Nel 1975 “Rollerball” di Norman Jewison annunciò la globalizzazione; ma già nel 1972 “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio aveva annunciato a me il futuro personale. Infatti, a interpretare l’assassino e l’assassinata in quel film, dove un quotidiano milanese gonfiava come delitto politico un delitto sessuale, erano Massimo Patrone e Silvia Kramar, che diverranno miei amici. Come la Kramar, poi, avrei lavorato per un quotidiano milanese la cui testata, “Il Giornale”, ricalcava quella ideata da Bellocchio (nella realtà “Il Giornale” ideato da Indro Montanelli uscirà solo nel 1974). Quanto a Bellocchio, il suo cammino avrebbe incrociato il mio di critico a ogni Festival del cinema: a Cannes ero giurato quando concorreva nel “Certain regard” il suo “Il regista di matrimoni”... Dunque come sottrarmi alla curiosità per “Sbatti Bellocchio in sesta pagina. Il cinema nei giornali della sinistra extraparlamentare 1968-76”, curato da Steve Della Casa e Paolo Manera (Donzelli, pp. 227, euro 18)?
Ex direttore del Torino Film Festival, conduttore di Hollywood Party su Radio3, Della Casa è un Tex dell’ultrasinistra. «Mi sono politicizzato – racconta – al liceo Cavour di Torino, militando nel Psiup (Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria), un milione e mezzo di voti nel 1968, cinquecentomila nel 1972 (tanto che da allora l’acronimo Psiup significò Partito Scomparso In Un Pomeriggio, ndr). Passai così – continua Della Casa – a Lotta Continua. Ero piuttosto serio e molto impegnato: per fortuna mi piaceva anche il cinema. Così, già allora, ho diversificato, come si dice oggi».
Della Casa, perché il 1968 è terminato nel 1984?
«Perché l’informazione, prima di allora, era così imbalsamata che chiunque sarebbe stato un innovatore. In particolare lo è stato chi auto-produceva informazione. Stare nel movimento creava molti eccessi, ma anche un’apertura e conoscenze mancanti alle generazioni precedenti. Ciò vale specie per chi, come me, veniva dalla borghesia piemontese. Mio nonno, che era molto sveglio, non aveva mai visto un quartiere popolare. Se sai le cose, poi le racconti meglio».
Le rudezze della stampa estremista di allora sono oneste, se paragonate ai soffietti della stampa borghese odierna.
«Sono oneste nel senso che non erano pagate da nessuno. Ma hanno dato il là a una critica che preferisce la stroncatura senza appello alla dialettica con chi fa qualcosa (cinema, teatro, musica, letteratura...). I soffietti non mi piacciono, ma nemmeno mi piace chi pensa che una stroncatura sia una catarsi culturale. Sono figli di chi, allora, parlava di film come fosse stato pubblico ministero del tribunale del popolo. Che (per fortuna) non esisteva».
Chi è stato il regista più sottovalutato dall’ultrasinistra?
«Elio Petri. Il Pci lo trattava male perché spirito libero; gli extraparlamentari l’odiavano perché era scritto al Pci. In realtà un sognatore e un grande talento visivo».
Un altro sottovalutato?
«Dario Argento, trattato come un macellaio, mentre faceva i suoi film migliori».
E il film più sopravvalutato qual è stato?
«“Bronte” di Florestano Vancini. Non era un brutto film ma, siccome si guardava solo al contenuto, lo si è visto come un manifesto della rivolta del proletariato meridionale. E non era così».
Un film unanimemente apprezzato, sempre in quegli ambienti?
«“Sugarland express” di Steven Spielberg piacque al pubblico e lo meritava. Peccato che la sinistra stroncasse i film di Sam Peckinpah, un grande che, per fortuna, piaceva al pubblico».
Nel 1975 esce “Rollerball”. Viene dopo “Alphaville” di Jean-Luc Godard (1966). Opere diversissime, ma più chiaroveggenti di “Arancia meccanica” di Stanley Kubrick (1972). Film che affascinano i rari critici neofascisti, ma sono quasi ignorati dai molti critici d’ultrasinistra...
«Sulla società industriale le critiche da destra erano più articolate di alcune posizioni di sinistra. L’industrialismo ha attraversato anche la sinistra extraparlamentare, che se ne è liberata solo dopo, quando si è lottato contro il nucleare. Prima l’equazione era “più fabbriche, più occupazione”, ovvero meno esercito industriale di riserva e proletariato più forte. I due film citati sono anti-industriali, “Arancia meccanica” (sopravvalutato, concordo) direi di no».
Lei elegge “Sbatti il mostro in prima pagina” di Bellocchio a simbolo di un cinema impegnato discusso dal pubblico di elezione. 40 anni dopo, il cinema italiano è come certa musica anglosassone: prigioniera del ricordo di Beatles e Rolling Stones?
«Forse sì. Ma preferisco i Beatles ai Rolling Stones. E mi piacevano molto anche altri gruppi. Il film più impegnato di allora mi pare “Vamos a matar, companeros” di Sergio Corbucci (1970). Anche se Bellocchio mi piace molto».
Militante di Lotta Continua, lei ne seguiva le indicazioni cinematografiche o quelle di altri fogli d’ultrasinistra?
«Neanche per idea. Nel 1974 avevo aperto un cineclub e passavo le giornate tra i cancelli della fabbrica, dove facevo militanza politica, e il Movie Club, dove proiettavo senza problemi Sacha Guitry (accusato di collaborazionismo nella Francia occupata) e John Wayne, mio attore preferito. Ho scritto su Lotta Continua, ma non di cinema. L’unica volta che ho mandato un pezzo di cinema è stato nel 1979, quando morì John Wayne. Non è stato pubblicato, perché “non potevo santificare l’emblema dell’imperialismo”. Non ho mai più voluto scrivere nulla».