di Marco Valle, Secolo d'Italia
Qualche anno fa Paolo Nicoloso, studioso di storia dell’architettura del Novecento, nel suo “Mussolini architetto, propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista” (Einaudi) — un lavoro importante, critico e non inutilmente fazioso —, fu costretto ad ammettere che: «in Italia, il senso di appartenenza a una comunità nazionale è assai debole e il patrimonio architettonico è una straordinaria risorsa su cui costruire le basi dell’identità. Ma proprio a questo scopo l’architettura è stata utilizzata dal fascismo in modo eccellente, come mai nessuna nazione moderna aveva fatto… di nuovo, “l’arcana potenza” di quest’arte ritorna a produrre suggestioni collettive. Alla fine, il disegno di Mussolini, di parlare ai posteri del fascismo attraverso l’architettura, appare dunque vincente».
Una valutazione forte che sollevò a sinistra — la destra, come al solito, era in altre cose affaccendata…— un dibattito importante. Su “Liberazione” Lucia De Vezio scrisse una densa recensione dell’opera di Nicoloso, significativamente intitolata “Sta vincendo Mussolini?” ricordando, in primis, che già «Piero Della Seta e Roberto Della Seta in un testo fondamentale (“I suoli di Roma”, Editori riuniti, 1988) hanno analizzato approfonditamente la politica fondiaria del fascismo, smentendo le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica fascista e quella dei governi democristiani, arrivando a concludere che “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. L’emancipazione dagli interessi speculativi è stata evidentemente una condizione essenziale per consentire all’architettura di svolgere al meglio quella funzione rappresentativa e simbolica che Mussolini le attribuiva». La De Vezio concludeva, concordando con l’autore, che «amaramente si registra una sorta di rivincita del fascismo, a partire proprio dall’architettura. È in sostanza la presa d’atto di una più generale crisi della cultura e della politica (a cominciare da quelle di sinistra) che non hanno saputo fornire all’opinione pubblica italiana, e ai giovani soprattutto, un’alternativa efficace alla “fascinazione” fascista».
Qualche tempo dopo, Paolo Portoghesi — antico incendiario postmoderno e oggi pompiere accademico —, ammise in un suo articolo su “L’Osservatore Romano” —sic transit…— non solo il valore del libro di Nicoloso ma anche, con qualche inevitabile banalità, le ragioni di Mussolini “architetto e urbanista” e soprattutto riconoscendo, finalmente, che «i razionalisti italiani, i critici come Bardi, Bontempelli, Belli e gli architetti come Pagano, Terragni, Moretti, erano dei convinti fascisti e tentavano la difficile impresa di italianizzare e quindi fascistizzare il razionalismo puntando sulla radice “mediterranea” e sulla vocazione mistica dell’astrattismo. Alcuni, come Michelucci, Cosenza e anche Pagano, cercavano radici e archetipi nella modernità della tradizione popolare dell’architettura senza architetti».
Insomma, una rivalutazione imbarazzata ma piena del grande sforzo modernizzatore dell’esperienza mussoliniana che, come ricorda proprio Portoghesi, ha rivelato «la capacità di definire una forma urbana che, nonostante la magniloquenza, si è rivelata adatta alle esigenze della vita collettiva assai più di certi quartieri del dopoguerra, ispirati dalla retorica collettivista».
Al tempo stesso, sulla scia del successo dei libri di Pennacchi sulle bonifiche pontine e le “città di fondazione” e, soprattutto, della sua lettura, magari confusa ma innovativa, della dialettica città-campagna, ruralismo-industrializzazione del sulfureo ventennio, la polemica sui meriti o demeriti della politica architettonica e urbanistica del regime si è ravvivata e arricchita. Ma non solo. In questi anni — nel silenzio dell’ex destra di governo, imbarazzata dinanzi a questa inattesa “rivincita mussoliniana” — sempre più storici hanno iniziato, con gran disappunto di vetero azionisti torinesi come De Luna e Revelli, ad indagare i tanti aspetti misconosciuti della modernizzazione autoritaria italiana. Senza sconti e senza paraocchi.
Pensiamo, ad esempio, ai saggi di Eugenio di Rienzo ed Emilio Gin sulla diplomazia fascista e le intricate problematiche del periodo bellico, ai lavori di Marino Ruzzenenti e Mauro Canali sulle politiche energetiche mussoliniane o alla ricerca di Stefano Pisu sulla cinematografia e i rapporti culturali italo-sovietici.
Un laboratorio futurista tra le Apuane e il Tirreno
L’elenco potrebbe continuare ma preferiamo fermarci e riflettere su un libro decisamente interessante: “Apuania, provincia di fondazione” di Paolo Camaiora (Eclettica edizioni, Massa, 2013. Ppgg. 200 – euro 25,00). L’autore, carrarese Doc, è un architetto innamorato del razionalismo e della sua terra e, fortunatamente, poco attento ai dettami del “politicamente corretto”. Supportato da un ricco apparato iconografico e documentale, Camaiora ha indagato, intrecciandoli — in un viaggio interdisciplinare, secondo l’insegnamento di Bloch e Braudel — i mutamenti sociali e politici e le politiche urbanistiche e amministrative della provincia di Massa e Carrara nel periodo tra le due guerre. Una scelta adeguata e intelligente, purtroppo appesantita un eccesso di vis polemica che rischia di penalizzare inutilmente un lavoro altresì serio e importante.
In ogni caso, ripercorrendo le vicende di questo frammento d’Italia il lettore di cultura non ovvia, accanto e oltre alla storia locale, troverà ulteriori lenti per comprendere le logiche e le dinamiche che sottintesero l’imponente sforzo di modernizzazione e razionalizzazione dell’Italia attuato dal regime.
Facciamo un passo indietro. Negli anni Venti, complice la grande crisi mondiale, l’antico dominio estense si era ridotto ad un’area depressa, terribilmente povera e sempre incatenata all’oscillante economia marmifera. Per di più, nonostante i mutamenti politici, il territorio rimaneva straziato dalle tensioni municipaliste tra Massa e Carrara e avvelenato da solidi rancori sociali. Una situazione insostenibile per l’Italia “fascista e proletaria”.
Su impulso di Renato Ricci, capofila del fascismo locale e allora Presidente dell’Opera Nazionale Balilla, e di Osvaldo Sebastiani, nel 1937 fu decisa la realizzazione di una grande zona industriale — il piano Sebastiani — a cavallo tra le due città e, nel ’38, venne istituita la ZIA (Zona Industriale Apuana). In tempi record furono sistemati e bonificati i terreni, canalizzati fiumi e torrenti, posati binari, costruite banchine e, subito dopo, innalzati gli stabilimenti. Nell’arco di pochi anni, circa sessanta aziende — attratte dai generosi sgravi fiscali — s’impiantarono nel distretto e ottomila persone trovarono lavoro.
Un successo pieno a cui corrispose un parallelo piano urbanistico che prevedeva la fusione dei tre centri interessati — Carrara, Massa e Montignoso — in un unico nuovo comune, Apuania. Come sottolinea l’autore «nel caso specifico, l’ambizioso progetto di sviluppo non prevedeva soltanto quello industriale, ma anche quello abitativo. La fusione delle tre città in una sola, la realizzazione dei viali a mare e dei viali perpendicolari alla costa, le reti viarie secondarie, altro non erano che assi di demarcazione dello sviluppo urbano del territorio dove, però, ferree erano le disposizioni in materia di costruzione e di edificabilità».
Sotto la supervisione di Ricci — che, da uomo intelligente, si avvalse dei consigli di Enrico del Debbio, l’architetto del Foro Mussolini a Roma, e dallo scultore Arturo Dazzi — il paesaggio cambiò volto e fisionomia. Il piano regolatore dell’epoca, parzialmente realizzato e nel dopoguerra stravolto, esprimeva «insieme con una visione moderna dell’assetto territoriale, anche un’idea dei rapporti sociali: le case economiche localizzate in aree vicine alle attività produttive o nelle fasce più interne, mentre villini e palazzine collocate sugli assi viari principali». Gran parte dei progetti rimasero sulla carta, ma gli edifici realizzati a Carrara — il Palazzo delle Poste e la sede della Gioventù Italiana del Littorio — e a Massa — i grandi stabilimenti della Zona Industriale—, le colonie marine sulla costa e i nuovi borghi delle zone bonificate, testimoniano tutt’oggi l’ampiezza e la forza innovativa del progetto.
Nel 1938, a sigillo e garanzia del piano di sviluppo, il governo fascista volle chiudere in modo drastico le diatribe municipaliste e decise non solo d’unificare, come sopra accennato, i tre centri maggiori in un unico grande Comune, ma di fondare una nuova Provincia, anch’essa di nome Apuania. Una scelta coraggiosa che seppelliva polemiche passatiste, razionalizzava funzioni e servizi e formava un’area socio-economica organica e funzionale al sistema Italia. Come nota Camaiori, Apuania fu «la risultante di un’operazione futurista, cioè proiettata nel futuro, partendo dal risolvere il dato oggettivo, sociale, della povertà che affliggeva la popolazione».
L’esperienza ebbe vita breve. Nel 1946, uno degli ultimi atti d’Umberto di Savoia fu proprio la cancellazione dell’effimera “Provincia di Fondazione”. Da allora, sotto le Apuane si tornò all’ordinamento post unitario e il vecchio, misero municipalismo — un impasto di grettezza, invidie e “pensieri corti” — ritrovò da spazio e fiato.
Di quel tempo ormai lontano e irripetibile restano, in Toscana come ovunque in Italia e nelle antiche colonie, le architetture. Gli edifici, le opere. Sono simboli potenti, che sfidano gli anni, i secoli. Come teme Nicolosi «le loro forme sono concepite per non essere consumate come moda passeggera, bensì per resistere nel tempo ed essere attuali “anche tra 400 anni”. L’architettura “con la sua costante presenza, modifica a poco a poco il carattere delle generazioni”, si legge nel Dizionario del fascismo, testo ufficiale del PNF. Essa dovrà ravvivare, per chi la vede, al tempo di Mussolini o tra qualche centinaio d’anni, un sentimento di appartenenza a una civiltà italiana e fascista, antica e superiore». Parole su cui riflettere.