Giorni di giubilo, di festeggiamenti, di commemorazioni, di parate, giorni in cui l’ANPI fa la voce grossa e i vari esponentucci di partito fanno profondi discorsi come se fossero Lenin in qualche piazza a Pietrogrado. Il tutto con l’unico scopo di raccontare la storia, la loro. Infatti dai racconti di questi menestrelli del nuovo millennio sembra che in quelle calde e tristi giornate del 1944 ci siano state due fazioni in campo: i buoni con i loro fazzoletti rossi al collo e le forze del male di nero vestite, pronte a scatenare il loro odio verso tutto e tutti. Beh le cose non sono andate propriamente così anche se a molti dei soggetti sopracitati fa piacere raccontare la propria storia in questo modo. Per prima cosa è giusto sottolineare come tanti figuri che a guerra finita si sono presi le lodi (e non solo), per esser stati dei partigiani, siano stati in realtà soltanto dei fulgidi esempi dell’italiano più bieco e comune sempre pronto a compiere il mirabolante salto sul carro dei vincitori. Mentre venivano idolatrati i vittoriosi, i vinti venivano lasciati all’oblio, alla dannazione eterna come degli spettri da relegare nell’Ade. Poco importa se tra quei mostri ci fossero anche ragazzi di 16 anni che per orgoglio e abnegazione decisero di fare la scelta più difficile, rispondere al bando di arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale. Non mi si venga a raccontare che un ragazzo, poco più che bambino, sia il “male assoluto”, perché quei giovani decisero di non nascondersi e andarono così in prima linea a guerra praticamente persa e contro un nemico numericamente e logisticamente troppo più forte. Questi giovani a 70 anni da quel caldo giugno del 1944 non hanno ancora diritto di esser ricordati, diritto che spetta soltanto a chi andò in montagna a prendere ordini da emissari politici del PCI ed a vendersi al nemico. In quei momenti tragici gli unici che avevano le idee chiare erano,infatti, i vertici del PCI che già da tempo sapevano cosa fare appena il fascismo fosse stato in difficoltà, ottimo esempio di coraggio attaccare il nemico quand’è moribondo. La logica dei partigiani rossi era semplice quanto terrificante: attaccare fascisti di livello basso (non esponenti di spicco) o singoli tedeschi per incattivire le rappresaglie della Wehrmacht creando così sempre più disperazione e strazio, come se sul finire della guerra ce ne fosse poca. Lo stesso Giorgio Bocca, non propriamente un fascista, ha avuto il candore di dire: “il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio”. Questa strategia folle elaborata dai vertici del PCI per mettere la popolazione contro fascisti e nazisti era così eroica? Era davvero lo slancio patriottico e democratico che ci fanno credere? Crediamo proprio di no! La troviamo solo un’azione sconsiderata ed egoistica che i bravi, coraggiosi e democratici partigiani rossi perpetrarono con l’intento di gettare le basi per la rivoluzione proletaria che da decenni sognavano. Si! Proprio così perché i vertici del PCI avevano come progetto, per il dopo guerra, quello di intraprendere un’altra guerra civile per salire al potere ed instaurare un regime filosovietico. Ecco qua la democrazia dei partigiani rossi. In tutto questo ci furono bande partigiane liberali, apolitiche e cattoliche che subirono fin da subito la strafottenza e la violenza dei fazzoletti rossi che con i loro GAP (gruppi d’azione patriottica) cercarono, e ottennero, la gestione delle bande partigiane in barba al CLN. A fare le spese di questa logica furono anche onesti cittadini che avevano la sola colpa di non essere comunisti o di simpatizzare per Repubblica Sociale. Infatti stupri, saccheggi, uccisioni e violenze varie erano all’ordine del giorno e molte delle bande partigiane ne fecero un loro stile di vita. Con questo vogliamo dire che ci dovrebbe esser obiettività ed a 70 anni di distanza dalla liberazione della Valdichina si dovrebbe avere l'onestà intellettuale necessaria per esaminare la guerra civile e ricordare anche i ragazzi in camicia nera. Crediamo infatti che la guerra civile ( non la chiamiamo guerra di liberazione per piacere!) non vada festeggiata, la guerra civile va analizzata senza preconcetti ideologici e vanno ricordati coloro che donarono tutto per un’idea. Questo è il motivo per cui noi non vogliamo festeggiare proprio nessuna liberazione! Ci fa anche un po’ sorridere quando i menestrelli contemporanei si riempiono la bocca con il termine “memoria condivisa” perché per loro esiste e deve esistere una sola memoria: la loro. Noi non festeggiamo, noi ricordiamo i ragazzi in camicia nera, dimenticati da tutti, che in quella calda estate di 70 fa anni morirono in Valdichiana e tutti quelli che si ritirarono a nord per compiere l’ultimo sacrificio prima di morire