tratto dal CENTRO STUDI "LA RUNA"
di Alberto Lodi
«Unico fra tutti gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia delle meraviglie: che l’ente è» (1). Così Martin Heidegger nel Poscritto (1943) a che cos'è la metafisica?, la Prolusione inaugurale che tenne in occasione del suo insediamento ufficiale all’Università di Friburgo, presso la cattedra che fu in precedenza di Edmund Husserl. Alla domanda «Che cos’è metafisica?» Heidegger non volle rispondere in maniera diretta, ma – poiché «ogni domanda metafisica abbraccia sempre la totalità della metafisica» (2) – attraverso il rispondere ad un’altra domanda, «la domanda fondamentale della metafisica» che già si pose Leibniz: perché, in generale, l’ente e non, piuttosto, il Niente?
Decise di affrontare proprio la questione del Niente, quel Niente che lascienza si rifiuta di prendere in considerazione, giacché per la scienza «ciò chedev’essere indagato è l’ente soltanto, e sennò – niente» (3).
Che ne è, dunque, di questo Niente? Per parlarne «noi dobbiamo poterlo incontrare» (4), ed Heidegger ritiene che esso si possa incontrare nell’esperienza dell’angoscia (che non è semplice paura di un ente determinato) nella quale veniamo assaliti da un senso di spaesamento che cilascia sospesi; «tutte le cose e noi stessi sprofondiamo in una sorta di indifferenza […] non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi […] non rimane nessun sostegno […] L’angoscia rivela il Niente» (5).
Ma il Niente è radicalmente, assolutamente diverso dall’ente: esso «si svela nell’angoscia, ma non come ente […] L’angoscia non è un cogliere il Niente. Tuttavia il Niente si manifesta in essa» (6). Esso ci viene incontro insieme all’ente nella sua totalità, che nell’angoscia si dilegua. L’angoscia è altresì caratterizzata da un indietreggiare «che certo non è più un fuggire, bensì una quiete incantata» (7). L’angoscia permette di esperire la negazione dell’ente nella sua totalità.
Per chiarire il significato del termine «Niente» leggiamo un dialogo che Heidegger ebbe con il monaco buddhista Maha Mani. Heidegger chiese al suo interlocutore cosa fosse per gli orientali l’essenza della meditazione. Il monaco rispose semplicemente: «Raccogliersi […] quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L’‘io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]». Heidegger comprese e disse: «Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto» (8).
Il Niente non sembra, dunque, essere nihil absolutum: diremo piuttosto che è una realtà che delimita (in senso non spaziale né temporale) il mondo; non si trova né nel mondo né al di fuori di esso. «Il Niente non rimane l’opposto indeterminato dell’ente, ma si svela come appartenente all’essere dell’ente» (9). Di più: «Il Niente come altro dall’ente è il velo dell’essere» (10). Noi non possiamo concepire il nihil absolutum: l’unico Niente che ci è dato concepire è la maschera dell’essere, l’essere stesso, che permette di sussistere e contemporaneamente delimita l’ente. Si potrebbero azzardare parallelismi tra il pensiero di Heidegger (che curò anche un’edizione tedesca del Tao TeChing) e le tradizioni orientali, tra il suo essere-Niente e il brahman nirguna, l’Incondizionato, l’Assoluto delle dottrine indù, che si trova al di fuori di ogni determinazione, al di là degli stessi essere e non-essere; e così la condizione del Buddha – va detto tuttavia che da questo punto di vista Heidegger è limitato dalla sua visione dell’essere come radicalmente altro dall’ente, secondo il suo ben noto argomento della «differenza ontologica» (mentre nella metafisica occidentale l’essere verrebbe erroneamente trattato come se fosse un ente).
Si può ravvisare, inoltre, un rimando alla sapienza indù nel Poscritto (che non a caso è del 1943, nel pieno della guerra mondiale), dove si parla del sacrificio (che probabilmente, nello stile allusivo di Heidegger , è – almeno – anche il sacrificio del soldato): «l’impassibilità che non si lascia turbare nella sua segreta disponibilità a quel congedo che è l’essenza di ogni sacrificio […] La brama di scopi turba la chiarezza del timore, pronto all’angoscia, dello spirito di sacrificio che si è creduto capace della vicinanza all’indistruttibile» (11), concetto estremamente simile – per non dire identico – a quanto espresso nella Bhagavadgītā, la parte centrale del celebre poema Mahābhārata. Così si rivolge Kṛṣṇa, Avatāra (manifestazione terrena) del dio Viṣṇu al guerriero Arjuna, sul campo di battaglia di Kurukshetra: «Fiore tra gli Uomini, colui che non può essere turbato da queste cose, chi rimane calmo ed equanime nel dolore e nel piacere, lui solo è degno di ottenere l’immortalità […] L’Uno che pervade tutte le cose è imperituro. Nessuno ha potere di distruggere lo Spirito Immutabile» (12). L’assenza di scopi è del resto il cardine della dottrina del karma yoga, la filosofia dell’azione esposta nel terzo capitolo del sopraccitato testo, secondo cui l’azione deve essere condotta con distacco, senza guardare ai suoi frutti.
Per contestualizzare la «spiritualità» nel pensiero di Heidegger è opportuno ricordare, infine, due suoi brevi scritti: uno è Aufenthalte, resoconto del suo viaggio in Grecia e delle relative esperienze che là ebbero luogo, nell’ambito dei templi ellenici: sull’Acropoli ateniese il filosofo di Friburgo ebbe la sensazione che «gli elementi architettonici dell’edificio sembravano smaterializzarsi. Tutto ciò che era frammentario scomparve. L’estensione spaziale e la misura si concentrarono in un solo luogo. Ciò che li unificava incominciò poi a presentarsi. Un bagliore inafferrabile cominciò a far oscillare l’intera costruzione e, contemporaneamente, la sollevò in una presenza saldamente delimitata, intimamente fusa con le scogliere che la sostenevano. Quella presenza era colma dell’abbandono del santuario. A esso, invisibile, si avvicinò l’assenza della dea [Atena] fuggita» (13). Il secondo testo a cui facciamo riferimento è l’intervista concessa nel 1976 al giornale tedesco Der Spiegel, nell’ambito della quale Heidegger formulò la celebre affermazione: «Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare, nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio» (14); laddove ovviamente il Dio non è il Dio della morale o del moralismo, ma l’oggetto-soggetto di una rinnovata esperienza del sacro da parte dell’esserci, nella sua apertura alla radura dell’essere-Niente, dopo il Tramonto della metafisica e del nichilismo.
Per cominciare ad uscire dalla palude delle superstizioni illuministiche, non ci sarebbe niente di meglio che chiedersi, appunto: «perché, in generale, l’ente,e non, piuttosto, il Niente?». A partire da questa domanda, infatti, viene svelato che il mondo stesso è «magìa» (15).