di Massimo Fini
Innocente Pessina, preside del liceo classico Berchet, storico istituto milanese, ha proposto di non dare voti inferiori al 4. «Perché i 2 e i 3 sono troppo umilianti e creano frustrazione nei ragazzi. Io credo nell’educare senza punire». Ho fatto il Berchet, in anni ormai lontani, e in greco non ho preso mai più di 3, molto spesso uno e una volta anche un apparentemente sadico uno meno. Non mi sono mai sentito umiliato o frustrato per questi voti. Sapevo benissimo che li meritavo. Non studiavo. L’errore era avvenuto proprio in fase di educazione scolastica, nel giudizio di terza media che recitava: «Ragazzo che potrebbe fare, ma distratto da un’incoercibile passione per i giochi». Non bisognerebbe mai dire queste cose ai ragazzini. Io mi cullavo nel giudizio parzialmente positivo ("ragazzo che potrebbe fare") e col cavolo che mi mettevo alla prova, a studiare, col rischio di dimostrare, a me e agli altri, che non ero un mezzo genio un po’ indolente ma semplicemente uno zuccone. La sveglia suonò a 17 anni, quando morì mio padre e intuii, più che capire, che non potevo continuare a fare il cazzaro. All’università mi laureai a pieni voti. La scuola non deve solo insegnare italiano, latino, greco, matematica, scienze, inglese e tutto il resto ma deve preparare alla vita, che non è una via lastricata ma una serie di prove, con successi e, più spesso, insuccessi, che dipendo- no in larga misura da noi. Certo, esiste anche il Caso. "Penso ai giovani Mozart uccisi" scriveva Saint Exeupery riferendosi ai talenti finiti sotto una carrozza e che non hanno potuto esprimersi. Ma in linea di massima noi siamo ciò che abbiamo voluto essere. E il meccanismo dei premi e delle punizioni è essenziale per farci capire per tempo chi siamo. Non ho avuto mai simpatia per i giovani aspiranti artisti che odiano il mondo perché si sentono incompresi. Sono alluvionato da dattiloscritti o pdf di ragazzi che scrivono romanzi sulla loro vita e sono frustrati perché nessuno li pubblica. Io li prendo a frustate cercando di far capir loro che non è sufficiente aggirarsi attorno al proprio ombelico per credersi Proust, che c’è bisogno di una mediazione artistica, di uno sforzo. È, un modo, nel mio piccolo, per educarli. Alcuni hanno anche qualche talento. Ma il talento, da solo, non basta. Mi ha detto una volta Rudy Nurejef che ne aveva da vendere: «Il talento conta per il dieci per cento, il resto è costanza, fatica, lavoro».
La proposta del preside del Berchet è un’espressione dello «ZeitGeist», dello «spirito del tempo», che ha sancito il diritto a diritti impossibili: alla felicità, alla salute, all’uguaglianza. Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto che chiamiamo felicità, non il suo diritto. Esiste quando c’è, la salute, non un suo diritto. E lo stesso vale per le capacità o il talento.
Per tornare in ambito scolastico in Germania i voti molto severi nei licei servono a scoraggiare i ragazzi dall’intraprendere o dal continuare studi per i quali non si dimostrano portati e a indirizzarli a istituti tecnici di alto livello (le "Realschule" di un tempo) i quali sforneranno idraulici, falegnami, panettieri, estetisti, artigiani che mentre frequentano queste scuole non si sentono affatto frustrati né umiliati perché i loro studi, a differenza che in Italia, hanno pari dignità sociale con quelli dei licei. Ed è questa la vera uguaglianza. Non il 4 garantito che ricorda molto da vicino il 30 garantito dello sciagurato Sessantotto.