di Francesco Lamendola
Il pubblico, specialmente il pubblico europeo, possiede una percezione parziale dell’opera di Edgar Allan Poe: la sua notorietà come scrittore di racconti del mistero e del terrore è così grande, ampliata anche dal cinema che si è impossessato di quei soggetti, da aver messo decisamente in ombra un altro aspetto della sua produzione: quella lirica.
Leggere le poesie di Poe, immaginando di ignorare l’identità del loro autore, rappresenta una delicata e suggestiva escursione in una provincia artistica leggiadra e nostalgica, pervasa dal rimpianto della Bellezza ideale che il mondo materiale, e specialmente il mondo moderno, con le sue brutture e il suo affarismo, sembra avere irrimediabilmente compromesso; si resta un po’ sorpresi nel confrontare questo poeta delicato e un po’ platonizzante, che vibra al più lieve tocco della Bellezza, sensibile come un rametto di mimosa, al cupo autore di racconti orrorifici come «La maschera della morte rossa», «Il cuore rivelatore» o «La caduta della Casa Usher».
D’altra parte, c’è un tratto caratteristico e inconfondibile nelle liriche di Poe, dal notissimo - e forse troppo celebrato - poemetto «Il Corvo» («The Raven») alla raffinata, nitida poesia «A Elena» («To Helen»), lieve come un impalpabile sogno ad occhi aperti - o magari chiusi, chi può dirlo?, l’atmosfera onirica si presta a tali giochi di specchi fra realtà e fantasia -: vogliamo dire l’attenzione alla pulizia stilistica, la sapienza della struttura lessicale e compositiva, la ricercatezza formale, simile ad un prezioso lavoro d’intarsio e di compasso; tanto da suggerire l’idea che non di poesia sentimentale si tratti, romanticamente intesa, ma di una poesia intellettualistica, razionalmente pensata ed impostata, secondo i canoni rigorosi del “secolo dei lumi”.
È un’impressione che va ridimensionata, tenendo conto che nel Poe lirico esiste un sapiente gioco di contrappunti e di armonie fra la dimensione istintiva, passionale, sentimentale - o, come lui dice, immaginativa -, e quella logica, razionale, “scientifica”; e che il pregio maggiore delle sue poesie consiste proprio nel sapiente dosaggio e nel raro equilibrio che egli riesce ad ottenere fra le ragioni del cuore e quelle della mente; nella linea, del resto, di altri grandi pre-romantici, a cominciare dal nostro Ugo Foscolo, e specialmente il Foscolo dei sonetti.
Abbiamo accennato alla “scientificità” dei procedimenti poetici di Poe, pur subordinati ad una concezione generale del fatto estetico che è d’impostazione idealistica, per la quale le cose sono le ombre o i riflessi di una realtà ulteriore, sovrannaturale o, comunque, non umana, secondo la lezione del mito platonico della caverna, ma anche dello Shakespeare dei sonetti, dei “romances” come «La tempesta» e di alcune struggenti e delicate commedie, a cominciare da «Sogno di una notte di mezza estate» («A Midsummer Night’s Dream»).
Ebbene, il rapporto con la scienza è un’altra preziosa chiave di lettura per accostarsi alla produzione lirica di Poe. Egli non è nemico della scienza, anche se, sulla scia di altri grandi lirici anglosassoni, in particolare del “visionario” William Blake, le rimprovera aspramente di aver gettato un’ombra desolata sul mondo, strappando il velo della poesia e imbruttendo la realtà, ingrigendo gli orizzonti della vita; ma tale rimprovero non è rivolto alla scienza in quanto tale, per la quale, anzi, egli nutre un vivo e sincero interesse e al cui metodo logico ritiene che anche il poeta debba attingere, per non parlare del prosatore (e si pensi ai suoi racconti di genere investigativo, come «I delitti della Rue Morgue», caratterizzati da un rigoroso impianto razionale e deduttivo); bensì alla scienza presuntuosa e arrogante, in definitiva allo scientismo, che pretende di assolutizzare il proprio sapere e di ridurre al rango di saperi di seconda scelta quelli propri alle altre forme di conoscenza del reale, a cominciare dall’arte medesima.
Poe, dunque, non rifiuta la scienza in se stessa, così come, si potrebbe aggiungere, non rifiuta la modernità in quanto tale; ne rifiuta semmai la bruttezza, il cinismo, l’utilitarismo esasperato, il produttivismo cieco, il materialismo grossolano, la pretesa totalizzante a livello estetico, etico e filosofico; rifiuto deciso, intransigente, donchisciottesco, se si vuole, e quindi ingenuo e velleitario, ma non per questo meno sincero, non per questo meno sofferto e umanamente significativo, perché testimonia la crisi e il dramma di una civiltà faustiana che si vede presa nella propria vertigine ed esita, brancolando, sull’orlo dell’abuso, a imboccare sino in fondo la strada di un “progresso” senz’anima, foriero di sempre nuove, sconvolgenti sottomissioni dell’anima alle ferree leggi del Logos calcolante e strumentale.
E che altro è, del resto, la “caduta” della Casa Usher, se non la nemesi di un progresso disumano e accecato dall’umano orgoglio, che non riconosce limiti né misura alla propria “hybris” e che pretende di farsi legge e norma infallibile e inderogabile di ogni agire umano, di ogni pensare, di ogni sentire, come se nulla vi fosse oltre a ciò che la mente razionale può accumulare, manipolando gli enti senza sosta, sovvertendo le leggi naturali, capovolgendo il giusto rapporto fra la vita e il suo insopprimibile bisogno di bellezza?
Tutto questo appare evidente nella “protesta” di Poe, ché di una autentica protesta si tratta, ora esplicita, come nei racconti, ora implicita, come nelle poesie; ma sempre si tratta di una pretesta ferma e intransigente, non tanto in nome della nostalgia del passato pre-moderno (tentazione che, peraltro, fa sovente capolino, specie nelle liriche, in particolare sotto le forme di un richiamo alla grazia impareggiabile del mondo classico), quanto piuttosto in nome di una umanità che, pur confusa e smarrita, non è disposta ad abdicare a se stessa, al proprio sentimento di ciò che è umano, ai diritti sacrosanti della “imagination”, della fantasia creatrice di bellezza.
Così sintetizza la questione Tommaso Pisanti nel suo saggio introduttivo all’opera poetica del grande scrittore americano, «E. A. Poe poeta» (E. A. Poe, «Tutte le poesie», a cura di T. Pisanti, Roma, Newton Compton Editori, 1982, 1990, pp. 15-21):
«Già da fanciullo “mentre era azzurro tutto l’altro cielo”, Poe vide una nuvola prender forma di demone (“of a demon in my view” (“Alone”). E lungo una tale direzione si svilupperà, più tardi, la “selvaggia visionarietà di “The Haunted Palace” (Il Palazzo stregato) e - meno compatta - quella di “Dream-Land” (Terra di sogno), col terribile, soffocante senso di una duplicità e anzi ambigua e stregata “doppiezza” angelico-demonica. Perché se il “demonico” s’accumula in Poe inizialmente come per un’intensificazione della disperazione stessa, interviene e subentra poi anche una specie di contorto sadismo “dello spirito” e dell’immaginazione, che conosce le sue orge non meno di quello fisico-corporeo. Poe vede insomma la vita come divorata e spazzata via dal gigantesco “Verme trionfante” di “The Conqueror Worm”: e ne piangono gli angeli stessi, “pallid and wan”, “pallidi ed esangui”.Nell’intollerabile tensione, Poe si volgerà anche alla Vergine, invocherà Maria: in “Catholic Hymn” (corretto poi in “Hymn”), con suggestione forse dantesca o byroniana (“Don Juan”, III st. 101 ss). Naturalmente, è sempre da tener presente quanto d’impulsivo, d’immediato, quanto dell’istinto e della multilateralità dell’attore-istrione e, al limite, di mistificatorio è in Poe. Il poeta vive, “trasognato, giorni estatici” (“And all my days are trances”), dirà in “A una in Paradiso”. Certo, Poe fu “evasivo”, “disimpegnato”: ma nel senso della “immaginazione angelica”, disincarnata, indicata da Allan Tate. Il suo esplorare la surrealtà non si risolve poi infine, tuttavia, in una più sottile conoscenza d’una più globale, estesa realtà? […]
Le poesie riservano tutto un più largo spazio, rispetto ai racconti, a quella componente dell’ardore per la Beltà, a un mito d’armonie remote e perdute […]: ardore e mitopoiesi classico-platonica soffusi d’ombre orfico-pitagoriche, e con qualche finale riverbero, magari, pur sempre goticheggiante.Una componente, questa, fondamentale, che stacca comunque Poe dalla dimensione, diciamo, soltanto “gotica” e romantico-hoffmaniana per accostarlo anche al nitore d’una linea e d’una mitizzazione classico-neoclassica, alla linea di Hölderlin, di Keats, di Foscolo: come nella splendida, esemplare “To Helen” […], pubblicata già nel 1831 e poi continuamente ricesellata. […]
E a difesa dei vecchi miti e, leopardianamente, degli “ameni inganni”, anche Poe lamenta, nel sonetto “Alla scienza”, che il “progresso” abbia tutto ingrigito e livello, che la Scienza con le sue ali “grevi” (“dull”) abbia “sbalzato Diana dal suo carro” e “scacciato l’Amadriade dal bosco” e “strappato la Naiade al flutto / l’Elfo al verde prato e me stesso infine / al sogno estivo all’ombra del tamarindo”. Ma è solo un’accentuazione particolare : giacché Poe è in realtà vivamente sensibile allo sviluppo scientifico, nella misura in cui esso è, innanzi tutto, collegato con una “mind” lucido-geometrica e anche per quanto può offrire, di nuove aperture e di nuovi strumenti, all’esplorazione e all’osservazione sottilmente operate dall’occhio e dalla mente umani (e nella mente umana). Insieme al rimpianto quindi Poe ingloba in sé un attento, tenace interesse nei riguardi della lucidità dei metodi e dei procedimenti, una ferma attenzione alla rigorosità del linguaggio matematico-scientifico, al linguaggio del pensiero e delle definizioni, che possono offrirgli materiali e stimoli proprio per il lato di rigorosità e di definizione laicizzante che egli intende dare alla sua macchina stilistica. […] Si tratta, naturalmente, di un uso “strumentale” della scienza, proprio al fine di ristabilire quella riunificazione tra il sensibile e il soprasensibile che è il supremo proposito di Poe e il supremo proposito della poesia, secondo Poe: nel quale resta nettissima, s’intende, l’avversione alla scienza come pretesa sistematica di spiegazione e interpretazione puramente ed esclusivamente logico-razionale. […]
Anche se, alla base, è la “prescienza estatica” che dà il primo scatto, è all’intelletto e alla “tecnica” che tocca poi partecipare per il fattuale concretarsi della poesia. “Non vi è peggior errore che il presupporre che la vera originalità sia semplicemente questione d’impulso e d’ispirazione. Originalità è combinare in modo attento, paziente e comprensivo”. Poe è insomma tutt’altro che immerso nella totalità romantica, resta anzi legato ad eredità settecentesche, “è un razionalista del Settecento con inclinazioni occultistiche”, ha perfino scritto il Wellek. […]
Il senso della “combinazione” non deve tuttavia indurre ad eccessive, facili accuse di “cerebralismo” e “meccanicità”. Lawrence scrisse perfino che Poe “è quasi più scienziato che artista”. Ma i meccanismo che Poe mette in movimento puntano a un “effetto”, cioè a risultati: d’eccitazione e d’intensa emotività.
Poe fu insomma scopritore- può dirsi ancora, e concludendo, con Emilio Cecchi - “di una provincia che non è quella del’orrido, dell’ossessivo, ma è semplicemente la nuova provincia dell’arte d’oggi. Solo una delle nuove province, a voler precisare. E fra tentativi e approssimazioni, se si vuole. Ma è innanzi tutto in se stessa, nella sua intrinseca composizione che la poesia di Poe va riletta e ripensata: una lampeggiante associazione di “gotico”, di tradizione classicista e di inquietanti fosforescenze anticipatrici, sì, ma già “poesia” per se stesse.»
In questo senso, e sia pure forzando, ossia andando oltre, la stessa interpretazione del Cecchi, ci sembra di poter concludere che Poe, e specialmente il Poe lirico, tanto meno conosciuto, ma non meno interessante del Poe narratore, si possa considerare come lo scopritore non solo di una nuova provincia dell’arte, ma di una nuova malattia dello spirito: la modernità.
Negli stessi anni di Kierkegaard, anch’egli leva la sua voce per protestare contro il cancro della società massificata, petulante, presuntuosa, che, forte dei propri successi tecnici ed economici, pretende di imporre il suo dominio tirannico sui regni dello spirito e sui diritti inalienabili dell’io individuale. Poe, dunque, fratello in spirito di Kierkegaard: chi l’avrebbe detto? Eppure è così.
Certo, la protesta di Poe è quella di un poeta: non possiede né la forza, né il rigore del grande filosofo danese. Davanti alla bruttezza che minaccia la vita fin nelle sue intime radici, Poe non sa cercare rifugio se non nelle braccia della donna idealizzata; ed ecco le numerose donne angelicate: Elena, Elizabeth e le altre. Fragile rifugio, quale potrebbe cercare un bambino spaventato da un brutto sogno: «Io vivevo tutto solo / in un mondo di dolore, / e la mia anima ristagnava immobile, / finché la bella e gentile Eulalia non diventò mia timida sposa» («Eulalia»). Ma la vita, è altra cosa...