Di seguito riproponiamo l’editoriale di Pino Rauti sul primo numero di “Linea”, uscito il 1° marzo 1979. Il titolo era «Per andare oltre». Alcuni brani di questo articolo sono stati letti durante i funerali di ieri dalla figlia Isabella.
Pino Rauti
Se credessimo alle coincidenze facilmente gratificanti, faremmo notare che usciamo con questo giornale mentre imperversa la più difficile e torbida crisi che abbia mai conosciuto nel dopoguerra l’Italia; che usciamo, mentre la crisi, d’altronde, appare come il riflesso, la conseguenza, la cassa di risonanza di una situazione generalizzata di degrado e di scollamento; e, ancora, che tutto quello che accade e occupa le cronache, straripandone con flutti sconvolgenti, è soltanto l’effetto di un “male” più profondo che ha ormai pervaso sin le fibre più riposte della comunità nazionale (o di quella che, una volta, si usava definire così). Ma da quanto tempo, esattamente, siamo in piena crisi?
I politologi di tutto il mondo che guardano al “caso Italia” – e hanno l’aria di curvarsi su un letto di un malato inguaribile, quasi riuniti a cronico consulto – alla sua specificità e peculiarità, questo almeno hanno stabilito: che la crisi viene da lontano e dal profondo, e appunto per questo è vasta e pare irriducibile; che in essa confluiscono fattori antichi di fragilità e, nuovi, di tensione crescente, sempre peggio fronteggiati. Anche altrove, in Occidente, vi sono sintomi dello stesso male, ma l’Italia è in testa con una serie di primati negativi. Forse, anticipa i tempi altrui; certo, ne vive di gravissimi e ne deve presagire di ancora più duri. Come in nessun altro Paese dell’Occidente, la crisi del regime è diventata crisi del sistema e si intreccia al quotidiano, anche al più riposto privato in cui si rifugiano un po’ tutti quasi in ultima, disperata, ridotta difensiva.
Ma proprio questo connubio, questo annodarsi intossicante e defatigante, alimenta un altro aspetto del male italiano dei nostri giorni: l’assuefazione, l’abitudine a tutto, la opaca, spenta, passività del puro vegetare. I sociologi – anch’essi impegnatissimi a sfornar diagnosi sull’Italia – notano che, in genere, la cosiddetta “affluent society” è quella che “scansa il cadavere”; la gente non si ferma, qualsiasi cosa le avvenga di incontrare. Devia i propri passi, o gira al largo con la macchina, per superare l’ingorgo, il nodo, il problema. Solo così, si dice, può continuare a vivere; perché altrimenti sarebbe sommersa dal flusso delle troppe vicende emotive e traumatizzanti che la assediano e la incalzano.
Qui da noi scansiamo cose enormi, eccezionalmente visibili. Al reiterarsi frenetico delle varie emergenze fa da contrappeso la capacità di assorbire sempre di più i colpi, di consumarli, quasi; di diluirli e sgualcirli nella gradualistica sfilacciatura dei giorni che, comunque, passano.
Ogni tanto, un sussulto; e si scopre, ad esempio, all’improvviso la cosiddetta economia dell’Italia sommersa; con sette-otto milioni di italiani che lavorano per conto proprio, magari assentandosi dall’altro lavoro, quello ufficiale, e producono un reddito di otto-diecimila miliardi. Rifiuto del collettivismo, anche; corsa verso il “privato” come ultima spiaggia produttivistica; ma altresì colossale operazione di ristrutturazione neocapitalistica compiuta sotto la superficie delle strutture socio-economiche, all’ombra del compromesso storico che si era avviato, sotto lo sguardo distratto di pressioni sindacali tanto laceranti nella forma quanto ottocentesche nella sostanza visto quel che accadeva e che è già accaduto.
La crisi ha, dunque, due aspetti: da un lato è quella che tutti vedono e che anche nelle nostre file viene seguita fin nei dettagli, la crisi del regime dei partiti e – anche, ormai – del sistema che lo esprime e che ne è alla base. Ma c’è crisi anche sull’altro versante, meno analizzata sinora e ancor meno assunta come punto di riferimento per nuovi orientamenti e valutazioni; ed è la crisi delle sinistre nel loro complesso, e del Pci in particolare, in termini di incapacità a prospettare un modello di sviluppo e di società che sia alternativo a quello attuale e che, già in itinere, abbia la capacità di incidere positivamente sulle strutture socio-economiche.
Scardinare, è stato facile; eppure sconsacrare e dissacrare e mettere in crisi. Per il semplicissimo motivo che non c’era quasi più niente di solido né di sacro. Il re era nudo da gran tempo; e non abbiamo aspettato che venissero a dimostrarcelo quelli della scuola di Francoforte, con Marcuse in testa.
Ma le febbri, specie quelle alte, che non sfociano alla fine in atti compiutamente rivoluzionari; in ordinamenti nuovi, alla lunga stancano, sfibrano, disgustano. Ci si può aggirare tra le macerie per ricostruire; oppure, per bivaccarci a mo’ di tribù chiassosa, incapace, impotente. Da certe tensioni prolungate o si esce in avanti, e possibilmente verso l’alto, oppure si tende a ricadere indietro. Ecco, il riflusso, lo sfaldamento anche umano che si va facendo strada anche a sinistra; la disperata corsa deviata, e deviante, che ne getta una parte nel meccanismo terroristico e ne spinge il grosso verso stati di delusione diffusa e generalizzata, disimpegnanti e amari. Il Pci se ne è accorto; e per questo ha battuto banco, chiedendo che la Dc onorasse le tante cambiali compromissorie fin qui firmate; perché altrimenti, si torna all’opposizione prima che sia troppo tardi; si torna a Livorno, al ritualismo delle origini. Tentativo patetico, perché il problema non è lì o non è tutto lì. L’incapacità rivoluzionaria delle sinistre italiane e occidentali in genere non dipende solo da fattori specifici, locali. Viene anch’essa da lontano, dai fallimenti che si accumulano a ritmo crescente sulla vasta area del mondo socialista, dove Stato-compagno invade e occupa Stato-compagno e riemergono retroterra, anche etnici, anche culturali che si credevano appiattiti per sempre.
E tuttavia, bisogna andare avanti; bisogna andare oltre; è necessario superare questo regime e questo sistema. Anche laddove esso, come suol dirsi, ancora funziona in termini di meccanismo produttivo e di assetto sociale (vogliamo dire la Germania occidentale, gli Stati scandinavi, gli Stati Uniti) noi vediamo, e gettiamo sul piatto della bilancia, dei nostri contenuti e del nostro spessore, altri costi, umani ed esistenziali, quotidiani e di fondo, personali e comunitari che a tanto ci sollecitano e ci stimolano.
Certo, c’è un’immensa, astronomica differenza tra i Paesi che vivono sotto la sferza del “socialismo reale”, i loro gulag allucinanti, i loro fallimenti assoluti, a ogni livello; ma Solgenitsin, che ha ben conosciuto e sofferto quella realtà terribile, ci ammonisce senza perifrasi: a che serve vivere meglio, se si perde l’anima, lo spirito? A che serve – e a “chi” serve, aggiungiamo noi – vantare, ancora, superbe superiorità tecnologiche e scientifiche, se poi la gran massa di coloro che formano i popoli, le comunità, le nazioni, nel loro vivere quotidiano sono appiattiti da altri meccanismi alienanti e disgreganti; e corrosi nel loro intimo; e ridotti al puro economicismo cui obbediscono quegli stessi meccanismi; e diventano, o tendono a diventare, quella poltiglia senz’anima e senza volto che già è, diremmo fisicamente, visibile nelle grandi aree metropolitane dei nostri giorni?
Molte bandiere si stanno stingendo, si stanno abbassando in questo periodo; molti miti stanno andando in frantumi, di quelli che sembravano, sin qui, occupare ed egemonizzare il campo delle speranze e delle volontà dei più. È il momento delle nostre bandiere. È il momento – per andare oltre – dei nostri miti.