venerdì 7 marzo 2014

L’inchiesta. I padroni del digitale: Paperon de’ Paperoni 2.0 poco orizzontali e poco social


di Federico Callegaro (Barbadillo)

Di getto non lo direbbe nessuno, ma Paperon de’ Paperoni rappresenta l’archetipo del moderno imprenditore di servizi digitali. È vero: è poco glamour, poco orizzontale, poco social. Ma, a differenza dei prodotti che vendono, tanto social, glamour e orizzontali non lo sono nemmeno i nuovi padroni del vapore digitale, i proprietari di Facebook, Apple, Amazon e Google. Stando ai dati relativi a questi colossi del fatturato, il business delle nuove tecnologie e dei servizi ad esse connessi è quanto di meno pop si possa immaginare.

La parola chiave per descrivere questo mercato, infatti, è monopolio, termine che fa pensare di più a signori con cilindro che fumano sigari, piuttosto che a startupper ventenni che rivoluzionano il mondo tra garage e dormitori di ateneo. Eppure i numeri parlano chiaro: Facebook ha un miliardo di utenti. La quota di mercato di Google nel settore delle ricerche online copre il 90% in Europa e il 70 negli Usa, con Android, poi, controlla il 75% dei sistemi operativi per smartphone. Amazon è il negozio online più grande del mondo e Apple controlla la metà delle vendite globali di musica digitale. Grandi gruppi con grandi affari come tanti altri, verrebbe da pensare, ma in realtà non esistono paragoni possibili con nessun altra azienda impegnata in nessun altro settore. L’industria automobilistica statunitense, per fare un esempio, non vende produttori che detengono una quota di mercato superiore al 20%. Lo stesso vale per l’Europa, dove Volkswagen, la più diffusa, resta sotto il 15%. Anche l’oro nero non ha nessun monopolista degno di sfidare Mark Zuckerberg e Co. e se si sommano le quattro più grandi società petrolifere del globo si arriva a coprire soltanto il 40% del mercato complessivo.

Ma l’egemonia dei “grandi quattro” non si limita a vederli spadroneggiare nel mercato ma anche a detenere quote azionarie bulgare delle loro compagnie: il papà di Facebook possiede quasi il 30% del social network che ha creato, i fondatori di Google, Sergey Brin e Larry Page, il 60% di azioni della società. Questo a fronte del fatto che di General Motors o Ford nessun singolo azionista possiede più dell’1%. Quali sono gli effetti pratici di un modello di business del genere? La nascita di super-capitalisti che detengono enormi fette di mercato e accumulano profitti vertiginosi nelle proprie tasche. Dei veri e propri Paperon de’ Paperoni che, tra l’altro, come il personaggio Disney, vivono la ricchezza come accumulo e non come potenziale per creare posti di lavoro.E qui si pone l’ennesimo problema legato alle potenzialità reali del mercato digitale: le mega aziende di servizi web non creano posti di lavoro o crescita economica.

Principalmente per tre motivi: in primo luogo perché pagano poche tasse, come dimostrano gli esempi di Amazon e Facebook, che hanno sborsato all’Italia rispettivamente 950mila e 132mila euro, grazie a una struttura societaria che permette loro di non fatturare gli introiti della pubblicità nel nostro Paese ma dirottandoli dove le aliquote risultano essere più basse (in Irlanda Facebook e Google, in Lussemburgo Amazon). In secondo luogo perché offrono servizi gestibili con un numero irrisorio di dipendenti: il sistema di messaggistica WhatsaApp, comprato da Facebook per 19 miliardi di dollari e utilizzato da 400 milioni di persone, ha soltanto 55 dipendenti in tutto il mondo. Per intenderci, sulla carta WhatsaApp in Italia potrebbe essere considerata una media e non una piccola impresa per soli 5 dipendenti in più rispetto ai 50 che servono per accedere alla categoria.

E lo stesso vale per aziende come Facebook e Google. La prima con una capitalizzazione di mercato pari a 57 miliardi e la seconda di 222 miliardi ma rispettivamente con 4300 dipendenti e 53mila a testa. Il terzo motivo è quello accennato in precedenza, la maggioranza delle azioni di questi colossi rimane nelle mani dei loro fondatori e, anziché spargersi nel pulviscolo di utili distribuiti tra infiniti azionisti, vengono reinvestiti nel consolidamento del monopolio, finanziando l’acquisto di tutte le giovani compagnie che un domani potrebbero diventare loro concorrenti.

Alla faccia dello studio di due ricercatori di Princeton che, applicando modelli presi in prestito dagli studi epidemiologici, hanno predetto la morte di Facebook per il 2017, i quattro monopoli/virus del virtuale sembrano molto lontani dal perdere energie, anche grazie alla capacità di nutrirsi dei piccoli concorrenti e all’assenza di regolamentazioni anti-monopolistiche. Insomma, nuotano in vasche di monete d’oro, assomigliano a Paperon de’ Paperoni ma all’orizzonte non si profila nessun Rockerduck che si rispetti.