lunedì 28 ottobre 2013

Ancora dieci anni e l’Italia sarà come Puerto Rico


di Filippo Bovo

A volte provo ad immaginarmi come sarà l’Italia fra cinque o dieci anni. Non mi considero un pessimista, tutt’altro, ma a giudicare dal cammino intrapreso a partire dalla Seconda Repubblica e consolidatosi in questa “traversata del deserto” che è il passaggio alla Terza, ho il neanche troppo vago sospetto che finiremo per diventare sempre più una colonia americana, di nome e di fatto.
E’ recentissima e sta facendo il giro di tutte le testate la dichiarazione del ministro Saccomanni, ospite da Fazio, che ha affermato come entro dicembre il governo presenterà un programma per la riduzione dell’indebitamento e la riduzione della pressione fiscale da raggiungersi attraverso la dismissione di beni pubblici ma soprattutto delle quote azionarie delle imprese ancora detenute dal Tesoro. Come al solito si torna a parlare della privatizzazione (in verità già avviata sul finire della Prima Repubblica, ora da completarsi) delle varie ENI, ENEL, Finmeccanica, ecc, ma anche della RAI. Già, la RAI: ovvero la più grande “impresa culturale” del nostro paese, “deculturizzata” da anni di malagestione dei partiti e di tutto il loro sottobosco di raccomandati e ridotta ormai a carne di porco. Nel Secondo Dopoguerra la RAI ebbe il merito di scolarizzare generazioni d’italiani, vecchi e giovani, che per decenni dopo l’Unità d’Italia avevano continuato ad essere dialettofoni e a restar divisi tra settentrionali e meridionali, tra lombardi, siciliani e toscani, da barriere culturali e linguistiche che neppure la scuola pubblica era riuscita ad affrontare con pieno successo. Pur senza rinunciare allo svago ed all’intrattenimento leggero, quella RAI un po’ democristiana ed in seguito un po’ consociativa riuscì anche a “rifilare” agli italiani programmi e momenti d’indiscutibile cultura, dagli sceneggiati che rendevano accessibili a tutti pagine di bella letteratura ai documentari che illustravano agli spettatori il mondo e l’Italia che cambiavano giorno dopo giorno grazie al boom economico ed industriale. Indubbiamente gli italiani ne uscirono arricchiti, forse istruiti in modo paternalista ed interessato da parte d’una classe politica che aveva comunque la necessità di perpetuarsi incensando certe cose e censurandone altre, ma pur sempre arricchiti. Poi arrivò la TV commerciale, non solo di Berlusconi, che non inventò proprio nulla di nuovo ma semplicemente importò in Italia quello che già esisteva all’estero: una serie di “format” (come va oggi di moda chiamarli) e di modelli culturali d’impronta anglosassone nei confronti dei quali gli italiani, al pari di tutti gli altri popoli mediterranei o latini, non possedevano adeguati anticorpi culturali. A quel punto la colonizzazione culturale del popolo italiano da parte dei modelli anglosassoni e più precisamente americani (iniziata ad onor del vero fin dall’immediato Dopoguerra) si fece sempre più massiccia e pervasiva. La stessa RAI, per competere con le nuove TV commerciali, si ritrovò in pratica costretta a torto o a ragione a doverle sfidare sul loro stesso terreno. Ve lo ricordate? Erano gli anni del cosiddetto “edonismo reaganiano”. Un edonismo anche e soprattutto culturale. Tuttavia, anche in quel frangente così come negli anni successivi, la RAI mantenne faticosamente il suo ruolo di “servizio pubblico” continuando a fare approfondimento, intrattenimento culturale e così via. Malgrado i compromessi culturali a cui era dovuta scendere, restava pur sempre una (leggera) spanna al di sopra delle TV commerciali. Tutto questo è venuto meno con l’ultimo decennio: ormai non c’è più differenza tra la RAI e le TV commerciali. Gli italiani ormai non hanno più “mamma RAI” che si cura della loro istruzione: si ritrovano di fatto privati dalla politica della più importante impresa culturale del nostro paese. La privatizzazione della RAI, che verosimilmente si concluderebbe con uno spezzatino e col fagocitamento della grande TV di Stato da parte di privati stranieri e nostrani, con la prospettiva che magari tutto finisca come nel caso di Telecom, è semplicemente l’ultimo atto d’un processo d’eliminazione della “televisione pedagogica” del passato, che sapeva far cultura, e segna la definitiva affermazione del modello culturale americano nel nostro paese.
I contemporanei tagli alla cultura, a cui questo paese assiste ormai da anni ovvero da legislature, completano il quadro di svuotamento e svilimento culturale dell’Italia, che si ritrova e si ritroverà ad essere sempre più privata della propria identità e dei propri riferimenti culturali a vantaggio dei modelli anglosassoni. Non parlo solo dei tagli alla tutela del patrimonio storico ed artistico, che sono probabilmente una delle cose più scandalose, ma anche dell’imbarbarimento e dello scadimento del cinema italiano, ridotto ormai ad una caricatura di ciò che era un tempo. In passato v’era Cinecittà, una potenza industriale al servizio del cinema: ora è un deserto. E che dire della letteratura? Basta fare un giro in libreria per essere presi dallo sconforto: giovani generazioni di scrittori crescono scimmiottando i modelli inglesi ed americani. Siamo pronti alla colonizzazione culturale da oltre Oceano in maniera definitiva ed irreversibile, in tutti i sensi.
Tutto questo fa il paio col processo di deindustrializzazione del paese. Parlavo delle privatizzazioni accennate da Saccomanni: non solo la RAI, ma anche ENI, ENEL, Finmeccanica, ecc, tutte destinate a finire come sappiamo: in mano a stranieri che le succhieranno fino all’ultimo lasciandoci in mano soltanto dei gusci vuoti. Il paese, nel giro di pochi anni, si ritroverà privato di quelli che oggi va tanto di moda definire come “assets strategici”. Ma anche la grande industria privata è in sofferenza: si pensi alla FIAT, che fugge oltre Oceano, o all’ILVA, un gigante in agonia. O ancora alla piccola e media impresa: dall’inizio della crisi a chiudere i battenti sono state in 32mila. Secondo la London School of Economics, nel giro di dieci “dell’Italia non resterà più nulla”: passeremo da grande paese industrializzato, la seconda manifattura in Europa dopo la Germania, a nazione “terzomondizzata”. Guardacaso, proprio ora che questo processo di “terzomondizzazione” e di “deindustrializzazione” è in atto, arriva il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti, che invece stanno facendo carte per “reindustrializzarsi” a più non posso: in pratica si metteranno nella stessa vasca gli squali e le sardine (ovvero l’Italia). L’Italia, tra qualche anno ormai priva d’un apparato industriale paragonabile a quello odierno, con tassi di disoccupazione vieppiù gravi, con una crescente fuga di cervelli, con un’economia sempre più in contrazione ed uno Stato dalle entrate in progressivo calo, si ritroverà sul ring insieme a paesi ben più potenti ed industrializzati, nonché culturalmente predominanti. Come potrà sopravvivere senza ridursi al rango di colonia? Su quel ring le incasserà e basta.
C’è poco da girarci intorno. Un paese privato della sua industria, oltre che della sua cultura, sarà una perfetta colonia commerciale e culturale per altri che invece avranno modelli industriali e culturali predominanti. In parole povere finiremo come Puerto Rico: una colonia americana modello.