di: Martina Bernardini (Barbadillo)
Marino Micich, figlio di esuli della Dalmazia, è direttore del Museo Archivio Storico di Fiume,
nato grazie alle donazioni degli esuli e mantenuto in vita dalle
stesse. Micich lo abbiamo incontrato in occasione di una conferenza che
si è tenuta presso l’Istituo Alberti di Roma, su iniziativa degli
studenti. “Bisogna iniziare proprio dalla scuola a parlare di storia –
racconta – E’ importante che i giovani si formino una coscienza
attraverso lo studio, e soprattutto attraverso lo studio della propria
storia di italiani. Un popolo è popolo quando conosce la storia
della collettività e quando è in grado di apprendere la lezione che
quella storia vuole trasmettere. In questo caso parliamo di
Foibe, dei massacri perpetrati contro gli italiani della Venezia-Giulia e
della Dalmazia, dell’esodo forzato di oltre 300mila italiani da quelle
terre ad opera degli jugoslavi comunisti dopo la Seconda Guerra
Mondiale. Solo conoscendo queste pagine, anche se brutte e tristi,
possiamo diventare uomini migliori”.
Marino Micich è nato nel 1960 nel campo profughi del villaggio Giuliano-Dalmata a Roma.
Città che lo ha salvato. Perché “a Roma – ci racconta – l’accoglienza,
rispetto a molte città del Nord, è stata migliore. “Noi figli di esuli
siamo cresciuti insieme. Siamo stati più fortunati anche di quelli che
sono cresciuti in ex manicomi o caserme per tanti anni. E siamo stati
fortunati anche perché eravamo una comunità”.
Raccontare questa pagina tragica
della storia d’Italia, per Marino Micich è l’unico modo per rendere “un
doveroso omaggio a quegli italiani che hanno pagato oltremodo
il prezzo di una guerra persa da tutto il Paese, uccisi barbaramente,
senza processo e senza giustizia”. E loro, il prezzo di quella guerra
persa da tutta l’Italia, non l’hanno pagato solo con la vita, ma anche
con l’oblio, visto che “per molti anni si è voluto tacere su questa
vicenda”. Un oblio che diventa “dannazione”, la “dannazione giornaliera
dei nostri padri e di noi figli che siamo nati nei campi profughi tanti
anni fa”, racconta Micich.
Parlando di dannazione viene in mente la damnatio memoriae dei Romani,
la pena con cui si ordinava la cancellazione della memoria di una
persona, e si distruggeva qualsiasi traccia potesse tramandarne il
ricordo ai posteri. “E’ proprio questo il meccanismo che si è innescato
nei confronti degli italiani della Venezia-Giulia, di Fiume e della
Dalmazia per motivi ideologici”. Micich, infatti, ha anche ricordato le
responsabilità dei partiti comunisti dell’epoca, che “vedevano nella
Jugoslavia un Paese progressista – spiega ancora – E anche se avevano
commesso dei crimini alla frontiera, si è ritenuto che quei crimini si
potessero, se non perdonare, almeno tacere”.
Alcuni passi in avanti sono
stati fatti: 10 anni fa, con la legge n. 92 del 2004 si è istituita la
Giornata del Ricordo in onore delle Foibe. “Si è aperta una
finestra – ha commentato Micich – Quella legge fu voluta e votata dal
Parlamento italiano, come a denunciare la strumentalizzazione ideologica
che si fa della storia”.
Ma forse non basta. “Bisogna portare avanti altri discorsi e altri progetti,
delle politiche precise, iniziate qualche tempo fa, che però fanno
fatica a svilupparsi anche a livello ministeriale. Se condivisa e se
discussa democraticamente anche dai partiti politici, la memoria può
aiutare a creare quel senso di casa comune in cui gli italiani si
sentano innanzitutto italiani. Non si può creare una memoria sulle
menzogne e sulle omissioni. Bisogna conoscere per poi camminare in
avanti”.
Quando si riferisce a politiche precise, Micich fa anche riferimento ai fondi stanziati a favore del Museo di cui è direttore,
che dai 100mila inizialmente previsti sono passati a 35mila. Inutile la
battaglia in Parlamento del senatore Di Biagio e del deputato Rampelli
per ripristinarli, anche solo parzialmente. “Ho inoltrato un comunicato –
ci racconta ancora – in cui spiego che è giusto ricordare tutto ciò che
riguarda la nostra società civile, e che pertanto è doveroso evitare la
discriminazione della nostra cultura. Cultura che passa anche
attraverso le parole e il ricordo, ma non solo. Perché – spiega – una
volta che saranno morti gli anziani e i vecchi, se non provvediamo a
conservare documenti, immagini e fotografie, tutto sarà sparito. La
storia si testimonia anche con i documenti. E se un domani il Museo
sparirà perché noi figli non ce la faremo più a tenerlo in piedi, e
verranno i rigattieri a vendere tutto, cosa diventerà la storia?”.