro Lojacono e verrà invece rilasciato alle undici della stessa mattina, per il pronto e pressante intervento degli avvocati del collegio di difesa. Quello che potrebbe sembrare un irrilevante avvenimento in mezzo ai tanti, acquisisce importanza se visto alla luce dei fatti avvenuti successivamente. Alvaro Lojacono risultò infatti essere l’assassino di Miki Mantakas: se le forze dell’ordine lo avessero trattenuto, forse il giovane studente greco non sarebbe morto.
In quei momenti anche Miki e i suoi amici erano in tribunale, ma l’incontro fatale avverrà più tardi quando all’una, rinviata l’udienza, lui e altri giovani di destra si diedero appuntamento alla sezione di via Ottaviano. Gli appelli di Lotta Continua erano stati accolti, fuori una marea di giovani in assetto di guerra era pronta a caricare i ragazzi che uscivano. I giovani di destra si organizzarono, per sottrarsi al linciaggio, qualcuno li faceva salire in macchina, quattro a quattro, e li portava a destinazione. Miki fu tra i primi a lasciare la zona del Tribunale e a sottrarsi ai disordini in atto, forse pensò anche di essere stato fortunato, così all’una e un quarto era già in via Ottaviano, quando iniziarono a piovere le bombe molotov all’interno della sezione.
L’aria si era fatta irrespirabile nei corridoi, il timore era quello che rintanandosi dentro si potesse fare la fine dei topi, allora un gruppo, con un atto di coraggio decise di uscire da una porta posteriore, per attaccare alle spalle gli aggressori, nella speranza di allontanarli, ma la trappola era stata preparata nei dettagli e appena i giovani usciti girarono l’angolo del palazzo, li accolse una pioggia di fuoco. Miki Mantakas, armato solo di una cintura arrotolata sul pugno, venne raggiunto da un proiettile che gli perforò il cranio e cadde.
La pioggia di molotov continuava, furono momenti di autentico terrore, gli amici con la forza della disperazione, rientrarono dal portone ancora aperto e, nell’angosciante tentativo di salvarlo, lo portarono dentro un garage del palazzo. A confortarlo nei suoi ultimi momenti di vita, Franco Anselmi, che per anni conservò, come una reliquia il suo passamontagna intriso del sangue del camerata.
Quello che successe dopo nelle concitate ore successive fu un susseguirsi di sparatorie e inseguimenti, assalti, fumo, fiamme, i portoni dei garage dove era ricoverato Miki vennero crivellati di colpi e un altro missino cadde ferito nel cortile, e in quella che fu una vera e propria guerriglia anche alcuni passanti subirono ferite da arma da fuoco.
Quando tutto finì Miki Mantakas, “il greco”, era morto. E come sempre succedeva, ebbe inizio la danza delle menzogne, dei mistificatori che ne fecero un “truffatore” ucciso dai suoi stessi camerati. Una certa stampa inzuppò il pane anche nelle dichiarazioni della madre del giovane che professava lui e la sua famiglia come “antifascisti”. Il meccanismo ineffabile di dietrologia era stato innescato e Mantakas fu dipinto vittima di bieche vendette interne all’ MSI, come già era stato per i fratelli Mattei.
La fortuita cattura di Fabrizio Panzieri uno dei criminali con la pistola, da parte di un appuntato di passaggio, libero dal servizio, e l’arresto di Lojacono, riconosciuto da molti testimoni anche esterni alla sezione, diedero il via comunque a un processo che si concluse in primo grado con l’assoluzione di quest’ultimo e la condanna del primo a nove anni e sei mesi. Si scatenò l’ennesima campagna innocentista portata avanti dai soliti di Soccorso Rosso e da decine di intellettuali di sinistra che si prodigarono in una prolifica stesura di articoli e libri e di cui si fece portavoce persino la scrittrice Natalia Ginzburg che si diceva “turbata” ritenendo che i giudici avessero voluto in quel giovane innocente “condannare un’astratta idea di violenza”.
Astratta capite? Ancora oggi, dopo tanti anni, mi riesce impossibile immaginare come si possa essere così volutamente ciechi per definire violenza astratta quella che lasciò sull’asfalto un giovane di ventitré anni.
In Appello, nonostante la “minacciosa” e intimidatoria presenza di alcuni giudici di Magistratura democratica, che parlottavano col collegio di difesa, la sentenza fu di sedici anni per entrambi gli imputati, ma nelle more tra un ricorso in Cassazione e la condanna definitiva i “bravi” giovani fuggirono e si dettero alla latitanza. Lojacono, per tutti coloro che avevano sostenuto la sua causa, si fece onore negli anni a venire militando nelle Brigate Rosse, facendo parte del commando che rapì Aldo Moro, partecipando al rapimento Cirillo, fu accusato dell’omicidio dell’assessore Delcogliano e condannato all’ergastolo per l’assassinio del magistrato Tartaglione, del consigliere Schettini e di altri rappresentanti delle forze dell’ordine: carabinieri, marescialli di Polizia e non so chi altri dimentico nell’elenco, per un curriculum di tutto rispetto degno di un vigliacco che mai affrontò la giustizia italiana. Condannato solo in Svizzera, dopo nove anni era in libertà e dal 1999 è a tutti gli effetti un uomo libero.
Miki Mantakas però sopravviverà ai suoi assassini nel ricordo di chi non dimentica, di chi ha valori in cui credere che non tramonteranno mai. Una generazione di ribelli, di sognatori forse, o forse solo di incoscienti che hanno rischiato e osato sempre con onore. Una generazione di uomini e donne che anche nel ricordo di chi è caduto ha giurato di non arrendersi, di mantenere vivi i propri sogni e gli ideali che li rendono liberi “lanciando sempre il cuore oltre le stelle.”