La crisi strutturale del sistema economico occidentale è una delle tematiche sulle quali più si è focalizzata l'attenzione di Alain de Benoist, saggista e filosofo, i cui libri sono ormai tradotti in una quindicina di lingue.
Fino a qualche tempo fa, Lei diceva che eravamo sull'orlo del baratro. Adesso, è convinto che la fine del mondo ci sia già stata.
«Non la fine del mondo, bensì la fine di un mondo. Siamo usciti dal mondo moderno, dove i riferimenti erano stabili e la forma politica dominante era lo Stato-nazione, e siamo entrati in un mondo postmoderno, dove la visone di lungo termine è ovunque sostituita dall'effimero. È un mondo liquido, deterritorializzato, dominato dalle nozioni “marittime” di flussi e di reti».
Però Lei parla di «colpo di Stato europeo».
«Colpo di Stato è forse eccessivo, in quanto sono gli stessi Stati ad aver accettato di essere progressivamente spogliati delle sovranità politiche, finanziarie e di bilancio. L'Unione europea, che si è organizzata dall'alto (con la Commissione di Bruxelles) verso il basso ha solo seguito questa inclinazione naturale».
Che ne pensa del refrain austerità/crescita?
«L'austerità non riporterà la crescita, poiché il suo scopo principale è quello di esercitare una pressione al ribasso sui salari e sui redditi, dunque di diminuire il potere di acquisto, ossia la richiesta. E quando c'è meno richiesta, il consumo diminuisce, la produzione anche e la disoccupazione aumenta. Le classi proletarie e le classi medie sono le prime a soffrirne».
Ma quale può essere l'alternativa? Lei ha più volte affermato: “l'ideologia della crescita è un errore logico. Non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito”.
«L'alternativa è organizzare, fin da ora, una decrescita sostenibile, favorendo il ricollocamento, economizzando le riserve naturali, favorendo gli stili di vita che non si riducono a una fuga in avanti nei consumi. Ma l'alternativa è anche “ideologica”: si tratta di rifiutare l'assiomatico dell'interesse e il primato dell'economia, e di smettere di volere “sempre di più”. “Di più” non è sinonimo di “meglio”».
Altrimenti, come scrive nel libro, prevede una vera e propria marcia verso la miseria.
«Lo possiamo constatare già oggi in diversi paesi europei. Il risultato delle politiche di austerità adottate sotto la pressione dei mercati finanziari è proprio questo. La disuguaglianza tra i vari Paesi e al loro stesso interno non smette di ampliarsi, a esclusivo beneficio delle nuove classi finanziarie e politico-mediatiche».
E allora uscire dall'euro può essere la soluzione?
«L'euro ha contribuito ad aggravare la crisi, nel senso che, lungi dal promuovere la convergenza delle economie europee, ne ha invece aumentato i divari. Ma la crisi non è riducibile al problema dell'euro. I Paesi che non hanno adottato l'euro, come la Gran Bretagna, non se la passano meglio. Sono anch'essi prigionieri di mercati finanziari e dell'aumento del loro debito pubblico. In ogni caso, uscire dall'euro avrebbe un senso solo se fosse il risultato di un insieme di Paesi, e non di uno solo».
Potrebbe però essere una possibilità?
«Non c'è alcuna possibilità che possa avverarsi nell'immediato. Ad ogni modo, anche nel caso di un ritorno alle monete nazionali, l'euro dovrebbe essere mantenuta come moneta comune per gli scambi con i Paesi non europei».
Ma c'è stato un momento preciso in cui abbiamo perso la nostra sovranità?
«L'abbandono è stato progressivo. È il risultato del trasferimento all'Unione Europea di gran parte della sovranità che non è stata riportata a un livello superiore (una sovranità europea), ma scomparsa in una sorte di “buco nero”. Questo processo è stato completato dalla politica del debito, che ha posto gli Stati sotto il controllo di investitori privati e agenzie di rating».
Ed è possibile riconquistare quote di sovranità?
«Occorrerebbe ritrovare i mezzi dell'indipendenza economica e finanziaria, il che necessita un cambiamento radicale delle politiche pubbliche, a cui però nessun Paese europeo sembra propenso».
In un contesto del genere la crescita del Front National conferma che però vi possono essere spazi di manovra?
«L'ascesa del FN riflette principalmente il deterioramento del bipartitismo destra-sinistra e il discredito generalizzato della classe politica».
Dunque, il consenso potrebbe dipendere dal fatto di escludere a priori le categorie di destra e sinistra.
«Tutte le inchieste disponibili dimostrano questo: il FN ottiene voti sia a destra che a sinistra. Il suo programma economico e sociale, è nettamente orientato a “sinistra”, e possiede tutti i criteri per sedurre gli ex elettori comunisti. In generale, il FN tocca delle priorità, che sono avvertite soprattutto nel Nord della Francia, e poi dalle classi proletarie e dagli strati inferiori della classe media, che sono anche le principali vittime delle ricadute negative dell'immigrazione (disoccupazione, insicurezza, affossamento della scuola, ecc.). È da molto tempo il primo partito fra gli operai».
Potrebbero nascere altri movimenti in Europa sul modello del FN?
«Non credo molto all'esportazione dei modelli. Il FN è un movimento molto legato al contesto particolare della vita politica francese. Il modo con il quale trascende la divisione destra-sinistra non può essere meccanicamente copiato».
Ma è forse l'unico che si schiera apertamente contro quello che Lei definisce «il sistema del denaro»?
«Il “sistema del denaro” è criticato da molta gente, ma tra i suoi avversari, il FN è, oggi, il partito che ha i mezzi più importanti per farsi sentire».