giovedì 18 ottobre 2012

Serge Latouche riscopre il valore della "frontiera" al tempo del capitalismo apolide

di Leonardo Petrocelli


Chi sconfinava nell’illimitatezza, scriveva Alain Caillé riprendendo un caposaldo del pensiero greco, “doveva essere ostracizzato, escluso dalla città, perché per la città niente è più pericoloso dello scatenamento della hybris”. Ove hybris è parola che indica la smodatezza, la dismisura, l’insaziabile desiderio di essere sempre più di ciò che si è. Quella che nel mondo antico si prefigurava come una anomalia, seppur frequente, punita dagli dei, nella modernità assume i tratti della regola, dell’imperativo categorico da non disattendere mai. Da qui, l’inevitabile rimozione del suo opposto che si potrebbe compendiare in una sola parola, limite, la stessa che dà il titolo all’ultima fatica dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, padre nobile della “decrescita felice”.

“Limite” (Bollati Boringhieri, pp. 113, euro 9) è un agile pamphlet nel quale vengono sciorinati tutti gli ambiti dell’esistenza bisognosi di un confine da ri-tracciare. “In origine – scrive Latouche – il progetto della decrescita si proponeva, più modestamente, di far fronte alla sola dismisura economica, ma oggi si vede progressivamente che questa è il veicolo di tutte le altre”. E, dunque, nel testo, le riflessioni dedicate ai limiti geografici, politici, culturali, economici, morali, conoscitivi, superano largamente quelle legate ai canonici nodi ambientali e finanziari. 

L’operazione è senza dubbio rischiosa perché sfida le istanze del politicamente corretto: non è più un mistero per nessuno che al banchetto della cultura universale (“che non esiste”, sottolinea) si siano seduti contemporaneamente il capitalismo globale e quei salotti del pensiero “senza frontiere” che, muovendo da “un simpatico umanesimo”, ha attivamente contribuito alla costruzione di “un processo di avanzata decomposizione”.

Rifiutando di comprendere che la frontiere non sbarrano ma “filtrano”, rendono possibile l’incontro e lo scambio proprio perché entrambi gli interlocutori portano in dote una specificità e una diversità da porre sul tavolo del dialogo. Il pensiero unico occidentale, in tutte sue facce (quella del liberismo ma anche quella dei diritti), approccia invece l’alterità al solo scopo di soffocarla, soprapponendo le proprie categorie fino a distruggere le precedenti. Un’operazione valoriale che atomizza le coscienze e dissolve le identità sociali finendo per concedere sempre maggiori territori di conquista a quella che Latouche chiama “l’oligarchia plutocratica mondiale”, governo unico di potentati non eletti che riduce gli stati a “prefetti di provincia, onnipotenti nell’applicazione di regolamenti oppressivi ma soggetti ad ordini dall’alto”.

All’individuo solo e inerme, ormai totalmente privo di ogni riferimento, non rimane che affidarsi al potere salvifico della scienza e della tecnologia, le quali, al pari della finanza, rifiutano ogni tipo di regolamentazione e limitazione. La premessa è nella volontà di radere al suolo il già decrepito (per colpa nostra) giardino dell’Eden, “per ricreare il mondo meglio di quanto hanno fatto Dio e la natura”. Naturalmente, la visione di tale capolavoro è di continuo rimandata a data a destinarsi perché, nel frattempo, “il risultato più visibile e tangibile è la trasformazione del mondo reale, quello in cui siamo condannati a vivere, in immondezzaio e discarica”. È, questo, il mero prezzo del progresso o, piuttosto, l’inevitabile punizione per la nostra hybris?