domenica 11 novembre 2012

La città da sogno a incubo

tratto da Area

Nei tempi più remoti, quando uomini che da poco si erano differenziati dalle bestie si aggiravano in branchi, cacciando con armi di selce e di corno, qualcuno di loro comprese che scegliere un luogo adatto alla difesa comune e prossimo alle riserve alimentari poteva rappresentare la salvezza.

Fu la prima tappa dell’evoluzione sociale, in senso moderno: nacque il villaggio. Questo determinò l’affermarsi di una serie di valori specifici, legati alla necessità di coniugare la convivenza con le diversità degli individui: la società domocultile impose la nascita dell’homo legalis. In un certo senso, possiamo dire che la legge si affermò come sistema di riferimento collettivo, proprio quando le comunità nomadi divennero stanziali: prima, chi creava problemi alla comunità, veniva eliminato o ne veniva allontanato, semplicemente, creando una nuova comunità a sua volta. La città, perciò, divenne il luogo della legge: fonte di diritto e, al contempo, roccaforte del diritto. Essere un cittadino era una condizione giuridica.

La tragedia classica, che rappresenta una formidabile allegoria dell’evoluzione culturale e spirituale del mondo greco, ci dice a chiare lettere che il vecchio diritto di sangue, legato strettamente alla religione preindoeuropea delle divinità ctonie, dovette sciogliersi nelle leggi cittadine: si trasformò in mito religioso, cedendo lo scettro della giustizia ai tribunali. Questo emerge con straordinaria chiarezza dalla trilogia dell’Orestea, che si conclude, appunto, con il giudizio dell’Areopago, chiamato dagli dèi a dirimere la controversia sulla colpevolezza di Oreste, matricida e vendicatore insieme. Eschilo, trasformando le Erinni (divinità preindoeuropee legate ai delitti di sangue) in Eumenidi, ossia “le benevole”, protettrici della città, descrisse esattamente questo processo.

È talmente ovvio da apparire quasi superfluo ricordare come questa lezione sia stata ulteriormente elaborata e perfezionata dalla civiltà romana, che proprio sul diritto cittadino fondò interamente la propria forza e la propria Weltanschauung. La città divenne insieme Patria e Casa: la massima ambizione di un suddito di Roma fu sempre quella di ottenere lo status di cittadino, tant’è vero che gli imperatori estesero via via questo diritto a sempre più abitanti, fino a Caracalla, che, nel 212 d.C., lo concesse a tutti i liberi, indistintamente. A quel punto, però, se n’era completamente perduto il valore spirituale: ne sopravviveva, soltanto, la valenza sociale.

È a Roma che, probabilmente, nacque quella nostalgia per i bei tempi antichi, per la semplicità e la morigeratezza di una società cittadina ristretta, quasi chiusa entro le mura urbane, come in una placenta rassicurante: il mito del passato, i laudatores temporis acti, comparvero a Roma, perché l’apogeo ateniese era durato, forse, troppo poco per delineare chiaramente i termini della decadenza di una società cittadina.

Quest’idea di una cittadinanza piccola, coesa, responsabile, sobria, si ripropose, tingendosi di colori ancora più crepuscolari, quando le piccolissime città quadrate dell’Alto Medioevo cominciarono a lasciare il posto alle prime metropoli: Palermo, Parigi, Firenze, tra il XIII e il XIV secolo stavano già assumendo l’aspetto di una città moderna. E ne stavano sviluppando i difetti…

Fiorenza dentro de la cerchia antica, che Dante evoca nella sua Commedia, è una meravigliosa icona di questo rimpianto struggente per una semplicità perduta, per un mondo ritenuto perfetto: in un certo senso, questa città in cui tutti ancora si conoscono per nome e si giudicano e si aiutano, è il medio proporzionale tra il villaggio contadino e la megalopoli; un luogo in cui i vantaggi dell’associarsi non hanno ancora portato le iatture della modernità.

La città stava diventando labirintica: i quartieri crescevano come villaggi di tribù diverse all’interno degli stessi confini. I servizi, certo, erano più accessibili: ma si stava perdendo l’idea di città-comunità, a vantaggio di quella piramidale, di città come stratificazione per gruppi sociali.

Tutta l’Età Moderna rappresentò un progressivo maturare di questo concetto contrastivo di civiltà urbana: possiamo, in un certo senso, affermare che la Parigi del XVIII secolo rappresentasse una convincente allegoria della società umana, all’epoca dell’Ancien Régime, con le sue strade sporche, le sue abitazioni degradate e i fastosi giardini e palazzi della nobiltà a renderne ancora più stridenti i contrasti.

Nascono proprio in quel periodo le prime distinzioni antropologiche veramente significative tra i cittadini: a cominciare dalla lingua, che divenne uno strumento di distinzione e di difesa di classe, insieme. Si pensi, ad esempio, al cockney degli eastender londinesi: un arguto sistema di rime e di giochi di parole il cui scopo era quello di non farsi capire dalle classi agiate del West End (lo stesso nome “cockney”, che poi divenne sinonimo, a un dipresso, di popolano di Londra, era nato da un nonsense: un gallo che nitrisce, cock-neigh).

I cittadini non cercavano più strumenti per essere uniti, ma, semmai, per distinguersi e dividersi: la città spirituale, la città le cui mura erano sacre, era divenuta, semplicemente, il luogo di una convivenza aspra e difficile tra uomini che non avevano nulla in comune, neppure le parole. Non è un caso se, in questa atmosfera, si svilupparono le moderne dottrine sociali, contemporaneamente ai fuochi di una ribellione delle classi subalterne che, dalla fine del ’700 alla Grande Guerra, incendiò l’Europa. E in particolare le grandi città europee, che divennero l’epicentro d’ogni rivolta e d’ogni rivoluzione: Parigi, Berlino, Napoli, si trasformarono in altrettante polveriere, che, tra il 1789 ed il 1848, segnarono il barometro delle tensioni sociali del Vecchio Continente.

Il fenomeno che, tuttavia, in epoca moderna, segnò maggiormente il carattere della città fu la seconda urbanizzazione, strettamente legata allo svilupparsi della società industriale del XIX e XX secolo: per certi versi, possiamo paragonare i fenomeni migratori e, per conseguenza, sociali, derivanti dalla rivoluzione industriale, all’urbanesimo medievale, che modificò radicalmente la società europea, tra il Mille e la scoperta dell’America. Se nel Medioevo questo fenomeno antropico diede origine ai “borghi” (e, per conseguenza, al concetto di “borghesia”), intesi come luoghi suburbani in cui si trasferivano e risiedevano i commercianti e gli artigiani, nel XIX secolo il flusso costante e poderoso di manodopera dalla campagna verso la città stravolse completamente il tessuto urbano, causando la formazione di immensi quartieri dormitorio, sostanzialmente sprovvisti di servizi e di luoghi di aggregazione.

È in questo periodo che nacquero e si svilupparono le abnormi periferie urbane, che, ancora oggi, sono la principale nicchia di disagio sociale delle città europee: le banlieue, gli slum, l’hinterland, vere e proprie terre di nessuno che non erano certamente campagna ma neppure si potevano definire città, mancando d’una propria identità e perfino d’una morfologia coerente. In questi quartieri periferici il cittadino iniziò a spersonalizzarsi e, al contempo, a omologarsi: ormai non vi era praticamente differenza tra un operaio parigino e uno londinese; e Londra e Parigi sembravano la stessa città, se si visitavano i luoghi in cui questi operai abitavano.

Di qui, crediamo, prese le mosse l’idea dell’internazionalismo marxista: il mondo, secondo Marx, non era raffigurabile con una carta geografica in cui gli Stati avessero colori differenti, ma come un’immensa piramide alla cui base tutto il proletariato fosse uguale, senza tener conto della sua cittadinanza. Nasceva un lavoratore apolide e moriva l’idea stessa di cittadino: il popolo non cantava più “…aux armes les citoyens…”, adesso le armi le doveva impugnare un operaio sfruttato, e non aveva alcuna importanza la lingua in cui gridava la propria protesta.

Per certi versi, questo fenomeno si ripropose, con molte analogie in tempi più recenti: nell’Italia del secondo dopoguerra, ad esempio, oppure nei grandi quartieri-ghetto francesi e inglesi del primo periodo post-coloniale. Tuttavia, anche se il quadro può apparire precocemente catastrofico, la città manteneva un suo carattere: vantava dei pregi, possedeva un’anima, che quasi sempre coincideva con la sua impronta monumentale. Gli immigrati che venivano ad abitarci, volenti o nolenti, ne assorbivano lo Stimmung: anno dopo anno, perdevano i loro connotati allogeni e assumevano una fisionomia comune. In altre parole, diventavano cittadini. Alla base di questo complicato processo osmotico stava, in sostanza, il concetto di accettazione della cittadinanza: l’idea di diventare parte d’una comunità definita veniva introiettata e fatta propria. E non è un passaggio da poco: da questo scatto mentale e spirituale dipende, oggi, l’idea stessa di cittadinanza e di Patria.

Per fare comprendere come, oggi, il concetto di cittadinanza non possa più essere collegato né allo ius soli né allo ius sanguinis, ma, piuttosto, a uno ius animi, Giano Accame, indimenticato maestro, usava paragonare un ascaro o un dubat, che fosse morto combattendo per il Tricolore, a un italiano che, in tempi di Guerra fredda, avesse tifato Urss o avesse sputato sulla nostra bandiera: quale dei due sarebbe stato il vero cittadino d’Italia? Ovviamente, quasi chiunque avrebbe indicato l’africano, tranne forse uno di quei buontemponi che urlano “10, 100, 1000 Nassiriya!”.

Ecco, nel cittadino avviene qualcosa di simile: pur provenendo da realtà diverse per cultura, stile di vita, abitudini, quando decide che quella in cui vive è la sua città, automaticamente, quasi senza volere, ne assume l’accento, i modi di fare, la facies. O, meglio, nel cittadino avveniva così, perché nell’anno di disgrazia 2011 la città appare radicalmente cambiata da quella che era anche solo pochi decenni o, addirittura, pochi anni fa. È diventata più estranea, più indistinta e in definitiva più minacciosa.

Dove risiedano le cause di questa malattia che sta corrodendo alle radici quella che era stata per millenni la matrice dell’identità e dell’appartenenza è problema di difficile soluzione, a meno che non ci si voglia rifugiare nella sociologia d’accatto. Siccome, invece, per chi scrive, proprio quell’approccio ai problemi è una delle cause del disastro etico nel quale ci stiamo dibattendo, cercheremo, in maniera estremamente sintetica, di spiegare quali siano secondo noi le origini del problema.

Innanzi tutto, la città paga pesantemente un deficit di bellezza, che affligge il mondo occidentale, e l’Italia in particolare. Fino a qualche decennio fa, architetti, pubblici amministratori, semplici privati, lavoravano per abbellire gli spazi comuni: per dotare la propria città di monumenti, ma anche di belle costruzioni. Così, nei secoli, le città assunsero il loro carattere specifico, che a Firenze è bianco e nero come le pietre delle chiese, mentre a Roma assume i toni dorati del travertino. In questi tempi senza luce si costruiscono brutte case, brutti palazzi, brutti quartieri: e tutta questa bruttezza - anche se a qualcuno può far ridere - fa vivere peggio, ci rende tristi, nervosi, insoddisfatti.

Ma la questione non è soltanto estetica, naturalmente: un altro enorme ostacolo alla vita comunitaria è la diffidenza o, se si preferisce, l’indifferenza. La diffidenza deriva dalla non riconoscibilità degli altri cittadini come tali: nel percepire come estranei determinati individui o gruppi d’individui. Vi è in questo, certamente, un fondo di pregiudizio: dall’altro, però, c’è una spaventosa e strumentale sottovalutazione del problema dell’immigrazione extracomunitaria, ossia dell’immissione nel tessuto urbano di gruppi etnici del tutto estranei alla civiltà europea per religione, costumi, convinzioni e carattere. Si ha un bel dire che siamo tutti fratelli: la comunità è come un corpo fisico, che ingerisce il necessario, ma quando esagera poi s’intossica e vomita il di più. Lo rifiuta.

Di nuovo dobbiamo tornare ai primordi della storia della città: quelli da cui siamo partiti. La città nacque da un bisogno di darsi delle regole: non si può pensare che sopravviva all’immissione di persone che non accettino e, anzi, contrastino queste regole. Costoro non sono e non saranno mai dei cittadini, ma solamente degli intrusi o, peggio, degli incursori: ce lo dicono millenni di esperienza urbana. Come si diceva poco sopra, è un cittadino chi decida di condividere un’idea di città, non chi si trovi, per caso o per comodità, a risiedere in un determinato territorio, come una mucca che bruchi l’erba qua e là, a seconda di dove cresce.

L’altro volto di questo problema è quello dell’indifferenza: l’estraneità fa paura e conduce a farsi gli affari propri, a non condividere nulla dell’esistenza degli altri cittadini. Così, si arriva agli eccessi londinesi, di gente che ti passa accanto mentre agonizzi per un infarto, e nemmeno ti guarda, pensando che il tuo problema sia solamente tuo: si arriva ai morti a Napoli e a Roma, in stazione, nell’indifferenza della gente. Ma sarebbe meglio dire: nella paura. Le nostre città hanno paura: vi sono zone d’ombra vaste e desolate, come in una Gotham City livida e notturna.

Ma non pare verosimile che si tratti di una paura semplicemente determinata da un oggettivo peggioramento della microsicurezza: c’è dietro qualcosa di più profondo e terribile. C’è una completa assenza di meccanismi solidali: un totale tracollo dello scambio interpersonale causato dall’abnorme crescita del tessuto urbano e suburbano. Insomma, le nostre città sono dei deserti di cemento. E sono sempre più sporche, sempre meno simili a casa nostra e sempre più casa di nessuno.

Se questo avviene a casa nostra, cosa succede nelle megalopoli che stanno crescendo nel resto del mondo? Mumbai, il Cairo, Teheran, San Paolo del Brasile, Città del Messico… agglomerati di quindici, venti milioni di abitanti che svuotano le campagne e snaturano il tessuto sociale, creando formicai informi stretti intorno alla speranza di sopravvivere.

Quale potrebbe essere la soluzione, almeno per le città nostre? A breve termine, nessuna, per certo: inutile illudersi che una tendenza tanto radicata e profonda possa essere invertita dall’oggi al domani. A lungo termine, bisogna lavorare sulla cultura, sullo spirito dei cittadini: restituire loro, nella teoria, qualche speranza e qualche convinzione e, nella pratica, la sensazione di non essere soli e abbandonati. Questo significa un enorme sforzo politico e sociale, che va dai vigili di quartiere all’edilizia monumentale, dai parchi alla raccolta differenziata. In conclusione, se si vuole che la città torni a essere un luogo dotato di un’anima, si deve andare avanti: il che, molto spesso, significa non dimenticarsi del passato.

Per esempio, e qui si conclude, con un suggerimento buttato lì, questa breve chiacchierata sulla città, pensare ai quartieri come a tanti villaggi, autonomi per servizi, strutture, trasporti e identità: questo manterrebbe viva la città, che apparirebbe come una sorta di federazione di quartieri - la “città stellare” - in cui potrebbero felicemente convivere i vantaggi dell’economia di scala e quelli della piccola comunità coesa.

In Europa ci si sta già muovendo in questa direzione. E noi, in via puramente teorica, di questa Europa dovremmo far parte. Come cittadini.