“Lo chiamano il sogno americano, perché devi essere addormentato per crederci”,
diceva il comico George Carlin. Il risveglio, però, può essere ancora
più traumatico. Soprattutto se passa (anche) dal cinema. E così “300 – L’alba di un impero”,
che spopola al botteghino in questi giorni nelle sale italiane, può
forse raccontare il tramonto, ormai in atto, della fiducia a stelle e
strisce nel ruolo attuale della maggiore potenza occidentale.
Il film è il seguito – anzi,
tecnicamente, il midquel – della fortunata pellicola del 2003, tratto
come il precedente, da un romanzo grafico di quel folle genio di Frank
Miller. L’epopea degli spartani sul grande schermo è diventata negli
anni un must che racconta l’esempio di Leonida e della sua guardia
personale, ma soprattutto che illumina, a sprazzi, sull’organizzazione
sociale spartana e su un modello di “democrazia” alternativo al popolo
di “filosofi ed effeminati” di derivazione ateniese, cui
(impropriamente) si fa risalire l’attuale declinazione della democrazia
occidentale.
Non si può certo pretendere di
appassionarsi al “comunismo dorico” di Sparta tramite un film. Ma 300
dà, a chi è all’asciutto, la voglia di bere. Verrà poi il momento, se
quel sentir lo si percepisce comune, di leggere le “virtù di Sparta” di
Plutarco o le storie di Erodoto. Non si può dire lo stesso del
raffazzonato seguito che svetta in questi giorni in testa alle
classifiche. Inutile disquisire di verosimiglianza con i fatti realmente
accaduti. È compito degli storici.
Ma mentre 300 era, pur con i limiti del
mezzo, un racconto epico, il seguito somiglia a un romanzetto
individuale a metà tra l’harmony e il noir. C’è spazio persino per un
amore consumato (o forse no?) tra Temistocle e Artemisia, mentre si
discute delle sorti del mondo. Ma, e qui la differenza è sostanziale,
non c’è il racconto collettivo di un esempio. Leonida è il re ma non
avrebbe senso senza i suoi trecento. Temistocle sembra, nella migliore
delle ipotesi, un Nixon con più addominali e meno scrupoli. Il primo
guarda l’oplita che gli sta al fianco, il secondo alle magnifiche sorti e
progressive che gli si parano avanti.
“L’alba di un impero” al massimo fa
godere delle contraddizioni di una modernità in crisi che non riesce
nemmeno più, pur quando vorrebbe, ad autocelebrarsi. I continui appelli
alla democrazia risultano poco convinti, per non parlare del delirante
uso (per tre volte), almeno nel doppiaggio italiano, del termine
nazione, che avrebbe visto la luce soltanto diversi secoli dopo.
Qualcuno, all’uscita del primo
lungometraggio epico ispirato alle tavole di Miller (2007) , aveva letto
in filigrana – storpiando e tirando per i capelli le visioni del
fumettista – il tentativo di celebrare gli Usa come potenza che
combatteva la guerra santa al terrorismo. In base a questa
interpretazione, gli spartani sarebbero addirittura diventati gli
antenati degli americani in guerra, per difendere democrazia e libertà,
contro i talebani afgani (o i soldati iracheni di Saddam), che
retrocedevano automaticamente a eredi delle barbare armate di Serse.
“L’alba di un impero” sembra invece la
stanca ripetizione di una funzione che lo zio Sam non riesce più, suo
malgrado, a svolgere. È così il finale è forse la parte migliore del
film. O meglio, i titoli di coda, con “War pigs” dei Black Sabbath ad
accompagnare le tavole originali di Miller. Se il messaggio che vuole
suggerire il film è quello di celebrare, nonostante tutto, il modello di
democrazia americana, l’obiettivo non solo è fallito. Ma, a giudicare
dal ruolo degli States nell’attuale geopolitica – la crisi ucraina è lì a
mostrarlo – risulta persino ridicolo.