di Mario M. Merlino
In uno degli ultimi viaggi d’istruzione, a Berlino, la mia collega d’inglese portò con sé il figlio, un ragazzetto curioso e ciarliero. Dopo alcuni anni Thomas (questo il suo nome e ormai fattosi giovanotto) mi ha contattato per invitarmi ad un convegno, tenutosi sabato 15 febbraio, in una ampia sala di un hotel di fronte alla stazione della metropolitana, via Laurentina. E mi ha chiesto di aggiungere qualcosa al già nutrito numero di oratori. Il tema: le foibe e l’esodo. Organizzatori: i giovani di Forza Italia. Gli amici Rodolfo e Roberto, anch’essi docenti di storia e filosofia e coautori di alcune pubblicazioni (l’ultima il romanzo La guerra è finita, appena edito), storcono la bocca sia perché hanno una visione pessimistica, a mio parere riduttiva, dell’impegno interesse capacità delle nuove generazioni e sia perché avvertono come, con le sue scelte liberiste, il partito di Berlusconi rappresenti quanto di più distante possa esserci con quell’Italia ‘proletaria e fascista’ a cui abbiamo affidato mente e cuore (in primis Roberto con il fascismo di sinistra, mediato dall’aver studiato alla scuola di De Felice, ed io con il mio anarcofascismo, mentre Rodolfo è più prossimo alle posizioni espresse da Julius Evola e Adriano Romualdi).
Non posso dar loro torto perché, sebbene alla fisiognomica non sia dato il riconoscimento di scienza, la gran parte dei dirigenti, tutti rigorosamente in giacca scura cravatta azzurra camicia bianca sembrano rappresentanti di commercio porta a porta. E i loro interventi un compitino un po’ sciatto e di contenuto modello vecchio Bignami. Ricordo, al contrario, la piccola modesta umile battaglia di un Merlino sedicenne al liceo per evitare di portare la cravatta, sempre con il maglione a girocollo, e ringrazio il ’68 e dintorni, fra molte altre cose, di aver potuto fare l’insegnante con i capelli lunghi la camicia fuori dei pantaloni e aperta sul collo. E ricordo quando la preside mi chiese con garbata ironia ‘quando avremo il piacere di vederla, professore, con i capelli corti?’ e la pronta mia risposta: ‘solo se lo vorrà la natura’…
Seguono gli interventi più direttamente specifici l’argomento sulla tragedia delle genti istriano dalmate e di Fiume, genti italianissime fin dal tempo di Roma, e ascolto parole sul dovere di possedere una memoria condivisa di instaurare civile dibattito di auspicare il superamento di destra e di sinistra in nome del dramma che ha offeso e lacerato la Patria tutta. Quel bla-bla-bla di buoni sentimenti, un minestrone insipido dove galleggiano le parole del politicamente corretto. Si chiude qui, anzi no, perché mi tocca, mi si chiede d’intervenire, presentandomi come un pezzo di storia (?), forse confondendomi con un cimelio d’archeologia… E preciso subito che non credo ad alcuna memoria condivisa, ognuno si tenga stretta la propria con i sogni gli ideali errori e orrori compresi (ciò vale per uno degli intervenuti che s’è fatto puntiglioso accusatore del fascismo, dando così il pretesto a coloro che giustificano ‘la pulizia etnica’ quale reazione, magari eccessiva, dello slavo assassino); che non può esservi alcuna civile dialettica e che la Patria (quella, appunto, che un tempo avvertivamo obbligatorio scrivere con la maiuscola in quanto, in primo luogo, te la portavi dentro, tua nella mente e nel cuore) l’è morta da lunga data.
E rinnovo quanto già scritto qui, su Ereticamente, del corteo di Trieste, con le sue atmosfere e suggestioni, il lungo lento silenzioso sfilare dalla chiesa di Sant’Antonio fin su a San Giusto e al monumento ai caduti. Di Trieste, città di confine, anch’essa preda delle bramosie titine in quei 55 giorni di occupazione e con la foiba di Basovizza a muta eloquente testimonianza di cosa rappresentò la cappa mefitica di quei lunghi oscuri giorni. E il rientro a Roma e, la notte stessa, la città deturpata da scritte infami e da manifesti in cui si inneggiava a Tito il boia e ai suoi sgherri. Cosa con costoro avere da condividere, quale memoria e civile convivenza? E, se va riconosciuto alla destra il merito d’aver approvato il giorno del ricordo, quanto poi s’è adoperata per renderlo patrimonio comune? Uno sceneggiato in televisione Il cuore nel pozzo dove, accanto a numerose ambiguità, non una volta è stata pronunciata la parola ‘comunismo’… E’ Lenin ad affermare che la conquista del territorio passa attraverso la conquista delle coscienze…
E cosa aver da spartire con quel consigliere comunale di Milano, lista del sindaco Pisapia, che ha scritto sul suo profilo come ci sia ancora posto nelle foibe? Io appartengo a quella generazione che, negli anni ’70, fu coinvolta dal terrorismo e accusata di terrorismo, beh, questa volta non ci troveranno impreparati e nelle foibe ci buttiamo loro… Immediata scatta l’apoteosi, una prolungata ovazione d’applausi… (Ognuno di quelli che conoscono ormai l’innata mia ‘modestia’ può immaginare il rossore sul volto, la testa e lo sguardo basso, la vergogna… ahahah…).
Carissimi Rodolfo e Roberto, ho sempre difeso quanto annotava Mishima Yukio e cioè come le emozioni antecedono il ragionare (non per altro mi definisco felicemente orfano dell’illuminismo e del marxismo). Amo la tragedia greca, soprattutto quella di Eschilo e Sofocle; condivido essere la filosofia uno dei tanti vani simulacri come pensava Céline; mi annoia da tempo leggere – e scrivere – saggi, mentre credo – e scrivo – dell’uomo che dà testimonianza in carne ossa e sangue (lo testimoniano Atmosfere in nero, Ai confini del nero e l’ultimissimo La guerra è finita). Non mi faccio, però, strane illusioni, non mi aggrappo a future premesse o promesse. Non mi sento deputato ad essere una sorta di chioccia sotto le cui ali protettive e sagge accorrono pulcini… Quei ragazzi, in quel momento, esprimevano quanto era in loro non quanto io dicessi; si spogliavano di giacca cravatta e incarichi per ritrovare, in qualche sperduto angolino di se stessi l’ardore e l’ardire della giovinezza di cui ci siamo nutriti (‘primavera di bellezza’). Poi, domani, torneranno ad essere figli di questo tempo in cui noi, oramai, ci sentiamo spaesati, ma pure abbiamo compiuto il dovere d’essere parola e azione e, se un seme saprà germogliare, vorrà dire che siamo stati degni e partecipi alla ‘bella battaglia’…