Dopo gli scontri di mercoledì impazza il dibattito surreale sul grado di negatività di mazzate e calci in faccia. Sono sempre stato sorpreso dai piagnistei di chi, uscito di casa attrezzato di tutto punto per affrontare epici scontri, finisce il giorno dopo a mostrare i lividi alla maestra con la pretesa di essere coccolato e compatito. Protestare, anche in modo duro, se si ritiene che si stia realizzando un torto, ci sta. Di generazione in generazione, è sempre accaduto. Ma se uno scende in piazza con rabbia è perché è convinto di avere di fronte un nemico della giustizia e quindi dovrebbe dare per scontato che quello si comporti in modo ingiusto. Se io voglio fare il rivoluzionario non posso pretendere che il potere che voglio abbattere sia con me gentile e corretto. Se lo fosse, dovrei il giorno dopo nutrire dubbi sulla correttezza della mia radicale opposizione. Se io uscissi di casa per prendere a bastonate i poliziotti e quelli si comportassero con correttezza e cortesia, forse vorrebbe dire che il potere odioso che combatto non è poi così odioso. E dovrei tornarmene a casa senza gloria. La lotta dura si può fare (con o “senza paura”) ma deve essere adeguata al nemico contro cui si lotta. Uno non può incendiare le case perché c’è la disoccupazione. In quel caso si fa una cooperativa. Né se c’è un problema di accesso al credito. In quel caso si fa un fondo di mutuo soccorso. Si possono occupare le case, le scuole, le fabbriche, senza bisogno di ricorrere alle molotov. Sicuramente non si rischia di ammazzare o farsi ammazzare per la riforma della scuola. C’è chi ha affrontato torture o è stato ucciso perché pensava di dover liberare un popolo o una Patria. Piagnucolare perché il poliziotto non è stato così cortese da prendersi le sassate senza farsi rodere il chiccherone è un po’ piccino.