di Marcello Veneziani
Relativismo, teatro dello specchio e solitudine del narcisismo. Così il grande scrittore ha anticipato le inquietudini di oggi
In principio fu la teoria della relatività. Nel 1921, quando Einstein ebbe il premio Nobel, Tilgher dedicò un libro ai relativisti contemporanei ma la punte più avanzate lui le situava fuori dalla filosofia: il teatro pirandelliano e l'ascesa del fascismo, definito «assoluto attivismo trapiantato sul terreno della politica». Mussolini ritenne «esattissima» la definizione di Tilgher e la usò per superare le categorie morenti della politica e giustificare il suo transito dal socialismo alla nazione. Ma il relativismo è pure la chiave del teatro pirandelliano. Finirà col diventare la sua prigione, notò Leonardo Sciascia che ritenne l'intuizione di Tilgher «una formula lucida e perentoria» che irretì il drammaturgo e la sua opera. Il punto di rottura tra i due sarà proprio il fascismo. Pirandello aderisce al fascismo all'indomani del delitto Matteotti, chiede la tessera che poi straccia e riprende negli anni, firma il manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile, e poco prima di morire dona la medaglia d'oro del suo Premio Nobel alla patria. La prima volta che incontrai Indro Montanelli mi raccontò che Pirandello gli aveva detto: «il fascismo è come un tubo vuoto, ognuno ci mette dentro quel che vuole». Scoprì poi che non l'aveva detto solo a lui... Relativismo al quadrato. Quando Pirandello aderisce al fascismo, Giovanni Amendola lo definisce un uomo volgare e Tilgher si rifiuta di sottoscrivere il documento di Bontempelli, Beltrametti e D'Amico in sua difesa. Tilgher, invece, firma il manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce, che ha frequentato a Napoli. E dedica a Gentile un pamphlet feroce e ingeneroso, Lo spaccio del bestione trionfante, parafrasi di un'opera di Giordano Bruno. Tilgher si pone contra Gentile come Schopenhauer versus Hegel (non a caso dedica a Schopenhauer la stroncatura antigentiliana). Ma molte sue opere s'intrecciano a quelle di Gentile: ambedue esaltano l'umanesimo del lavoro - Homo faber per Tilgher, Genesi e struttura della società per Gentile - e il primato dell'etica sull'economia; ambedue scrivono saggi su Leopardi considerandolo filosofo, ambedue pensano che l'arte viva è quella che coglie lo spirito del presente e lo eterna. A sua volta Pirandello scrive una lettera affettuosa a Tilgher nonostante avesse firmato il manifesto antifascista e lo invita a fondare con lui il Teatro d'Arte. Lo sente come suo suggeritore filosofico e non dà peso alla divergenza politica.
Cosa coglie Tilgher in Pirandello da ritenerlo interprete acutissimo dell'epoca? Il suo teatro inscena il dramma di vedersi vivere; è la vita allo specchio, l'io che si separa dalla sua vita e la vede dall'esterno, riflessa, in una forma di narcisismo tragico. «Conoscersi è morire» dice lo stesso Pirandello in una sua novella, La carriola. Il conflitto tra Forma e Vita, ovvero tra Realtà e Possibilità, tra Fissità e Fluidità, è alle origini del suo drammatico relativismo. Così è se vi pare, e tutte le opinioni si equivalgono, cioè Ciascuno a suo modo, per dirla con due titoli pirandelliani. Il passaggio-chiave lo offre lo stesso Pirandello quando scrive: «Quando uno vive, vive e non si vede. Orbene fate che si veda, nell'atto di vivere, in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti»; ciò scatena reazioni irate, sorprese, sdegnate, «e se piangeva, non può più piangere, e se rideva non può più ridere... Questo guaio è il mio teatro». Croce stroncò Pirandello e «il suo convulso e sconclusionato filosofare». Lo difese Gentile. Intanto, il drammaturgo moriva. Era il dicembre del '36. In un penetrante saggio compreso nella raccolta citata, curata da Pierfrancesco Giannangeli, Tilgher descrive acutamente «il mondo poetico di Pirandello». Secondo Tilgher i suoi drammi sono monocordi ma da quella sola corda «trae melodie di straziante intensità». Si avverte sotto la selvaggia libertà della natura «il ruggire di un identico fuoco sotterraneo», quella lava che scorre tra le due vulcaniche personalità. Tilgher arriva a dire che Pirandello ha fatto chiarezza interiore nella sua stessa opera leggendo i saggi tilgheriani su di lui. Ma aggiunge, con un tocco davvero pirandelliano, che avrebbe fatto meglio a non leggerli, quei suoi saggi... La maledizione di conoscersi. Alla fine anche il pensiero di Tilgher resta irretito nel relativismo pirandelliano.
Quei personaggi che vivono il dramma di vedersi vivere anziché vivere, non sono i precursori della nostra epoca mediatica in cui vivi solo se ti vedi e ti rendi visibile, se appari in video e ti filmi in un clip, se fai l'autoscatto, se sei su facebook, su twitter? E il relativismo dei valori e delle situazioni, il teatro dello specchio, la solitudine del narcisismo cerebrale, non riflettono la condizione odierna e la perdita della realtà nel nome della sua immagine? Pirandello è il sismografo dell'uomo contemporaneo e Tilgher è il suo profeta. Il suo relativismo tragico è di una specie ulteriore rispetto a quello che divide i credenti dagli atei; sapere per lui è patire, conoscersi è soffrire, ma non puoi sottrarti. Pirandello rovescia il rapporto tra l'esterno e l'interno; vede col cervello, pensa con gli occhi. Tutto si fa relativo, solo il caos resta assoluto.